Aiace versus Ulisse, Agamennone ed anche Renzi?

Mentre leggevo il prologo ad un pubblicazione (La vera storia della guerra di Troia) dell’amico Paolo non ho potuto non immaginare che fra i “nemici” di Aiace ci sarebbe sicuramente stato uno fra i più discussi politici attuali: Renzi, lo stesso che non ho mai avuto in gran simpatia e a cui avevo dedicato un articoletto “Politica e antipatie personali”.

Paolo ci fornisce un bellissimo ritratto di Aiace Telamonio, che cosi descrive “È un puro, non un ingenuo: e come tutti i puri davanti alla perfidia si trova disarmato, reagisce nella maniera sbagliata, soccombe. Combatte in nome di un ideale che è umano, non politico. Ecco: è un pre-politico, che non capisce nulla di compromessi, mediazioni, tradimenti, ambiguità, di tutto ciò che alla politica terrena e quotidiana appartiene e di cui la politica si sostanzia e si avvale.” Sono d’accordo. Aiace è un puro come quei cittadini che fanno il loro dovere senza nascondersi, che non tramano per saltare la fila, che non scendono in piazza per avere il vaccino preferito, che rispettano insomma le regole che la comunità si dà.

Dovremmo riflettere di più sul fatto che se tolleriamo che i meccanismi politici premino tradimenti, ambiguità e falsità, tutto in nome del fatto che contano i risultati, facciamo funzionare un meccanismo premiale selettivo che favorisce i “furbi” e i prepotenti, ovvero gli egoisti; il prevalere di questi comportamenti, e dei soggetti che li esprimono, mette in crisi le regole morali basilari che consentono la sopravvivenza di qualunque gruppo sociale più o meno numeroso. E allora, di fronte alla evidente ingiustizia di cui è vittima, non c’è il rischio che  Aiace diventi “giustizialista”? che si convinca che, in mancanza di alternative che rispettino la sua concezione di equità, solo certe proposte politiche autoritarie siano viste come la soluzione?  Riflettiamoci su, e buona lettura

Nicola Parodi

AIACE E L’OMBRA 

Che peso hanno i miti adolescenziali nella nostra vita? Ci formiamo imitando i nostri eroi, o essi sono solo lo specchio del nostro carattere? Ovvero, per andare alla madre di tutte le domande: prevale in noi la determinazione genetica o l’apprendimento culturale? Non lo so, non sono né un biologo né un filosofo: l’unica risposta che mi sentirei di dare è quella dettata dal buon senso: apprendiamo necessariamente in base a quanto l’ambiente ci offre, ma scegliamo tra le offerte in base alla nostra disposizione. Capisco che suoni scontato, ma vale forse la pena riflettere su ciò che davvero significa.

Ho appena terminato di leggere Sulle orme di Ulisse, di Piero Boitani. Senza molti rimpianti, devo confessare, e con una crescente sensazione di fastidio. L’autore usa il pretesto del personaggio mitico, anzi, della sua passione per quel personaggio (una passione ben ripagata, che gli ha ispirato il suo libro più famoso, L’ombra di Ulisse), per scrivere un’autobiografia nella quale letture, incontri, viaggi, vita familiare e sentimenti sono concatenati dal filo rosso dell’eroe omerico. Cosa più che lecita, non fosse che l’uso pretestuoso è fin troppo esibito, e più che ad una interpretazione dà luogo ad una autocelebrazione, forse un tantino prematura. Ma in fondo, quando si teme che altri abbiano a narrare la tua biografia, o peggio, che non lo farà nessuno, è bene pensarci per tempo. In qualche modo lo fa chiunque scriva. Madame Bovary c’est (toujour) moi.

Non voglio però sindacare il valore del libro o la sua legittimità: mi intriga invece il tema dell’eroe al quale si ispira una vita. E, visto che nel caso di Boitani quell’eroe è Ulisse, mi sento chiamato in causa. A me infatti Ulisse è sempre stato antipatico, anche nella versione cinematografica con Kirk Douglas o in quella televisiva con Bekim Fehmiu. Non è una semplice antipatia di pelle: nasce dalla sua fama di “troppo furbo”, dalle stragi compiute nottetempo, in compagnia di Diomede, nel campo dei troiani addormentati, e soprattutto dal fatto che è responsabile della misera fine di colui che invece da sempre è stato il mio eroe preferito, Aiace Telamonio.

