“Il canone della Via e della Virtú”

“L’ottica dell’opera non è peraltro esclusivamente di tipo teologico-religioso, ma mira ad articolare una strategia retorico-concettuale indirizzata a una prassi che suggerisce come guardare al mondo, prendersi cura del singolo e al contempo gestire un’assennata politica governativa”

L’antico testo intitolato Daodejing ovvero Il canone della Via e della Virtú ‒ attribuito al saggio cinese Laozi, ma quasi certamente compilato da più autori, a partire dal IV-III secolo a.C., e ormai alquanto noto in tutto l’Occidente ‒ costituisce un’opera di altissima levatura spirituale e letteraria, che è stata assurta a scrittura canonica per eccellenza del cosiddetto daoismo o taoismo. Il registro espressivo che la caratterizza, all’insegna d’un peculiarissimo afflato mistico, è un icastico lirismo giocato tra il filosofico ed il sapienziale e delineato poeticamente tramite una lunga serie di aforismi che ‒ sottolinea Attilio Andreini: il traduttore/curatore della recente e pregevole edizione del Daodejing, pubblicata da Einaudi ‒: “evoca con forza iperbolica radicale, tanto per eccesso che per difetto, i più remoti misteri del cosmo e della dimensione umana, senza tuttavia tradurne le logiche in forma compiuta”.

L’ottica dell’opera non è peraltro esclusivamente di tipo teologico-religioso, ma mira ad articolare una strategia retorico-concettuale indirizzata a una prassi che suggerisce come guardare al mondo, prendersi cura del singolo e al contempo gestire un’assennata politica governativa. Non per nulla il termine dào non si riferisce solo al principio cosmico che per gli antichi cinesi regge l’universo, ma pure ad ogni discorso di carattere normativo/formativo, da assumere quale modello di comportamento cui attenersi. Il linguaggio del Daodejing però tende a scardinare la logica tradizionale/razionale, optando per un discorso eccentrico e paradossale che non disdegna contraddittorietà ed enigmaticità; anzi le predilige, col risultato di operare nel lettore una sorta di salutare straniamento, onde far sì che questi abbandoni ogni teoria precostituita ed ogni pretesa di cogliere la veridicità/assolutezza.

In coerenza con quanto sopra, Laozi considera insignificante/dannosa ogni sentenziosa visione del mondo e altresì ogni pedagogia o filosofia che non comporti la piena accettazione della realtà così com’è. Accogliere l’ineffabile Dao, allora, implica la rinuncia sia all’egoità che alla progettualità. Si tratta ‒ per il saggio: sia esso un maestro spirituale o lo stesso sovrano ‒ di agire in modo spontaneo, naturale, equilibrato ed imparziale, senza volizioni/ambizioni d’alcun tipo; poiché, troviamo scritto nel Canone della Via e della Virtú: “solo agendo senza adoperarsi non vi è cosa che non sia ben governata”. E se cielo e terra “non manifestano umana premura”, tuttavia il Dao ‒ visto come una sorta di grande madre che tutto abbraccia ‒ bada comunque al sostentamento dei “Diecimila Esseri”.

Coerentemente a ciò, vivere seguendo la via per antonomasia rappresentata dal Daodejing, comporta alla fine della propria esistenza un “ritorno alla propria radice” ‒ il Dao appunto ‒ che costantemente genera ogni cosa e consente la “Quiete”, ossia quella dimensione di inscalfibile pace e serenità auspicata non certo appena dai taoisti ma dai mistici d’ogni epoca e latitudine. Resta comunque innominabile/indefinibile il Dao, non essendo un ente limitato e rappresentando il tutto, la suprema unità (la mistica occidentale preferisce invece utilizzare il vocabolo Dio, a cui comunque fare allusione soltanto per via negativa o apofatica).

In estrema sintesi ‒ ovviamente assai riduttiva ‒ il taoismo vede la presenza, nell’universo, di una specie d’autoregolazione: lasciar essere la quale permetterebbe la possibilità di vivere singolarmente e collettivamente un’esistenza che oggi potremmo chiamare ecologicamente sana/integra e priva di quei mali che deriverebbero da chi contrasta l’equilibrio del Dao. Per questo il saggio segue il wu wei, ovvero la regola dell’agire senza un agire intenzionale; il che significa attenersi al ritmo naturale in ogni ambito della realtà mondana, non contrastando in alcun modo la natura. Ciò, sempre al di là di ogni sapere astratto, di qualsivoglia formula teorica, schematismo dottrinale o sentenziosità; in quanto ‒ ammonisce il Daodejing ‒: “Colui che sa, non parla, / colui che parla, non sa”.

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