Da “Alessandria e l’urbanistica della felicità”, il primo capitolo: “Alessandria città brutta?”

Dedicato all’amico e collaboratore arch. Mario Mantelli

“Non legga queste pagine chi non è interessato ai problemi della felicità, o almeno a quel tanto di felicità che già ai suoi tempi Aristotele indicava tra i compiti dell ‘urbanistica. Ma come la felicità ha due aspetti, uno più materiale legato ai bisogni primari del corpo e uno più spirituale maggiormente condizionato dai piaceri della mente, così l’urbanistica si occupa (o si dovrebbe occupare) di due tipi di bisogni. Il primo tipo è riconosciuto immediatamente da tutti: si tratta di funzioni molto concrete, che hanno a che fare con la nostra vita di tutti i giorni: il problema della casa, l’insediamento di industrie o di altre attività, che creano nuovi posti di lavoro, gli ospedali e le scuole, lo smaltimento dei rifiuti urbani, il traffico, i parcheggi ecc. Sono, questi, problemi di cui tutti discutono e che vengono affrontati con l’intenzione (perlomeno teorica) di risolverli.

Molto raramente invece l’urbanistica si occupa di un secondo tipo di bisogni che, al contrario dei primi, non corrispondono a funzioni e a necessità precise e specifiche. Si tratta di aspirazioni che la gente non riesce a definire bene pur provandole in maniera intensa e persistente, anche se non nei termini di urgenza del primo tipo di bisogni. Mi riferisco a cose di questo tipo: il desiderio della bellezza, la ricerca delle proprie radici, il senso di appartenenza alla città, l’aspirazione alla convivialità (cioè a rapporti sociali più liberi e informali, non legati esclusivamente alla routine), l’identificazione in alcuni simboli, la possibilità di abitare piacevolmente la città e di vivere felicemente da “padroni” in spazi “inutili”, dove cioè non si deve svolgere nessuna attività specifica e obbligatoria.

Come si vede, anche dopo averli specificati, questi bisogni conservano qualche cosa di indeterminato e sfuggente che può portare a bollarli come “cose astratte”. Queste, a giudicare dai risultati, non trovano ascolto specialmente ad Alessandria dove il pragmatismo piemontese (che bada al concreto) e la parsimonia ligure (che pensa a non sprecare), tutte e due cose di per sè lodevoli, si sposano sovente con una mediocrità che è appannaggio tutto locale. L’aveva già previsto il vecchio motto cittadino: “Deprimit elatos, levat Alexandria stratos”. Se non stiamo attenti, questa massima, ottima sotto il profilo morale, rischia di essere assunta troppo rigidamente come stile di vita; a furia di tagliare le cime e di colmare gli abissi si finisce appunto con il risultato della mediocrità, aurea fin che si vuole ma che in certi casi (ed è proprio quello che voglio dimostrare) non è altro che una forma nascosta di povertà.

Alessandria è infatti povera di tutte quelle “cose astratte” che elencavo, solo che per me non sono per niente astratte, tanto è vero che si traducono in elementi materiali della città (per esempio un giardino, un monumento, un luogo di ritrovo) che chiamerò beni o patrimonio, assumendo per essi, in maniera estesa e disinvolta, la dizione di “bene culturale ambientale”, che di solito si usa per indicare un monumento o una testimonianza notevole del nostro passato. A mio parere ci devono essere anche dei beni culturali ambientali da costruire oggi, se non altro per l’ovvia considerazione che oggi non potremmo parlare di beni culturali ambientali se qualcuno non avesse pensato a costruirli ieri. Consideriamo le vecchie vie, le vecchie case, le belle cose custodite nei musei o esposte nelle mostre, le vecchie fabbriche, i luoghi di ritrovo tradizionali, gli alberi che i nostri padri hanno piantato per il lavoro o per il riposo, le decorazioni che abbellivano e ingentilivano la città e tante altre cose del passato che oggi si torna ad apprezzare; ebbene, noi dobbiamo considerare tutte queste cose come un patrimonio di beni che la storia ha prodotto per noi; noi contemporanei li abbiamo in buona parte distrutti e questa distruzione si rileva particolarmente in una città come la nostra, che già non ne possedeva in abbondanza. Niente però ci impedisce di costruirne dei nuovi nello spirito e secondo le necessità del nostro tempo.