Non avendo come Boitani nonni o zii che mi leggessero l’Odissea o la Divina Commedia a tavola, per conoscere Aiace ho dovuto attendere le medie. Per uno che arrivava fresco fresco dai fumetti di Blek Macigno e dai film con Steve Reeves non poteva essere che amore immediato. Aiace mi offriva la personificazione epica di quel tipo di eroe, lo legittimava culturalmente e lo proiettava indietro sino alle origini della storia. “Chi è quell’altro Acheo, forte e grande, che li supera tutti in statura e nelle ampie spalle?” chiede Priamo. Ed Elena gli risponde: “Quello è l’immenso Aiace, baluardo dei Greci”. Il più alto e il più prestante degli Achei, per Omero, soprattutto il più coraggioso e il più costante. Secondo solo ad Achille: ma Achille per me non contava, era direttamente imparentato con gli dei, un fuoriquota, una sorta di eroe Marvel dotato di superpoteri. Il confronto andava fatto con gli altri, con gli umani: e lì non c’era storia.

L’Iliade è una telenovela di intrighi che nemmeno Beautiful, con divinità rancorose che si fanno i dispetti, si abbassano a meschine vendette trasversali e usano gli uomini come burattini, ed eroi (Achille compreso) sempre in cerca di una protezione e di una raccomandazione. Ebbene, l’unico non raccomandato, che confida solo in se stesso, nel proprio coraggio e nella propria forza, è Aiace Telamonio. Ogni volta che c’è una bega nel campo, cosa che accade in continuazione, e i troiani ne approfittano per cercare di rompere l’assedio e rispedire a casa gli Achei, il solo che si presenta impavido a fare argine contro i nemici è Aiace. E che argine! Davanti alle navi che rischiano di essere incendiate alza una trincea con i corpi dei nemici abbattuti. Il suo duello contro Ettore si conclude alla pari, ma ci fosse stato a quel tempo l’antidoping sarebbe finita diversamente. Nella mischia che si scatena attorno al cadavere di Patroclo fa miracoli, e l’immagine di lui che copre i compagni mentre portano via il corpo, retrocedendo con la faccia rivolta ai troiani e tenendoli a bada con la sua formidabile lancia, è diventata un modello per ogni successivo racconto o film di guerra. Combatte a volte da solo, come quando salta da una nave all’altra e respinge gli avversari brandendo un lungo remo, e altre in formazione col fratello Teucro, formidabile arciere, che scocca i suoi dardi micidiali mentre Aiace lo protegge col suo enorme scudo-torre, rivestito di sette pelli di bue.

È un uomo di poche parole: quando si reca in ambasciata alla tenda di Achille, suo cugino, per convincerlo a rientrare in campo, mentre Ulisse e Fenice fanno lunghi discorsi pieni di miele lui taglia corto: qui stiamo perdendo tempo, a questo dei nostri problemi non importa un fico, torniamo al campo e cerchiamo piuttosto di organizzarci senza di lui (e Achille gli riconosce: hai capito tutto). La notte infine, mentre gli altri si dedicano a tramare contro gli stessi loro compagni o a fare strage di nemici addormentati, dorme come un sasso: ha la coscienza pulita, sa di aver fatto il suo dovere e di dover ritemprare le forze, perché domani sarà nuovamente battaglia.

Questo è l’Aiace che ho conosciuto alle medie e che mi ha conquistato. A dire il vero, non era solo. Condivideva il mio tifo proprio col suo avversario, Ettore, e quindi l’esito neutro del loro duello (chiuso dalla stupenda la frase di Ettore: “Ma scambiamoci l’un l’altro splendidi doni/ in modo che Achei e Troiani possano dire: / “Hanno combattuto una battaglia mortale, / ma si sono lasciati in amicizia ed armonia”, pronunciata in mezzo ad uno scenario di ininterrotta macellazione) non poteva essere per me più soddisfacente. Ma il troiano era un eroe più posato, più adulto, diciamo l’eroe della maturità, paladino di un’etica della responsabilità, mentre il principe di Salamina personificava l’etica adolescenziale del coraggio. Capivo già allora, sia pure confusamente, che il vero eroe era Ettore; ma nelle battaglie che inscenavo in cortile non potevo fare a meno di identificarmi in Aiace (mio fratello avrebbe dovuto impersonare Teucro, ma in genere si rifiutava). Non perché considerassi Aiace un vincente: anzi, al contrario, proprio perché, malgrado fosse il migliore, si capiva subito che uno così non avrebbe avuta vita facile (ed è qui che veniva fuori la “determinazione genetica”).

