“Anomalie” ’ d’Italia : i fatti di Manduria e la Festa al lavoro che non c’e’

 

I mostri che abbiamo dentro                           i mostri che abbiamo dentro

che vivono in ogni uomo                                  silenziosi e insinuanti

nascosti nell’inconscio                                     che senza complimenti

sono un atavico richiamo                                sono il gene egoista

che domina e conquista

 

I mostri che abbiamo dentro                          La nostra vita civile

ci spingono alla violenza                                  la nostra idea di giustizia e eguaglianza

che quasi per simbiosi                                      la convivenza sociale

si è incollata                                                        è minacciata

alla nostra esistenza                                         dai mostri che sono la nostra sostanza.

 

Giorgio Gaber,  I mostri che abbiamo dentro.

 

 

Cosa hanno in comune  due eventi così distanti tra di loro e  che hanno occupato le cronache dei media nazionali nelle settimane scorse : la cronaca nera “minorile o giovanile ” di Manduria   e la ricorrenza celebrativa della giornata mondiale del lavoro, come conquista più che secolare  dei diritti dei lavoratori, in una congiuntura storica di  manifesta perdita di tali conquiste?  Bè, a una prima approssimazione, le giovani «arance meccaniche»,  autrici del crimine ai danni di un povero pensionato disabile nel comune di  Manduria,  sembrerebbero essere   i «campioni» di comportamenti efferati non unici e neanche i primi,  all’interno delle cronache nere, ahimè,  e la  cui  giovane età indurrebbe a considerarli a un tempo i carnefici e le vittime di quel sistema sociale in cui  le  tradizionali agenzie educative della famiglia e della scuola falliscono  e vengono surrogate dalla società dei media  e dei consumi.

Da parte sua, la celebrazione del primo maggio,  festa del lavoro,  in una situazione di  crisi «cronicizzata», di degrado e di assenza generalizzata dello stesso, sembrerebbe configurarsi o come una vuota  parata retorica o come una surreale interpretazione e visione della realtà dei fatti macroeconomici.

All’apparenza,  dunque,  due fatti di cronaca  assolutamente eterogenei  e irrelati tra di loro.

Ma se volessimo fare lo sforzo di porre gli eventi in  questione   sotto la lente d’ingrandimento di una riflessione a più  ampio raggio,  di collocarli sotto una prospettiva temporale e spaziale più estesa, si potrebbe rispondere che entrambi ricadono sotto quella precognizione dell’«avvento del più inquietante degli ospiti della nostra modernità,  il  nichilismo»,  che  già a suo tempo il filosofo del diciannovesimo secolo  Friedrich Nietzsche aveva messo in evidenza. Che cosa intendeva per nichilismo Nietzsche? Intendeva la  perdita o sprofondamento totale  di quel sistema di valori su cui si era basata la civiltà occidentale per millenni e che  a suo avviso non era stata rimpiazzata da nessun altro sistema di valori. Tale non era infatti per Nietzsche la nuova fede nel progresso della scienza, della tecnica e della società che si proponeva allora come sostituto ed erede di quell’antico modello.

 Quel sistema – la civiltà cristiana–  giusto o sbagliato che fosse, veritativo o portatore di un ‘illusione ideologica, per molti secoli aveva comunque indirizzato l’etica individuale e comunitaria della civiltà occidentale, e la «morte di Dio » che  quello sprofondamento nella modernità aveva comportato, non era rimasto senza conseguenze, anzi poneva la  questione  del nuovo paganesimo, del nuovo politeismo che si affacciava in quel tornante storico. Quella nuova fede o religione delle «magnifiche  e progressive sorti del genere umano», quale avanzata società scientifica, tecnologica, economica  e dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, si poneva dunque come erede secolarizzata  e sostituto della «morte di Dio »,   del fatto che sul suolo della modernità occidentale l’individuo e la collettività  avessero progressivamente e sempre di più perso la fede nel messaggio religioso cristiano della vita oltre la morte, di un destino ultraterreno« che non è di questo mondo». Interrogarsi su questa eredità secolarizzata e sulle sue conseguenze significava dal punto di vista filosofico  affrontare la questione metafisica per eccellenza, il significato e senso dell’essere, inteso come essenza complessiva dell’esistenza.