È un grosso progetto che ci spetta se vogliamo assumerci il compito nuovo della costruzione della felicità urbana.

C’è chi ha visto nella carenza di beni culturali ambientali di Alessandria un fatto paradossalmente positivo e vorrei riportare le due opinioni più efficaci e simpatiche che conosco al proposito. Dice Mario Soldati in un suo diario: “Alessandria. Quale luogo meraviglioso per un racconto, e per una vera avventura. Mia esperienza, in questo dicembre gelido e nebbioso… Le grandi piazze piene di nebbia. Ricordi di guarnigioni ottocentesche. I vecchi palazzi del ‘600 e del ‘700. Città di provincia con grandissimo respiro, con una grandissima lontananza… Alessandria poetica, romantica: intatta, salva dal turismo e dalle belle arti: abbandonata al suo passato agricolo e militaresco, e al suo avvenire agricolo e industriale” .

La positività letteraria ed esistenziale della città (in cui credo si riconoscano anche tanti cittadini non letterati) viene ribadita e chiarita dallo stesso autore in un articolo dedicato al Piemonte: “Il treno passa sotto la rombante tettoia di Alessandria, e il desiderio è trattenuto dalla piatta, vasta, deliziosa città, lunghi mesi ovattata nella nebbia, e così riposante per l’apparente banalità, per la discrezione delle caratteristiche, per la mancanza, vivaddio! di qualunque folclore: città fra tutte dove sarebbe così dolce nascondersi e sparire, tra i palazzotti secenteschi di una nobilità defunta, le case gialline e umbertine della piccola borghesia operosa, le immani caserme vuote da cui le guarnigioni di un tempo si sono ritirate per non tornare mai più, e gli stabilimenti industriali non troppo diversi da qualunque altro stabilimento industriale” .

La seconda delle opinioni che voglio riportare è quella di Umberto Eco, tratta dall’ormai famoso articolo Pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro: “Che nascere ad Alessandria fosse una condizione dello spirito, già lo sapevo: sapevo che il profondo disinteresse per l’amplificazione retorica, la ripugnanza per le passioni, il sospetto verso le grandi imprese erano una caratteristica razziale della mia plaga: che, se potevano stagnare in inattività o declinare in inefficienza, potevano anche essere “scelte” come opzioni metodiche, basi per un certo tipo – non un altro – di cultura e di vita” .

Anche se qui si coglie un ritratto morale della città, è facile estendere il discorso al ritratto fisico, cioè all’architettura e all’urbanistica della città. Lo stesso autore ne tenta uno, dove ritornano in fin dei conti gli stessi motivi di Soldati, per cui la città diventa apprezzabile nel momento in cui l’anonimo e il banale diventano lo sfondo neutro ed ideale per le avventure del pensiero e della fantasia, in questo caso con la complicità della nebbia e del buio: “Alessandria è fatta di grandi spazi vuoti, e sonnolenti. Ma di colpo, in certe sere autunnali o invernali, quando la città è sommersa dalla nebbia, i vuoti scompaiono, e dal grigio re lattiginoso, alla luce dei fanali, spigoli, angoli, subite facciate, scorci bui emergono dal nulla, in un gioco nuovo di forme appena accennate, ed Alessandria diventa ‘bella”. Città fatta per essere vista tra il lusco e il brusco, andando rasente i muri. Non è Firenze, è più simile a Londra o a Dublino. Non deve cercare la sua identità nel sole, ma nella caligine” .

La tradizione dell’elogio paradossale dell’aurea mediocrità di Alessandria si è instaurata da poco e rischia di avallare l’inerzia e a volte lo squallore di certe proposte di oggi.

Già nell’età giolittiana, come testimoniano gli articoli di Raimondo Fossati su “L’Avvisatore della provincia”, l’allarme per l’inadeguatezza economica e culturale della città prendeva accenti più amareggiati e più drastici rispetto ad oggi (in quegli anni le speranze di uno sviluppo privilegiato dai traffici ferroviari venivano riassorbite dalla prima industrializzazione di Torino, Milano e Genova).