Gli indizi c’erano tutti. Quello più significativo era che in realtà Aiace non vinceva mai. Infatti impatta nel duello con Ettore, anche perché si mette di traverso il manager di quest’ultimo, Apollo; ma non vince nemmeno nei giochi per la morte di Patroclo: nella lotta libera non va oltre il pari contro Ulisse, che naturalmente usa un trucco, e nel duello con la spada, dove uno pensa dovrebbe fare degli avversari un boccone, è tenuto in scacco dalla maggiore determinazione di Diomede. Al contrario dell’avversario, che pur di raccattare un premio sarebbe disposto a scannare la propria madre, Aiace sembra a disagio, non riesce a scatenare la sua forza contro un commilitone. Era questo ad attrarmi, il fascino del perdente eroico, solo e sfortunato, al quale offrivo riscatto nelle mie rievocazioni domestiche.

All’epoca non sapevo della tragedia incombente. Omero infatti in proposito è molto vago. Nell’Iliade non ne parla, nell’Odissea vi fa cenno quando Ulisse incontra lo spirito di Aiace nell’Ade, ma non spiega nulla. Non c’era alcuna biblioteca di famiglia a soccorrermi, per cui dovevo accontentarmi delle scarne note dell’edizione scolastica, che mi rimandavano ad una imprecisata “triste fine”. Mi sono quindi tenuto la curiosità fino all’incontro con Foscolo e con i Sepolcri, e il prosieguo della vicenda ha naturalmente confermato che il mio eroe non poteva essere che lui. Secondo quanto raccontato sia nell’Etiopide che nella Piccola Iliade, due poemi del ciclo troiano andati perduti, ma dei quali conosciamo i contenuti, il destino di Aiace si compie quando arriva la vera resa dei conti, quella che non si gioca con i nemici, ma tra gli alleati dopo la vittoria. A quest’ultima peraltro Aiace ha dato un contributo fondamentale, ripetendo sul cadavere di Achille ucciso da Paride le prodezze compiute nella difesa delle navi. Ancora una volta è stato lui a tener testa ai Troiani imbaldanziti, facendo sfracelli con la sua enorme ascia, mentre Ulisse trascinava via il corpo.

È la sua ultima impresa. Dopo la caduta di Troia i vincitori si spartiscono il bottino, come ovvio. Ma questa volta c’è in ballo ben più del bottino. Ci sono proprio le armi di Achille sottratte ai troiani, che spettano al guerriero più valoroso come riconoscimento tangibile della sua superiore virtù. Una specie di Pallone d’Oro per il miglior combattente. Ora, per tutti gli Achei, che lo hanno chiamato a soccorso da ogni parte, per gli avversari stessi, come Ettore, che lo temono ma lo rispettano, ed evidentemente anche per Omero, il guerriero più forte, più determinante dopo Achille, quello più risolutivo per le sorti della guerra, è Aiace (già nel secondo libro Omero dice esplicitamente: tra gli uomini il migliore è Aiace Telamonio). Ma Aiace non ha sponsor, né in terra né in cielo. E quindi i complotti, gli intrighi di salotto, in questo caso di tenda, hanno la meglio. Le armi vengono attribuite ad Ulisse, che si è comprato il favore di Agamennone e di Menelao, oltre a godere già di quelli di mezzo Olimpo. Pesa anche un peccato di hybris di Aiace, che non si è piegato ad Atena, e questa se l’è legata al dito. E poi, scusante solita e comoda di ogni ingiustizia, c’è il Fato.