Già Arthur Schopenauer , considerato maestro di pensiero e fonte d’ispirazione da Nietzsche, annotava  come la volontà di vivere nell’individuo fosse in grado di annullare in lui la consapevolezza della sua mortalità, di spingerlo a vivere come se fosse un essere immortale, di annullare qualsiasi pensiero sulla sua natura di essere finito e mortale, di ricoprire tale consapevolezza di «un velo di maja» . La volontà di vivere spingerebbe  di conseguenza  l’individuo ad essere  incapace di concepire la propria vita come un progetto temporale, con un scopo in sé, con un inizio e una fine, con una parabola e un percorso, con un passato e un futuro, lo spingerebbe a vivere ogni esperienza indifferenziatamente come un eterno presente.

Martin Heidegger, filosofo tedesco del novecento, riprendeva e accentuava il tema ricordando che la questione metafisica del senso dell’essere,  quale essenza complessiva dell’esistenza, era riassumibile nella domanda: «perchè l’essere invece che il nulla?». La dimenticanza di tale questione, dell’essere mortale dell’uomo, questione in grado di dare a suo avviso  forma  a un  esistere dotato  di senso, gettava l’individuo nel «si dice, si pensa, e si fa impersonale» uguale per tutti, proprio della generalità indifferenziata, della massa.  Solo la limitazione all’esistere data dalla consapevolezza dell’essere mortali era per Heidegger in grado di spingere a un’esistenza piena, impegnata, consapevole di sè.

Si potrebbe dire che sia  Schopenauer,  che Nietzsche,   che Heidegger, ognuno con accentuazioni e  profili di pensiero differenti, erano comunque accomunati dal  problema di come affrontare l’eredità secolarizzata della «morte di Dio ».

Ma un importante pensatore del novecento, Theodor Adorno,  diede un contributo innovativo a tali questioni, sottolineando  come l’ indagine metafisica su  il senso dell’essere o dell’esistenza non potesse riproporsi   negli stessi  termini secondo cui era stata tramandata dalla tradizione del pensiero filosofico, nell’epoca storica in cui si era fatta esperienza dei totalitarismi politici del primo novecento e si era entrati nell’epoca del tardo capitalismo economico  del secondo novecento.

Oramai la questione metafisica del senso dell’esistenza andava, a suo dire, ricollocata negli strati più materiali dell’esistenza e dell’esperienza, di quell’esperienza peculiare del novecento che era appunto  denominabile come «totalitarismo» non solo e semplicemente nella sua forma di regime politico (fascismo, nazismo , stalinismo, etc.) ma anche sotto forma di modello economico, sociale, tecnologico e culturale, un concetto ampio ed esteso di totalitarismo di cui Adorno insieme a Max Horkheimer avevano fatto  oggetto un loro celebre saggio: La dialettica dell’illuminismo.

La questione metafisica che gli strati materiali più profondi  dell’esperienza storica  contemporanea  indicavano, e che poneva,  ad avviso di Adorno, un interrogativo più inquietante e angoscioso della consapevolezza dell’essere mortale dell’uomo, era   la seguente: «Che senso ha voler continuare a vivere in un mondo, in una società  in cui  possono spezzare le ossa del tuo corpo con un procedimento infinito, in cui la tua persona come quella di chiunque altro è soggetta a un’infinita torturabilità?».

E collegata con questa prima considerazione: «Si può accettare di vivere ridotti a un mero esemplare della propria specie, indifferente, intercambiabile, fungibile e  sostituibile con chiunque altro,  e come tale manipolabile e sacrificabile nella più assoluta indifferenza»,  se non  addirittura nella voluttà di un piacere sadico e perverso?

Per Adorno la questione metafisica per eccellenza è dunque sostanzialmente  trovare  la risposta alla  riduzione,  storicamente data,  dell’umano , nell’altro come in sè stessi , a mero strumento per un fine eteronomo, ad  altro dal sè, all’inumano.

Nell’ affrontare tali questioni Adorno si poneva  sicuramente nel solco  della tradizione   umanistica della riflessione  sulla natura del  sè o della  soggettività filosofica, riveduta e  emendata alla   luce di un ‘esperienza storica plurisecolare.  Perché è indubbio che se una storia dell’umanesimo occidentale  si è data nel pensiero , nella cultura, nei saperi umanistici in genere, è stata quella dell’affermazione di un sè ,  della persona come un fine in sè, di una soggettività, ideale e utopica  fin che si vuole, ma che è stata la stella polare costante di quella tradizione, fin dalla celebre Orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola – « Grande miracolo  è l’uomo, o Asclepio» –  un uomo sospeso «a mezz’aria»,  a giudizio dell’umanista quattrocentesco,  tra la possibilità di ascendere a una condizione angelica o divina, o di discendere negli inferi della beluinità priva di ogni lume della ragione.