Tuttavia non mi sento di distaccarmi dalle affermazioni di Soldati e di Eco che, oltre a dare una interpretazione intelli- gente e accattivante della città, alla quale non posso fare a meno di aderire per patriottismo civico, parlano di due cose oggettivamente condividibili: da una parte la mancanza di opere d’arte magniloquenti, di un grande passato e di una grande tradizione che possano inibire il presente, dall’altra la conseguente mancanza di retorica. Attenendomi a queste constatazioni, che valuto anch’io positivamente, non intendo rimpiangere la mancanza di grandi opere d’arte in Alessandria, ma voglio puntualizzare l’attenzione sull ‘immagine complessiva della città; nello stesso tempo è ben lontana da me l’intenzione di fare delle proposte urbanistiche miranti ad aggiungere della retorica monumentale a questa città. Quando parlo della necessità di conservare e di creare dei beni culturali ambientali voglio parlare di una risposta ad una serie di bisogni comuni a tutti i cittadini, bisogni che riguardano la bellezza e la qualità della vita. Essi vanno riconosciuti e soddisfatti se per noi il termine “città” significa qualche cosa di più di un assemblaggio di condomini, di strade per le automobili e di parcheggi.

Tra i bisogni di ordine superiore (nel senso che vengono dopo quelli primari, più urgenti, della residenza, del lavoro, della viabilità, della sanità ecc.) che attendono di essere pienamente soddisfatti c’è sicuramente quello di conservare il senso di identità e di dare significato all’ambiente. Ciò può avvenire quando sappiamo che dietro di noi esiste un certo passato che possiamo conoscere e anche toccare; non solo, ma anche quando ci rendiamo conto che il presente in cui viviamo ha un “cuore antico” di cui il futuro si può alimentare.

Il passato che possiamo toccare e frequentare quotidianamente si trova, più ancora che nei musei, nel centro storico, che dobbiamo considerare come un patrimonio di isolati, di case, di vie, e perchè no? anche di atmosfere, che abbiamo ereditato dalla stona e che, se si crede nel futuro oltre che nel passato, dobbiamo lasciare (possibilmente arricchito) alle generazioni che ci seguono.

In realtà il centro storico non è soltanto il luogo dove ritroviamo il nostro passato,  ma è anche il luogo della città più ricco di monumenti, più “disegnato” (nel senso che specificherò) e più adatto ad accogliere i cittadini mentre passeggiano (ad esempio corso Roma), mentre fanno la spesa (ad esempio via San Lorenzo, la “via del mercato” per eccellenza) e mentre partecipano ai mercati e alla contrattazioni più varie, come succede nel “mercato del lunedì” (tra piazza della Libertà e piazzetta della Lega).

Il fatto che il centro storico sia il posto della città dove maggiore è la soddisfazione dei bisogni di arte e di contatto sociale non mi pare che richieda particolari dimostrazioni. Più sottile (e quindi più bisognosa di chiarimento) mi pare l’affermazione fatta prima sul centro storico come parte più “disegnata”, cioè più progettata, della città. Non voglio dare una risposta in negativo, del tipo: la parte storica della città è più armoniosa di quella moderna per il fatto che quest’ultima è stata disegnata a tavolino e senza studi di approfondimento che supplissero almeno in parte alla “saggezza della storia”.

È logico che quest’ultima abbia agito nel tempo all’interno del centro storico, realizzando realtà organiche in cui uno finisce per trovarsi a proprio agio, come l’abitante di una conchiglia, la quale si modella sulla crescita del mollusco. Se a ciò aggiungiamo il fatto che lo sviluppo della città moderna è avvenuto, salvo che nei primi del Novecento, senza tenere in alcun conto le connessioni con la città vecchia, il paragone tra vecchio e nuovo in urbanistica sarebbe perfino ingeneroso. Mi preme invece dare una risposta in positivo, cioè mettere in luce il carattere di progetto unitario e complessivo del centro storico, che ovviamente si è formato per strati nel tempo però ha avuto sempre alla base un ‘idea unitaria di città.

È proprio in questa idea unitaria che consiste il disegno del centro storico. Mi pare che sia da ravvisarsi nei seguenti archetipi, cioè concetti primitivi che sono stati, anche inconsciamente, alla base del modo di pensare e di immaginare la città storica: il recinto, la facciata, la gerarchia e il cuore.

