Arborea Vanità

Il primo incontro fu fatale. Lei s’invaghì perdutamente del Giglio Martagone … ma in un crescendo rossiniano, mentre si svolgeva il discendendo del sentiero e il dipanando delle curve, fu colta da una sorta d’arboreo incantesimo impressole dall’estasiante impatto floreale.

Dal Giglio Martagone, passione inalienabile, fu un susseguirsi di esclamazioni e gridolini modulati secondo l’effetto dell’incontro vegetale: sommesso per il grasso Sedum, tremulo per l’ottocentesca Bergenia, viscerale per l’Herigeron Karvinskianus: Francesca non sapeva più dove annusare, accarezzare, stupirsi.

Il suo trasporto amoroso per i fiori spontanei l’aveva spinta a studiare tanto da avere archiviato nella memoria una quantità di nomi, alcuni difficilissimi, che scandiva con un piacere orgasmico durante le sue passeggiate. Erano per lei momenti d’intensa felicità.

Malinconici erano invece i ritorni a casa: il piccolo appartamento in città, il terrazzino sulla via da cui poteva alzare lo sguardo sopra un rettangolo di cielo al quale ogni sera rivolgeva un sospiro. Si era circondata di vasi di fiori che ricambiavano il suo amore crescendo rigogliosi, fiori raccolti che le sue cure rianimavano facendoli inspiegabilmente rinascere … ma non sufficienti a nascondere alla vista l’angusto panorama che si offriva ai suoi occhi quando seduta al tavolo alzava lo sguardo.

Era allora che i ricordi del giardino e della bella casa in cui era vissuta si piantavano nella testa col fastidio d’uno spillo, un passato da allontanare ogni volta col gesto della mano come un insetto molesto. Così fu improvvisa un giorno la decisione di allestire, con l’aiuto d’una pianta maestosa, uno scenario in armonia con la sua passione floreale nascondendo ai suoi occhi tutto il resto.

Il vivaio si trovava ai piedi delle colline che tanto amava e lo aveva notato tante volte senza mai soffermarsi: esteso ed ombreggiato, era suddiviso secondo le tipologie di piante che ospitava. Due pavoni passeggiavano a loro agio uno dei quali, alla vista di Francesca, pensò di “pavoneggiarsi” aprendo lo strabiliante ventaglio delle penne … ma ignaro del suo verso tanto sgradevole da far pensare ad una punizione divina per tanta prosopopea.

Era inebriata dai profumi e dalla bellezza del luogo da cui si lasciava condurre affidandosi al caso come avviene per un incontro predestinato. Non sarebbe stata lei a trovare la pianta ma la pianta a trovare lei. E così accadde.

Il suo nome era Nandina, ed essendo la più bella era stata collocata in testa ad una lunga fila di sue simili e accanto ad una serie di piante severe, dal fogliame scuro, come a voler creare un contrasto con i meravigliosi grappoli di bacche rosse che le ornavano. Quando il giorno seguente recapitarono il pesante vaso nel quale era collocata, Nandina aveva conquistato una posizione di privilegio di cui ignorava l’importanza, sopraffatta dal cambiamento repentino della sua vita nella solitudine d’un terrazzo in città.

Le cure che Francesca le prodigava non erano sufficienti ad allontanare la malinconia che la pervadeva. Le mancavano le sorelle e i compagni che aveva accanto con i quali al crepuscolo, quando gli uccelli si chetavano e i giardinieri si ritiravano, scambiava le impressioni della giornata col linguaggio delle piante: un fruscio modulato, una diversa inclinazione delle foglie , un agitar di fronde più o meno intenso, erano una comunicazione ignota alla sensibilità umana. L’assenza di dialogo con i suoi simili era motivo d’infelicità che le cure di Francesca non riuscivano a compensare, nonostante le carezze di parole incomprensibili a cui non poteva rispondere. Per lei era solo un brusio che sfiorava le foglie come l’aria.

Lentamente, ma inesorabilmente, il suo aspetto cambiava: trascorsero un’estate ed un inverno fino all’arrivo della primavera durante la quale la sua vitalità pareva rallentare: i nuovi grappoli erano pochi e scarni di bacche e le foglie, un tempo fitte e consistenti, erano più piccole e delicate. Solitudine ed isolamento, come avviene per gli esseri umani, ne avevano fatto una pianta depressa.

Francesca chiese consiglio ad un esperto giardiniere, funzionario di banca in pensione, che per passione si curava di fiori e siepi nelle aree pubbliche come volontario proprio nella zona in cui lei era solita passeggiare. Ogni mattina lo aveva osservato potare, scavare, piantare, dissetare, fino a quando accomunati dallo stesso arboreo sentimento avevano cominciato a parlarsi.

La preoccupazione per lo stato di salute di Nandina aveva contagiato anche lui, uomo di poche parole ma di sicuri fatti, così da spingerlo a proporsi per una visita a domicilio come medico delle piante. La visita a Nandina non aveva consentito di sperare: sembrava che la pianta volesse lasciarsi morire piuttosto che accettare un destino a cui non riuscire ad adattarsi. A nulla valsero i suggerimenti dell’esperto per contrastare un epilogo che recitò come un epitaffio al momento del commiato: “Questa pianta ha poca vita. Soffre di solitudine come gli umani e difficilmente si riprenderà”.

Francesca fece di tutto, la curò amorevolmente fino a quando, a primavera, di lei non era rimasto che uno scheletro di rami sterili. Dal suo punto d’osservazione davanti alla porta finestra la guardava senza riuscire a staccarsene, rifiutando l’idea di rimuoverla. Le pareva un tradimento che non sarebbe riuscita a perdonarsi e forse ancora coltivava la speranza d’un miracolo, visto che ogni giorno ne ispezionava i rami rinsecchiti alla ricerca d’un germoglio. La consolazione del Giardiniere, che condivideva il suo lutto facendole brevi visite, era un piccolo, momentaneo conforto.

A Settembre Francesca decise di tornare al vivaio. Non avrebbe mai sostituito Nandina con un’altra simile, era impensabile non rispettarne l’unicità come quando ci s’illude trovare in un altro l’amore perduto, senza constatarne la brutta copia. Si diresse nel luogo del loro primo incontro per inseguire un ricordo che questa volta comprendeva la pianta dalle foglie scure che le stava accanto , quando aveva pensato fosse una pianta maschio.

Non era possibile fosse la stessa di due anni prima ma le piacque crederlo al punto che subito la battezzò “Nando”, e quando lo vide vicino a ciò che rimaneva della bella Nandina le parve d’aver compiuto un gesto riparatore.

Nando intanto cresceva estendendo i rami verso Nandina così che a primavera pareva cingerle la vita, finchè un mattino si verificò un fatto straordinario: piccolissimi germogli erano comparsi durante la notte sui rami di Nandina che dopo mesi e mesi era tornata a vivere sfidando le leggi di Natura.

A Francesca tornarono alla mente le parole del Giardiniere : “soffre di solitudine come gli esseri umani”. Quando fu chiamato per constatare e condividere ciò che appariva un miracolo … anche lui, come Nando, le cinse la vita.

Marina Elettra Maranetto

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