Insomma, Aiace è un semplice, uno che non capisce come funzionano i giochi: sa di essere il migliore, sa che quelle armi gli spettano e se le attende: quando gli vengono negate è talmente sorpreso ed avvilito che dà fuori, il sangue gli va alla testa, esce per la campagna e, imbattutosi in un armento al pascolo, stermina sia gli animali che i pastori, scambiandoli per i comandanti greci. Quando poi torna in sé non regge alla vergogna e al rimorso per ciò che ha fatto, e si getta sulla sua spada, la stessa che gli era stata donata da Ettore dopo il duello, a leale riconoscimento del suo valore (e quasi a risarcirlo di un arbitraggio assolutamente parziale).

A questo punto le versioni della vicenda si diversificano. Quella che mi piace di più, quella dei Sepolcri, dice che le armi furono strappate dalla prua della nave di Ulisse, che le aveva messe in bella vista per annunciare alla grande il proprio arrivo ovunque fosse approdato, e riportate sulle rive dell’Ellesponto a coprire la tomba di Aiace: a’ generosi/ giusta di glorie dispensiera è morte. Foscolo riprende qui la versione proposta da Pindaro nelle Nemee, dove già compare il tema dell’ingiustizia umana riscattata dalla memoria poetica, e raccontata negli stessi termini da Ovidio nelle Metamorfosi. Ma esiste anche un’altra versione, quella accennata nella Piccola Iliade e avvalorata poi da Sofocle, secondo la quale al cadavere di Aiace fu negato persino il rogo, inumazione riservata agli eroi, e il corpo venne sepolto in segno di disprezzo. Perché questo disprezzo? Sofocle parla di empietà. Nella sua ira Aiace ha intanto distrutto parte del bottino accumulato dagli Achei (gli armenti, appunto), e soprattutto avrebbe in precedenza inveito contro Atena, rendendosi responsabile di un imperdonabile atto di presunzione. In pratica è accaduto che, nel bel mezzo di una battaglia, alla dea che lo esortava a darci dentro Aiace ha chiesto di togliersi dai piedi, di badare piuttosto ai suoi protetti, ché lui sapeva pensare benissimo a se stesso. È chiaro che da quel momento Atena non ha avuto altro in mente che rovinarlo: gli ha perfidamente istillato la follia e lo ha circonfuso di un alone maligno, la fama di uomo impuro che porta con sé la disgrazia. Una tattica denigratoria che si è sempre rivelata efficace e ha distrutto fior di vite e di carriere.

Non ci sono solo gli dei, naturalmente, a voler infangare la memoria

di Aiace. I due piani, quello umano e quello divino, si intersecano. Tra i suoi commilitoni il più accanito è ancora una volta Agamennone. E si capisce il motivo. Uno come Aiace, onesto, coraggioso, non ruffiano e accondiscendente ai suoi giochi, non può che dargli fastidio. E quindi non solo lo umilia in vita, ma vuole farne scomparire o infamarne il ricordo anche dopo la morte: ne teme l’ombra. Inaugura una storia che si è puntualmente ripetuta nei secoli, al termine di ogni guerra o rivoluzione (anche in quelle spirituali, come il cristianesimo): nel campo dei vincitori gli eroi e gli idealisti, se sono sopravvissuti, vengono velocemente liquidati dai nuovi burocrati e dagli opportunisti, che provvedono a cancellarne o macchiarne la memoria.

Dicevo che l’Iliade è una telenovela: come tutte le telenovele punta su caratterizzazioni forti: tanto che ogni volta che si parla di un eroe si ripete attraverso l’epiteto la formuletta che lo ritrae, come i temi musicali che Morricone abbina ai protagonisti di C’era una volta il West. Finisce quindi per offrire uno spaccato antropologico completo: da Agamennone, “prepotente”, “rancoroso”, “tra tutti il più avido”, uomo senza scrupoli, capace di sacrificare persino una figlia per appagare la propria ambizione, (e qui tutta la simpatia va a Clitennestra, che lo aspetta a casa per rendergli la paga), ad Achille il pieveloce, vanesio e isterico, a Ulisse l’astutissimo, instancabile intrallazzatore (vince persino la gara di corsa, contro ragazzi molto più giovani di lui, naturalmente per intervento di Atena), ad Ettore il giusto, consapevole di combattere per una causa persa in partenza, ma determinato a difenderla sino all’ultimo: via via sino appunto ad Aiace, che di volta in volta è “immenso” (πελώριος), “splendido” (φαίδιμος), “illustre” (διογενής), “baluardo” (έρκος), ma anche “magnanimo” (μεγαθύμος).