Il recinto una volta era formato dalle mura, poi è stato espresso, dopo la loro demolizione, dai viali di circonvallazione, per cui ancora oggi ne è rimasta una traccia.

Questa traccia è esaltata dalle piazze di ingresso alla città progettate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (piazza Savona e piazza Genova,come si chiamavano una volta), perchè non bisogna trascurare l’importanza simbolica che hanno gli ingressi nel definire il recinto.

Nei progetti di quell’epoca si voleva dare anche agli ingressi di piazza Tanaro e verso gli Orti una adeguata rappresentanza.

Per facciata intendo invece il fatto che nel centro storico si cammina quasi sempre avendo di fronte un fondale, che può essere una facciata ma anche un punto su cui si focalizza lo sguardo e che serve da riferimento; in altri termini, le visuali tendono ad essere chiuse: ad esempio nel caso della facciata di San Giacomo in fondo a via Bergamo oppure nel caso dell’arco in fondo a via Dante oppure ancora nel caso dell’imbocco dei portici del municipio che fa da sfondo alla vecchia Crosa (via Ferrara).

Per gerarchia intendo la giusta proporzione fra l’edilizia comune e l’edificio monu- mentale, che ospita di solito le istituzioni. In questo modo riconosciamo immediatamente gli edifici pubblici mentre il normale tessuto edilizio serve, per contrasto, a valorizzarli e sovente, se è improntato a un certo stile, crea l’atmosfera di intere parti della città. La gerarchia veniva applicata una volta in piazza della Libertà e più in generale nel centro, dove la sede del governo, del municipio, del tribunale e del comando militare prendevano rilievo non tanto di per sè quanto perchè emergevano da un contesto edilizio di case modeste ma di stile uniforme e dignitoso.

I cuori

Parlando di cuore, infine, si fa riferimento ai frequenti luoghi, intermedi fra la piazza e la corte, oppure anche più grandi, dove ci si sente come in un interno. Abitualmente la gente si ritrova nel cuore perchè lì sta particolarmente a suo agio: cuore per eccellenza erano gli spazi attorno al vecchio duomo, dove il popolo si raccoglieva per molteplici, diverse occasioni, prima che Napoleone lo facesse abbattere per farne un’unica piazza d’armi (ora piazza della Libertà). Ma nella città possono scoprirsi tanti altri cuori possibili e penso non solo alle piazze, agli slarghi e ai nuclei dei vecchi quartieri, ma anche a quelle “cittadelle” della preghiera e dell’istruzione (i conventi), dell’assistenza (le opere pie, gli ospedali), della reclusione (il carcere e il manicomio), della guerra (le caserme), del lavoro (le fabbriche), che hanno finora ospitato non tutti i cittadini, ma una parte segregata di essi e che oggi, qualora fossero liberate dalla loro primitiva funzione, potrebbero diventare cuori significativi di tutta la città.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta si è assistito a questo fenomeno: non solo la città si è espansa senza un disegno formale, dimenticando l’arte di costruire i portici, i viali, i giardini, le gerarchie edilizie, i centri comunitari, ma si è intervenuto contro quei valori della forma urbana del centro storico di cui ho parlato e vorrei dimostrare che in questo modo si è andato contro quei bisogni “sottili” di cui ci stiamo occupando.

Quando infatti si è distrutta l’esedra di ingresso alla città all’inizio di via Dante e quando, con lo sfondamento di via Dossena, non si è dato un adeguato ingresso alla città venendo dal ponte, non si è forse diminuito il senso della città vissuta come casa unitaria della comunità dei cittadini, casa “recintata” in cui si entra proprio perchè dotata di porte riconoscibili come tali?

Quando si è abbattuta la chiesa in fondo a via Trotti, che con il suo campanile indicava il centro della città a chi proveniva da fuori, non si è forse distrutto una piccola parte dei segnali di orientamento della città (per capirne il valore pensiamo al disagio che ci danno le periferie, che ne sono prive) e, approfondendo la cosa, non si è forse indebolito quel carattere tipico dei fondali, che fa sì che il cittadino si rispecchi nelle facciate e negli sfondi della sua città, aderendo maggiormente ad essa in termini di identificazio- ne e di affetto?

