Ancora su Mario Soldati e Angelo F. Lavagnino: due parabole incrociate

A differenza di quanto accaduto ad altre coppie “stabili” di cineasti e musicisti (Fellini/Rota, Antonioni/Fusco, De Sica/Cicognini, Hitchcock/Hermann, Greenaway/Nyman: ma si potrebbe continuare) la parabola registica di Mario Soldati non è stata contraddistinta da particolare fedeltà a un compositore di riferimento sistematico. Anche lui ha finito per privilegiare, ma solo parzialmente, lo stesso Nino Rota, che gli “pentagramma” ben otto film nel decennio successivo al 1946 di Travet, senza contare il Guerra e pace attribuito ufficialmente a Vidor. Ma per gli altri diciassette ne mette alla prova ben nove: Montagnini per gli esordi cofirmati fine anni Trenta; Danilowski, Masetti, Renzo Rossellini, Mannino, Trovaioli, Cicognini e Misraki, rispettivamente per i soli Tutto per la donna, Piccolo mondo antico, Eugenia Grandet, La provinciale, La mano dello straniero ed Era di venerdì 17. Va meglio con Giuseppe Rosati, divenuto allora, a posteriori, di gran moda col fiore all’occhiello di Ossessione e altri apporti al neorealismo fiammeggiante: ma Soldati è… il meno neorealista (anzi: il più anti-!) tra i cineasti italiani che contano. Rosati comunque sottoscrive quello “elevato” di Tragica notte, Malombra e Quartieri alti. Più avanti lo sostituisce all’opposto Mario Nascimbene, straordinariamente a proprio agio in quello successivo, “popolare”, che spazia da E’ l’amor che mi rovina, attraverso Ok Nerone e Le avventure di Mandrin, fino a quel Sogno di Zorro con Walter Chiari che il grande Cesare Garboli trovava incommensurabilmente divertente.

Quando Soldati entra finalmente in contatto, anche dal punto di vista… operativo, nel 1955, col maestro Angelo F. Lavagnino, le loro rispettive parabole hanno inclinazioni direzionali divergenti. Il compositore è nel vivo di una carriera imponente: stracarico di committenze, sta dando un vivace contributo al definitivo consolidamento professionale della figura del musicista per film, come ha giustamente osservato anche Sergio Micheli nella voce dedicatagli per la Treccani Cinema. Nel corso dell’anno sottoscriverà note per una quindicina di titoli, numero destinato a confermarsi se non addirittura ad ampliarsi nelle annate successive. Soldati al contrario è già indirizzato, irreversibilmente, verso l’uscita volontaria dal mondo del cinema: firmerà ancora solo tre opere, oltre a occuparsi, tra il ’56 e il ’59, delle seconde unità del già ricordato Guerra e pace (sua la magnifica Beresina ambientata al Po di Valenza del finale) e infine del Ben Hur di Wyler.

La prima occasione d’incontro collaborativo è La donna del fiume. Un’operazione tanto “alimentare” per il regista quanto ambiziosa, se non addirittura decisiva, per Carlo Ponti, lanciato all’inarrestabile ricerca della consacrazione definitiva per Sophia Loren, già in via di forte affermazione (De Sica, L’oro di Napoli) ma ancora alle prese col passaggio denominativo da Scicolone via Lazzaro, e avendo recenti trascorsi fotoromanzeschi e radiofonici. I titoli di testa esibiscono gran nomi (Moravia e Bassani soggettisti; ancora quest’ultimo, Flaiano e Pasolini sceneggiatori…) ma il film è sinceramente quello che è, ad onta dell’innegabile successo internazionale di pubblico, che si estenderà non solo agli Stati Uniti ma addirittura al Giappone.

Per la Loren, che solo tre anni più tardi -sperabilmente incredula…- si sarebbe vista consegnare a Venezia la coppa Volpi per Orchidea nera di Ritt (ma a Hollywood, non troppo dopo, il meritatissimo Oscar per La ciociara) Lavagnino e il suo discepolo-collaboratore Trovaioli inventano un passaggio determinante per la popolarità dell’impresa. E’ il mambo bacan, che Sofia danza e canta personalmente nel film, provocando irresistibilmente un àtono Rick Battaglia: il motivo, escogitato da Lavagnino e Trovaioli, avrà fortuna, lanciato poi in disco con pari successo tanto da Natalino Otto (chi era costui? si chiederanno i lettori più giovani) in Italia che da Line Renaud oltralpe, ma interpretato discograficamente anche dalla stessa Loren. Evidentissimo l’intento di ripercorrere la via del successo clamoroso registrato, tre anni prima, dallo storico bajon del “negro Zambòn”, danzato da Silvana Mangano nel proto-miliardario Anna di Lattuada (in cui compare di scorcio anche Sofia, all’epoca ancora Lazzaro, e che Moretti riproporrà coinvolto in Caro diario). Remoto modello comune l’allora già mitizzato Riso amaro: Raffaello Matarazzo tenterà a sua volta, l’anno successivo, di riallacciarsi debolmente e tardivamente al filone contando sulla presenza di Elsa Martinelli ne La risaia (di nuovo alle prese con un altrettanto anodino Battaglia).