Non solo: come in ogni brava telenovela, il motore di tutto è la presenza femminile. La guerra è scoppiata a causa di una donna, Agamennone rischia di mandare tutto all’aria per una schiava, e Achille per lo stesso motivo lascia i compagni nelle peste: anche nell’Olimpo a guidare tutti i trighi e a menare i loro compagni per il naso sono Era, Atena ed Afrodite. Cosa ci fa lì in mezzo uno che non ha schiave al seguito, né mogli che lo attendono a casa, al quale hanno detto che si andava in guerra e ha preso la cosa sul serio, tanto che, come si racconta nell’Etiopide, ferito di striscio da Pentesilea, la regina delle Amazzoni, ritiene non sia il caso di battersi con una donna e lascia che sia Achille, che non ha altrettanti scrupoli, ad ucciderla (e a violarne anche il cadavere); e si stupisce di fronte dell’ira dello stesso Achille per la forzata cessione di Briseide, commentando: “ma insomma, tutto questo can can per una ragazza?” Oggi magari verrebbe accusato di maschilismo, di negare al gentil sesso eguale dignità. Ma Aiace ha evidentemente un altro concetto della dignità, che personalmente capisco e condivido. E questo concetto viene espresso magistralmente, non so con quanta consapevolezza, da Omero proprio in occasione dell’incontro nell’Ade con Ulisse. Di fronte a quest’ultimo che si affanna a scusarsi e a cercare di addossare agli altri, a Zeus e ai capi Achei, la responsabilità dello sfregio inflittogli, Aiace rimane in assoluto silenzio. Guarda Ulisse, lo trafigge con lo sguardo, e poi si allontana e svanisce lentamente. Come a significare: con te, con quelli come te, non ho nulla da spartire, non vale neppure la pena rispondervi. Insomma: uno così nel mondo dell’Iliade (e in ogni mondo) è completamente fuori posto: o forse, è l’unico davvero a posto.

Ancora oggi per me Aiace è questo. Il che spiega perché ho istintivamente eletto lui, e getta un po’ di luce anche su tutta una serie di scelte di vita. Piero Boitani è un mio coetaneo che insegna Letterature Comparate alla Sapienza di Roma (ha insegnato anche a Cambridge). Io ho continuato ad insegnare per trent’anni Letteratura Italiana in un istituto tecnico. Sia chiaro: le diverse carriere rispecchiano equamente i valori in campo, le differenti capacità, al netto persino del fattore ambientale, anche se l’avere zii e nonni che a pranzo ti raccontano i miti, anziché sacramentare in dialetto contro il maltempo e la peronospera, magari un po’ aiuta: ma c’entra a mio giudizio anche una diversa attitudine, quella che si esprime, indipendentemente da tutto, nella scelta tra Ulisse, vincitore col trucco, e Aiace, che perde il suo premio ma non la dignità.

Questa immagine di Aiace non mi sono limitato a farla mia: ho cercato di trasmetterla per trent’anni ai miei studenti. Per Ettore non erano ancora abbastanza maturi: e poi, non dimentichiamolo, anche Ettore ha i suoi santi protettori. Non molto affidabili, ma li ha. Oggi ci sono in giro per il mondo (letteralmente) più di cinquecento periti meccanici che conoscono quell’immagine. Non so quanto possa servire loro, probabilmente molti hanno poi scelto altri modelli, magari diametralmente opposti: ma almeno hanno potuto scegliere, e qualcuno è in grado di citare ancora a memoria i versi dei Sepolcri. Nel mio corso era la conditio sine qua non per accedere alla maturità, assieme a L’Infinito e a Pianto antico.