Quanto al valore della gerarchia edilizia, basta vedere come sono ridotte le fronti di piazza della Libertà: una fungaia di stili assortiti, frutto della mancanza di un piano che possa creare una gerarchia. La piazza della Libertà di oggi è il frutto di un Novecento che, come in altre occasioni che vedremo, è stato inferiore all’Ottocento. Per quel che riguarda la valutazione positiva della gerarchia degli edifici, voglio far notare che risponde ad un bisogno di ordine e di chiarezza strutturali, non è una richiesta reazionaria: una legge o un discorso progressi sta o anche rivoluzionario non ci guadagnano ad essere scritti in maniera confusa: così succede an- che per il linguaggio della città.

Il bisogno di un cuore, infine, è una necessità fondamentale per i cittadini.

La mancanza di un cuore è frutto della distruzione del vecchio duomo: già abbiamo parlato di questo fatto e della sua conseguenza, cioè che non esistono più dei luoghi di soggiorno adatti (parlo di edifici, di portici, di dehors) per i cittadini nel momento in cui si ritrovano nel centro per le attività di mercato e di tempo libero.

Ma se forse è stata persa la battaglia di un cuore unico per la città, occorre a mio parere non perdere quella di valorizzare la vocazione policentrica di Alessandria. Questa città possiede al suo interno dei grandi contenitori che sono delle piccole città: sono ex conventi, caserme, ospizi di vario genere, fabbriche. Essi possiedono delle qualità precostituite per diventare i nuovi cuori urbani. Chi ha modo di visitare la Borsalino, il manicomio o la cittadella (tanto per considerare realtà molto differenziate fra loro) passa attraverso ad una significativa esperienza di identificazione con la propria città, molto diversa da quella consueta: vede Alessandria da un interno molto “profondo”(perchè è un interno solitamente proibito) e insieme la percepisce estranea, ma estranea come quando scopriamo una parte di noi stessi che emerge dall ‘inconscio per venire alla luce.

Si coglie con certezza il presentimento che queste realtà, in sede di riuso, devono tornare alla comunità di Alessandria, devono diventare dei centri comunitari proprio perchè lì si coglie un massimo di approfondimento delle proprie radici, di appartenenza al proprio passato, di identificazione con il simbolo. Non ritengo affatto che sia indif- ferente collocare una nuova funzione in un contenitore nuovo anzichè in uno vecchio.

Chi si incontra o va ad istruirsi in una vecchia fabbrica ristrutturata, tanto per fare un esempio, avrà, con la consuetudine della frequentazione, una segreta, forse inconscia risposta in più alla domanda: “Da dove provengo? Chi mi ha preceduto nel portare avanti la vita e nel ricrearla in questi luoghi dove abito?”. Avrà certamente qualche ragione in meno per sentirsi uno sradicato. Stupisce comunque che in una città che si è sempre rifatta, sin dalle loro origini, ai valori della sinistra, non si sia da tempo portata avanti, quasi come una filosofia o una bandiera, la tutela e la valorizzazione delle testimonianze edilizie del lavoro e dell’emarginazione, anche tenendo conto del fatto che la storia di Alessandria, più che dai suoi monumenti in senso tradizionale, è espressa dalle caserme, dai centri di commercio, dalle istituzioni di assistenza e di segregazione verso le quali si convergeva da tutta la provincia e oltre, dai luoghi di lavoro agricolo, artigianale e industriale.

Riassumendo quanto detto prima, dobbiamo aggiornarci sul modo attuale di considerare e di valorizzare il passato, traendone le conseguenze. Centri storici e recupero, civiltà materiale, storia sociale, archeologia industriale: questi temi non dovrebbero più essere estranei alla nostra città per quel che riguarda la pratica degli interventi urbanistici ed edilizi.

Esiste però un luogo privilegiato che dovrebbe soddisfare il bisogno del cittadino di avere dei legami significativi con il proprio passato: si tratta del museo.

Attualmente esiste un museo che è espressione di una concezione ottocentesca del modo di presentare la storia municipale: è un deposito, rifugio o sacrario delle cose scampate agli eventi o che ricordano gli eventi della città. La mandibola di Andrea Vochieri nella bacheca a lui dedicata, che macabramente mi colpì durante una visita scolastica al museo, la dice lunga su questa concezione: un luogo di reliquie o un gabinetto di curiosità ordinati non più da una classe religiosa o da un nobiluomo collezionista, ma dalla nuova classe emergente laica e borghese.