Come nel 2003 Matteo Bellizzi aveva avuto l’idea di tornare, con Sorriso amaro, sul… luogo del delitto di Riso amaro, coinvolgendovi, quarantacinque anni dopo, le ex-mondine che allora vi figurarono, così quattro anni fa, sessanta dopo il film, Andrea Samaritani con La stella di Comacchio è tornato, in parallelo a un’analoga mostra, a fare lo stesso per La donna del fiume. Il documentario è particolarmente interessante per come dimostra la profonda popolarità dell’operazione, cui Soldati alla macchina da presa e Lavagnino alla composizione seppero particolarmente adeguarsi. La testimonianza, ad esempio, dell’oggi ultrasettantenne Maria Conventi sul modo in cui il regista la scelse d’impeto per dare vita nel film alla bambina Ivana, è un prezioso lampo sul modo di lavorare in spontanea artigianalità nel cinema di quegli anni. E anche un’accessibile clip della “Settimana INCOM” su di un corrispondente “si gira” rende bene l’atmosfera irripetibile di quel remoto allora.

Dopo, la parentesi singolare e oggi pare irreperibile di Italia piccola, in occasione delle cui riprese chi scrive, undicenne a occhi sgranati, vide Soldati dirigere Nino Taranto ed Enzo Tortora. Ad Arena Po: da Comacchio alla finta Beresina, sempre sul grande fiume di Bacchelli siamo. Nel frattempo, grazie all’impareggiato Viaggio nella valle del Po – appunto! televisivo, è diventato in assoluto l’italiano più noto e popolare agli occhi dei concittadini, surclassando se possibile lo stesso Mike Bongiorno di “Lascia o raddoppia?” [Mi sono sempre chiesto, senza mai andare a verificarlo sul romanzo, se la proposta di uno degli amici di Franco Maironi di chiamare “Padania” l’Italia unita in Piccolo mondo antico sia già in Fogazzaro o solo in Soldati…]. Che ad ogni buon conto termina la propria carriera all’insegna di una grande, quasi fastosa autorialità: Policarpo, ufficiale di scrittura, dal romanzo dell’antico direttore del “Messaggero” Vassallo-Gandolin, chiude idealmente il cerchio spalancato tredici anni prima con Monsù Travet. L’esperienza, pur nella sua distesa e orgogliosamente tradizionale narratività, costituisce da un certo punto di vista l’esatto opposto de La donna del fiume. Policarpo è un film d’autore in gran spolvero, cui collabora con convinzione il meglio del cinema italiano di allora: con Lavagnino alle musiche, ci sono tutti insieme Rotunno alla fotografia, Serandrei al montaggio, Mogherini alle scene, Tosi ai costumi. E accettano tra gli altri di comparirvi per tempi infinitesimali De Sica e Sordi, Tognazzi e Nazzari, quasi impegnati in un addio, sia pure solo per abbandono spontaneo dell’attività, all’amico grande regista. Che potrà da allora dedicarsi in via esclusiva al raccontare sulla pagina: il grande lancio che Garzanti metterà in opera nel ’64 per Le due città sarà l’occasione per tentare almeno un primo, esplicito regolamento di conti fra Torino e Roma, la letteratura e quel cinema che “io non ho mai voluto farlo…”.

Che il rapporto tra Soldati e la musica fosse vivo e vitale, non lo attesta solo uno dei suoi capolavori di narratore, A cena col commendatore dal mozartiano rinvio, coi suoi tre racconti (tra cui l’inarrivabile La giacca verde, che ancora Garboli definiva il miglior racconto italiano del Novecento, poi trascritto in film da Giraldi). Lo ribadisce un suo scritto della tarda maturità, L’alveare magico, dedicato a Massimo Mila (il grande musicologo ebbe a interlocutore privilegiato in materia anche un altro sommo del Novecento italiano, Montale). Pubblicato soltanto in edizione non venale anglo-italiana nel 1985, e di nuovo da chi scrive l’anno dopo, su invito e autorizzazione dello scrittore (in Mario Soldati, edito congiuntamente da Provincia e Università di Pavia in occasione del convegno solennizzante gli 80 del Maestro: aula Foscoliana dell’Ateneo ticinense, 21 novembre 1986; tra i relatori Lattuada, Brera, Peroni, Fink, Riccardi, Martignoni!). Traspare dall’originale testo, propiziato dall’ascolto di un concerto congiunto della Royal Academy londinese e di Santa Cecilia alla splendida Villa Maringola di Lerici, una straordinaria capacità di ascolto e interpretazione delle pagine cameristiche, nella fattispecie, di Haydn e di Mozart. (Il dattiloscritto originale è oggi custodito presso APICE, gli Archivi della Parola, dell’Immagine e della Comunicazione Editoriale della Statale di Milano: serie 2 (Racconti), sottoserie 1 (Singoli racconti), unità archivistica 33, busta 79 “coi relativi materiali preparatorii: manoscritti, dattiloscritti, dépliants, lettere, programmi musicali e informazioni turistiche”!).

La mia personale ipotesi, forse un po’ temerariamente nostalgico-affettiva, è che se Soldati non avesse già maturato la decisione definitiva di abbandonare la regìa cinematografica per dedicarsi in via esclusiva alla scrittura e a giornalismo, la sua collaborazione col maestro Lavagnino avrebbe potuto proseguire. Se non altro perché entrambi erano vistosamente accomunati dalla tacita condivisione di una “mission” che il loro più giovane collega, figlio d’arte per via paterna e materna, Andrea Liberovici ha così felicemente enunciato in una recente intervista (“La Lettura” del “Corriere”, 22 settembre): “Il fine della musica è senza dubbio quello di riattivare la comunicazione tra le persone. Chi compone non si deve chiudere nel suo solipsismo ma cercare un rapporto necessario con il mondo”. Quello che hanno saputo per nostra fortuna fare tanto la musica di Lavagnino che la polimorfa attività pubblica di Soldati.

Nuccio Lodato

                                                          (“Diari di Cineclub”, 77, novembre 2019)

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*