Ora, mi rendo conto che possa apparire discutibile proporre a dei ragazzi, alla fine del ventesimo secolo, il “formidabile figlio di Telamone” come figura di riferimento. A una lettura superficiale Aiace rappresenta infatti, già nel contesto dell’Iliade, il passato: è sentito come tale dai suoi stessi compagni. Personifica un mondo nel quale i parametri etici per un uomo erano il coraggio e la lealtà, e lo strumento per coltivarli era la forza fisica: un mondo pre-storico, apparentemente non abitato da quei sentimenti che oggi definiamo “di umanità”, e nemmeno dalla razionalità, dall’intelligenza. Ma in realtà Aiace non è un capobranco pre-umano che vuole riconosciuta l’autorità della forza (ciò che legittimerebbe il premio ad Ulisse, identificando in quest’ultimo l’umanità nella quale il cervello ha la meglio sui muscoli). È invece già pienamente uomo, nel senso che ha chiaro il senso del dovere, si impegna a compiere quest’ultimo con tutte le sue forze, e solo con le sue, e matura quindi, di conseguenza, anche la coscienza del suo diritto. Pretende le armi di Achille perché sa di averle meritate, e legittimamente si ribella di fronte ad una ingiustizia. È un puro, non un ingenuo: e come tutti i puri davanti alla perfidia si trova disarmato, reagisce nella maniera sbagliata, soccombe. Combatte in nome di un ideale che è umano, non politico. Ecco: è un pre-politico, che non capisce nulla di compromessi, mediazioni, tradimenti, ambiguità, di tutto ciò che alla politica terrena e quotidiana appartiene e di cui la politica si sostanzia e si avvale. Non a caso, in forma parodistica le sue imprese (la strage del bestiame, ad esempio) saranno ripetute dal Cavaliere della Mancia, proprio nel momento in cui si attua il passaggio alla forma moderna, attuale, della politica. Aiace non combatte contro i mulini a vento, ma si scontra con una concezione strumentale dell’uomo altrettanto ingannatrice. Altro che pre-storico, dunque: è semmai un prototipo di uomo davvero libero, perché confida solo nelle proprie potenzialità: e nella sua vicenda si anticipa e si riassume la storia di gran parte dell’umanità, quella che partecipa alla conquista del bottino, ma è esclusa dalla divisione.

Rimango dunque convinto che quella proposta era giusto farla. Mi conforta in questa convinzione il fatto di non essere l’unico ad avere eletto Aiace ad eroe paradigmatico di una discreta, quasi scontrosa, dignità. Forse meglio ancora di Foscolo, che sulla vicenda torna anche con una tragedia, ma indulge a una romantica magniloquenza, lo celebra alla sua maniera scarna Vincenzo Cardarelli: “…Eri la gran riserva/ nel pericolo estremo,/ la resistenza, il muro, la fortezza. /Ti accoglieva ogni sera / la disadorna tenda / senza profumi né amorose schiave/ … Ma veramente solo/ e unico tu fosti/ nella sventura.” Ma non sono soltanto i letterati a rendergli omaggio. La figura di Aiace è rimasta impressa anche nell’immaginario popolare. Fino a cinquant’anni fa in regioni come la Toscana, l’Emilia e le Marche, con una forte tradizione libertaria e anarchica, il nome Aiace, come quello di Spartaco, era ancora diffusissimo. Ma anche fuori d’Italia se ne possono seguire le tracce. La squadra che negli anni settanta e ottanta ha insegnato calcio al mondo, quella di Cruijff e di Krol prima e di Van Basten e Rijkaard poi, si chiama Ajax, è nata come compagine del ghetto di Amsterdam (non è significativo?) ed ha raffigurata la testa dell’eroe nel suo stemma. Un altro club calcistico con la stessa denominazione milita nella divisione maggiore in Sudafrica, e moltissime sono in tutto il mondo le società sportive di qualsivoglia disciplina intitolate ad Aiace. Tra parentesi, mi pare scontato dovesse essere anche il nome col quale la squadra di calcio del mio istituto partecipava al torneo provinciale: tre volte siamo arrivati in finale, tre volte siamo stati sconfitti da gente che barava e schierava dei professionisti. Infine, c’è persino un detersivo che porta questo nome, e conoscendo i pubblicitari c’è da scommettere che abbiano giocato su una associazione mentale diffusa tra Aiace e la forza pulita. Non mi risulta invece che ci siano squadre che si chiamano Ulisse, e tantomeno detersivi. Evidentemente, se si aspira a vincere e a vivere in maniera davvero pulita, non c’è spazio per la furbizia e per l’opportunismo.

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