Ma, al limite, lo spirito di un tale ordinamento andrebbe benissimo ancora oggi, anzi in questo museo figurerebbero benissimo anche reperti ora non più esposti, a patto però di considerarlo non come il museo civico di oggi, bensì il museo di come si concepiva nell’Ottocento il museo civico.

Il settore museografico, come succede per altre cose in città, è un campo in cui l’Ottocento ha fatto la sua parte, ma il nostro secolo no. Quale dovrebbe essere la risposta del nostro tempo ai bisogni di conoscenza del proprio passato? Oggi ci vorrebbe una struttura museale che, accanto alla custodia dei reperti del passato (ma di tutti i suoi aspetti, anche quelli legati al.lavoro, alla vita quoti- diana e materiale) sviluppasse un’adeguata e costante azione di ricerca e di didattica. Bisogna saper parlare al cittadino della sua storia; ma questo non basta ancora, il museo locale dovrebbe paradossalmente occuparsi del presente e del futuro, dovrebbe cioè favorire e divulgare i rilievi e le ricerche sullo stato di fatto, nonchè le proposte progettuali sulla città. Idee troppo ardite?

Nient’affatto, sono cose che risalgono all’inizio del secolo, cose che appunto il nostro secolo era chiamato a realizzare. Ecco che cosa diceva il grande urbanista inglese Patrick Geddes: “Procuratevi una buona documentazione pittorica e fotografica della città così com’è ora, di tutto quanto essa ha di bello e di brutto; fatevi dare dal municipio, dagli uffici di stato civile e così via, statistiche e dati di ogni genere, in modo che ogni cittadino attivo possa d’ora in poi trovare nel museo la fonte più facile e comoda di tutte le notizie che gli possono occorrere sulla sua città… E questo non è tutto… Aggiungete, dunque, alle sezioni del passato e del presente una terza sala, o almeno un paio di pannelli per que- sta concreta esposizione del futuro della vostra città, e porterete così al museo una terza e nuova classe di sostenitori” .

Queste parole di Geddes andrebbero preso come uno spunto; il passo successivo dovrebbe realizzare una situazione di questo genere: da una parte un museo civico moderno, dall’altra una commissione edilizia ritornata ad essere commissione d’ornato, dovrebbero essere la realtà bifronte (una più rivolta verso lo studio del passato, l’altra del futuro) che fornisce orientamenti sulla vocazione e sul destino della follia della città.

In conseguenza di quanto si è detto si può tentare una richiesta delle cose che mancano per arrivare ad un moderno museo civico. Rimane scoperto tutto il campo di raccolta di testimonianze sul lavoro agricolo e industriale e sui servizi che esistevano un tempo in città. Manca una documentazione sull’edilizia che scompare ed è una richiesta che è stata avanzata da tempo; già Francesco Gasparolo, capo scuola della storiografia alessandrina, rivolgeva la sua attenzione alle notizie storiche sulla topografia locale anche per la scarsità della documentazione grafica, dato che “le mutazioni furono fatte con così poco buon senso comune, che non soltanto fu omessa ogni menoma diligenza per evitare la dispersione e la distruzione di quanto si poteva con facilità conservare, ma non si prestò neppure orecchio alle ripetute raccomandazioni che, almeno, prima di demolire si prendesse la fotografia dell’edificio, della località ecc.”. Altri elementi attualmente carenti sono le azioni di divulgazione e di guida nei confronti dei cittadini e dei turisti, che dovrebbero essere portati per mano ad approfondire la conoscenza non solo della città ma anche del territorio. Ciò si può realizzare in molti modi, dalla mostra temporanea alle visite didattiche, dalla preparazione delle guide alla invenzione di nuovi modi peravvicinare la mentalità di oggi a un significativo contatto con il passato. Tutto quanto si è detto finora a proposito di un nuovo tipo di museo, dovrebbe concorrere, oltre che alla tutela e alla costruzione dèlla città, anche alla creazione di uno spirito civico e civile, che avrebbe un effetto di valorizzazione dell’individualità e della specificità locale, qualità senz’altro positive in un’epoca come la nostra che tende a uniformare la realtà .