Che cosa fosse o in che cosa si sostanziasse tale soggettività ideale dell’umana natura è stato il compito da assolvere dalla tradizione della filosofia , variamente e contradditoriamente interpretato , dal« microcosmo individuale all’interno del macrocosmo universale» dei filosofi rinascimentali, dalla« sostanza pensante», la res cogitans cartesiana, all’identità con la «sostanza oggettiva della natura» di Spinoza, alla «monade senza finestre » di Leibniz. E poi ancora all «’Io penso trascendentale» legislatore della natura ma non creatore dei suoi oggetti, a cui  però si affiancava l’Io agente, il soggetto morale,  legislatore e creatore delle proprie azioni morali, in Kant. L’indagine e la riflessione sulla natura della soggettività autocosciente si estendeva poi al «soggetto-oggetto» di Hegel, a quello« spirito » o autocoscienza soggettiva  capace di estraniarsi o alienarsi nell’esperienza oggettiva  dei processi storici, per poi   essere in grado , al termine di tale«erranza  dialettica» nel mondo, al culmine  del superamento delle esperienze contraddittorie del processo storico, di recuperarsi e «ritornare in sè o al sè» della padronanza soggettiva.

Questo aprirsi dell’autocoscienza metafisica  a una sua propria origine processuale, a una sua  costitutiva alienazione o  «essere autocoscienza  al lavoro o in divenire» era però destinato a non poter essere più rinchiudibile nel perimetro tradizionale della soggettività metafisica o filosofica, e a dover affrontare il problema che la coscienza soggettiva,  come  perenne   lavoro o continuo processo in  formazione,  non era più  confinabile a un semplice «lavoro intellettuale o filosofico » ma doveva affacciarsi  di necessità alla considerazione  dell’attività lavorativa umana materiale.

Di questa apertura si sarebbe incaricato con la sua opera intellettuale  il giovane Marx,  là dove avrebbe definito la coscienza soggettiva come «l’insieme dei rapporti sociali», ossia il frutto di  quel complesso denominabile « divisione sociale del lavoro»  di cui la moderna  società borghese e capitalistica   si era incaricata di diventare l’esecutrice.

La divisione sociale del lavoro era innanzitutto la divisione, storicamente data, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale,  un tema   mai così attuale come  oggi in cui lo sbalorditivo sviluppo tecnologico rende i due campi assolutamente contigui e contaminati tra di loro. All’epoca di Marx invece  i ceti del lavoro intellettuale ( filosofi, scienziati,  artisti, sacerdoti, giornalisti,  funzionari delle istituzioni statuali o degli apparati delle imprese economiche private) erano nettamente separati dai ceti del lavoro manuale che aveva conosciuto con la rivoluzione tecnologica industriale un completo rivolgimento in favore del lavoro di fabbrica, della costituzione della classe del salariato o del proletariato a danno della tradizionale classe degli agricoltori.

La moderna divisione sociale del lavoro aveva dunque dietro di sè gli « strutturali» o materiali processi  economici e sociali storicamente determinati,   quel  rapporto interclassista delle forme dei rapporti  e mezzi di produzione su cui si basava la moderna società borghese capitalistica , una società stratificata in classi, nel giudizio di Marx.

 Tale «insieme dei rapporti sociali » reali o dati non poteva essere l’origine della reale autocoscienza come conoscenza della autocreazione  dell’uomo mediante il suo lavoro e la storia, e dunque di  quella coscienza soggettiva ideale costituita dal processo storico a cui l’idealismo oggettivo di Hegel aveva aperto le porte,   ma solo di una coscienza alienata o reificata, tanto dal lato del borghese capitalista , oppressore e sfruttatore, che dal lato del proletario, proprietario unicamente delle sue braccia, la« forza lavoro » dunque, bersaglio di una condizione di alienazione integrale  o messa a nudo, cioè non ricoperta dai velami ideologici di una falsa coscienza.  Ma l’alienazione o «estraniazione» come « destinazione all’unilateralità» dell’esistenza dell’uomo, al suo essere imprigionato in uno specialismo ,non riguardava solo il rapporto capitale-lavoro salariato, e dunque  la specializzazione del capitalista alla competizione sui mercati e allo sfruttamento dei lavoratori, o viceversa  l’essere lo «sfruttato   specialistico»  da parte dell’operaio, ma accomunava ogni funzione e ruolo sociale ed economico della società borghese, dallo specialismo dello scienziato a quello del funzionario o burocrate, etc.

Tutte queste figure erano dunque nell’accezione marxiana condannate ad avere una coscienza e di conseguenza un ‘umanità unilaterale, alienata, non integrata in un sé multilaterale e universale, sia pure un sé inteso in termini di coscienza collettiva o sociale. La coscienza inter-soggettiva o collettiva era da Marx idealisticamente demandata a una futura emancipazione dall’alienazione presente, alla coscienza frutto di un nuovo insieme di rapporti sociali, a una nuova società senza classi,   a un nuovo soggetto o persona ideale  collettivo, se vogliamo : la società comunista.

Ma la svolta nel percorso   dell’affermazione di una soggettività umana libera e spontanea   nella storia delle idee e di una prassi conseguente , la svolta verso la formazione originaria della autocoscienza dal processo storico, una volta intrapresa,  non poteva arrestarsi nemmeno all’assegnazione di un ruolo fondamentale  ai processi «materiali »della  struttura e «spirituali» della sovrastruttura della società, ma doveva di necessità penetrare nei recessi di quel soggetto profondo, soggetto delle pulsioni, il soggetto della struttura desiderante a cui Freud avrebbe assegnato il nome d’inconscio, la cui scoperta poneva di fronte all’evidenza che: «l’Io non è padrone nemmeno in casa sua».

 L’inconscio come struttura profonda del soggetto non era , al pari dell’insieme dei rapporti sociali costitutivi la coscienza alienata della società capitalistica in Marx, il luogo edenico di formazione della psicologia e della personalità del soggetto, ma l’ambito di conflittualità tra energie vitalistiche( la libido sessuale) e energie aggressive e distruttive, tra eros e thanatos, e solo un lavoro di cura psicologica , di rielaborazione cosciente di tale struttura costitutiva,l’Io penso come  una formazione di compromesso dunque, poteva fare di quest’io un io umanamente governabile, una soggettività accettabile:«là dov’era Es deve diventare Io».

Uno dei principali eredi e tra i più originali continuatori della dottrina di Freud, Jacques Lacan,  avrebbe posto la  possibile verità del soggetto inconscio del desiderio di fronte a un bivio: o ricadere preda della legge dell’immortale jouissance , del godimento acefalo, privo di direzione, guida e misura, e dunque di per sè  una  pulsione onnipotente  e  «immortale»,  e cioè eternamente riproducente la struttura di desiderio-oggetto-sua consumazione e riproduzione, oppure sapere dirigere la struttura del desiderio verso un « desiderio fondamentale» , verso la capacità di scoprire in sè stessi una passione o vocazione di vita, e «di non commettere il peccato mortale di abdicare da tale desiderio fondamentale», cioè di perseguirlo fino in fondo.

Abbiamo passato in rassegna, attraverso un rapido excursus, il plurisecolare sviluppo  di concetto dell’«umano» nel pensiero e  nella cultura occidentale moderni ,lungo un  cammino che va  da un soggetto « simpatetico» con le forze della natura, a una soggetto logico-matematico a un tempo indagatore e dominatore della natura stessa, a un soggetto/ oggetto mediatensi dialetticamente con il processo storico, a un soggetto collettivo o comunitario esteso all’insieme della società, a infine un soggetto delle pulsioni  profonde che soggiace sepolto sotto la vita cosciente.  Il  leit motiv che accomuna tutte queste elaborazioni teoriche e la loro prassi conseguente è il soggetto o persona umana come scopo o fine in sè, è il tema della variante all’imperativo categorico della ragion morale  di Kant:« agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo. » (Fondazione della metafisica dei costumi).

Questo motivo costante e comune dell’umano si contrappone alla sostanza dell ‘«inumano » individuato  tanto nell’«avvento del nichilismo » che nel totalitarismo moderni. Secondo la prima prospettiva inumano  è non avere coscienza della propria mortalità come limite costitutivo e formativo dell’autocoscienza con tutto ciò che ne consegue; in base  alla seconda prospettiva inumano è ridurre l’essere umano a mero esemplare  della propria specie, indifferente, intercambiabile ,fungibile e  sostituibile con chiunque altro, a mero strumento per un fine altro da sè.

Nel riportarci ai fatti sopracitati– la persecuzione  e l’omicidio di un anziano disabile  da parte dei  giovani teppisti di Manduria, l’astrattezza e l’insensibilità sostanziale verso  il dramma contemporaneo del mondo del lavoro che hanno manifestato le celebrazioni del primo maggio –  potremmo dire che modello nichilista e modello totalitario si sovrappongono tra di loro nel sottomettersi alla combinazione  di « uomo macchina » e di «uomo merce».