Si è insistito finora sulla storia non in quanto valore astratto ma perchè è stata e può essere portatrice di forme di socialità che andranno fatalmente perdendosi se non sapremo dare una risposta precisa e adeguata ai nostri tempi. Nell’Ottocento si è assistito ad un vasto fenomeno di trasformazione di strutture private in strutture pubbliche .

Se ciò è successo per il museo e la pinacoteca, passati dalle mani del collezionista privato o dell’ente religioso al patrimonio civico, è capitato anche per tanti altri settori: la biblioteca e le scuole, la cui origine si ritrova negli enti e nelle istituzioni religiose, il teatro e il giardino, che da spazi per la ricreazione dei nobili si trasformarono in tipologie al servizio della cittadinanza (il teatro municipale, a volte i giardini pubblici). Un fatto simile capitò anche nel campo del lavoro, dove si passò dalla produzione artigianale che si svolgeva nei laboratori familiari al grande contenitore della fabbrica e questo ebbe una influenza determinante sul processo di sindacalizzazione; da noi anche nel settore commerciale si erano formate, tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento, le grandi tipologie della fiera e del foro boario, ora andate distrutte (e la prima delle due rimane ancora oggi un’aspirazione!). Si è trattato di una grande rivoluzione tipologica ed urbanistica, di cui oggi godiamo ancora i benefici senza essere stati in grado, durante il Novecento, di fame un’altra che fosse frutto della complessa cultura di questo secolo.

Il Novecento, con le avanguardie nel campo dell’arte, con il movimento moderno in ar- chitettura e con l’affermarsi della cultura del design, ha rimesso in discussione il modo di vivere la città e l’ambiente.

Sulla base di questi nuovi apporti ci sarà bisogno di un nuovo museo, di una nuova pinacoteca, di una nuova biblioteca.

E se abbiamo ricostruito il teatro, mancano i giardini pubblici come potrebbe proporli la cultura del nostro secolo e ancora (nonostante la modestia, presso di noi, dei rispettivi settori nell’Ottocento) attendiamo ancora gli esempi del nuovo arredo urbano e della nuova monumentalità. In breve, questa nostra città è in grado di dotare se stessa delle nuove tipologie proposte da questo secolo? .

Sulla risposta positiva a questa domanda si fonda la possibilità di soddisfare i nuovi bisogni “sottili” del cittadino di oggi, più istruito, più ricco, più pronto ad aspirare a una più alta qualità della vita. Se rispondiamo con il sì dovremo costruire nuovi spazi comunitari, nuove forme di comunicazione urbane, nuovi luoghi “inutili”, aperti, ricchi di verde e con forti cariche simboliche. In due parole, si tratta di porsi questo obiettivo: “abitare poeticamente”: una bella sfi- da per chi nutre della speranza in questo scorcio del secolo XX nella nostra città. Ciò sarà impossibile senza ricorrere ai valori della forma, dell’arte e della poesia. Ma dovrem- mo fare tutto questo con uno stile concreto, alessandrino, da persone che decidono di provvedere a certi bisogni finora trascurati, come sin qui si è voluto sottolineare.

Stiamo pur certi che in questo modo Alessandria diventerà bellissima, se non agli occhi del turista, certamente per il cuore, l’esperienza e l’esistenza dei suoi abitanti.”

Pubblicazione Edita dall’Istituto Gramsci nel 1989

Abbiamo ricevuto dal Prof. Pietro Moretti la comunicazione relativa alla disponibilità gratuita di copie del libro.

“Per ricordare l’amico Mario Mantelli, architetto, insegnante e intellettuale alessandrino, scomparso nei giorni scorsi c’è anche una piccola iniziativa concreta: la messa a disposizione gratuita di copie del suo libro Alessandria e l’urbanistica della felicità, realizzato insieme all’architetto Enzo Testa che ha curato la parte fotografica, introduzione di Nuccio Lodato e del sottoscritto. Il libro venne pubblicato nel 1989 dall’Istituto Gramsci di Alessandria. Alla fine degli anni novanta il Gramsci ha cessato le sue attività. Sono però rimaste copie del libro molto bello e attuale: chi è interessato può richiederlo con una mail a pietro.moretti@istruzione.it e concordare le modalità per riceverlo.”

Pietro Moretti

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