Ci possono essere pochi dubbi  sul fatto che giovani minorenni o appena maggiorenni che ritengono «naturale» un comportamento di tal genere siano preformati a comportarsi come una«  macchina pulsionale» che reagisce agli impulsi ricevuti dalla «macchina mediatica» ossia da quel sistema complessivo dei media, tradizionali e non( televisione, computer e cellulare ) che facilmente manipola le loro menti, li porta a vivere in un eterno presente di input e reazioni immediate  e non di capacità di riflessione su una dimensione progettuale, articolata  tra passato e  futuro,  della propria esistenza,  così come sui tempi medio lunghi di riflessione che richiede  una lettura o scrittura di un testo articolato o un dialogo orale complesso o un documento audiovisivo  elaborato, una predisposizione riflessiva e contemplativa  che porterebbe ad «avere cura» del proprio oggetto di riflessione .

A ben vedere questa «educazione» generale  alla visione delle cose predispone a fare di sè come degli altri un mero strumento per un fine altro da sè, strumento  che può corrispondere tanto  all’ingranaggio funzionale all’efficienza di una macchina  quanto alla merce indifferentemente manipolabile e scambiabile, vendibile e consumabile sul« libero mercato dell’offerta e della domanda». In questa weltanschaung o concezione del mondo preformata in giovani menti costitutivamente fragili,  è «naturale» che   tutto ciò che non corrisponde a questi modelli di efficienza e di « prestazione di mercato», che appare manifestamente «diverso »,  debole e fragile, sia sentito più una minaccia alla propria identità così formata (un’identità che si muove polarmente tra la sua costituzione in individuo atomizzato e la sua «integrazione al branco»), che un’occasione di esperienza , una possibilità  d’incontrare e di approfondire   ciò che di umano , nel senso di cui sopra, c’è in ognuno di noi.

E’ inutile sottolineare come anche se non soprattutto le tradizionali agenzie educative dei giovani–   famiglia e scuola–  siano pressate, direttamente coinvolte, quando non addirittura travolte da questi meccanismi totalitari di «formattazione»  della coscienza individuale. Infatti tanto le strutture materiali dei processi economici e sociali che le sovrastrutture dei media esigono un tributo assoluto di adattamento a questi modelli della macchina e della merce, tanto alle famiglie, luoghi di formazione della personalità del giovane,  che alla scuola,  a cui è richiesta nelle modalità di trasmissione del sapere una sempre più radicale omologazione    all’efficienza tecnologica della «libera»  società di mercato.

Di conseguenza di fronte a questi casi di cronaca si è costretti a constatare il paradosso che la giovane  personalità in via di formazione, naturalmente predisposta a ribellarsi all’autorità ,a cominciare da quella dei genitori, per potere trovare la sua propria strada, invece di approfondire questa opposizione a ogni forma di autorità e di potere, finisca per integrarsi totalmente, acriticamente, sinistramente, al modello del potere dominante.

E’ per questo motivo che non si può sottovalutare o passare sotto silenzio che celebrare il primo maggio, la festa del lavoro, in una congiuntura storica  di totale destrutturazione del  fondamentale ruolo e mondo del lavoro, senza farne un’occasione di riflessione approfondita sulle cause « strutturali » di tale stato delle cose, su quei processi macroeconomici guidati dalle logiche e dai poteri  riassumibili sotto il nome di« neoliberismo», il dominus della situazione, non fa che  rinforzare questo dominio dell’inumano, invece di attrezzarsi a combatterlo con tutti gli strumenti teorici e pratici che coloro che – istituzioni, partiti e sindacati – si proclamano paladini del mondo del lavoro, dovrebbero mettere in campo per assolvere al loro ruolo.

E’ a livello delle strutture materiali dell’esistenza innanzitutto – i processi economici e sociali– che si può, attraverso un’ opportuno cambiamento di direzione o inversione di rotta da parte dei principali attori politici , sociali e del sistema dei media, agire in tempi relativamente brevi per incidere sul« più inquietante ospite della contemporaneità» , quel totalitarismo nichilista che assume il nome di neoliberismo. La struttura si modifica e la sovrastruttura,  sedimentatesi lentamente su di essa, altrettanto lentamente si modificherà, e la speranza di uscire dalla morsa del totalitarismo nichilista non sarà più vana.

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