COP 26: un flop annunciato…ma con conseguenze disastrose.

Il recentissimo rapporto dal WWF “Estinzioni di massa. Non mandiamo il pianeta in rosso” non fa che confermarci quel che già sapevamo e da cui non riusciamo ad uscire, troppo presi dalle nostre beghe di bottega. Una conferma, forse la più triste, la si è avuta nella difficoltà ad arrivare ad un percorso unico e condiviso che permetta a tutta la galassia “ Verde”  piemontese di trovare un suo equilibrio, non solo arrivando a più consistenti risultati elettorali ma, soprattutto, riuscendo a cambiare le cose. L’assemblea regionale del 28 novembre 2021, di cui forniremo dettagliato resoconto nel nostro giornale on line, sta – sotto questo profilo – iniziando nel peggiore dei modi. Il problema sono – come sempre – i nomi, le poltrone, le attribuzioni, gli incarichi,  mettendo in secondo piano le proposte concrete ed i contenuti su cui misurarsi. Il risultato finale, quindi, è – almeno lo è al momento in cui scriviamo – molto simile ai nulla di fatto registrati nei recenti giorni del “G20” romano o nella ancor più inconcludente e festaiola “COP 26” di Glasgow, con agenzie turistiche, compagnie di volo aereo, promoter vari, oltre a “pub” e rivendite di wiskey a beneficiare più di altri della “manna-cop-ventisei”. In sostanza molta fuffa, molto turismo, molto radical chic da sfoggiare e pochissima polpa, cioè pochi impegni veri per un salto di qualità ambientale non più procrastinabile.

Le valutazioni che ci vengono dal WWF, riportate in gran parte a termine articolo, come pure i segnali di allarme provenienti da tutti gli ambienti scientifici e dai movimenti di forte protesta nati sull’onda della preoccupazione generale (ad es. “Extinction Rebellion”) ci dovrebbero portare, invece ad un serio esame di coscienza.

Per prima cosa stiamo assistendo ad un inaridimento globale dell’ “humanitas”, prima ancora di uno svuotamento di aria, terra e mari nei loro componenti biologici fondamentali. Si tratta di un fenomeno estremamente diffuso e preoccupante che si basa su un incrocio tra “sindrome nimby” e conservazione dello “statu quo ante”. Una ricerca spasmodica di quella che era un tempo definita la “american way of life”  con la media borghesia – soprattutto bianca – assopita su alcuni capisaldi inamovibili: patria, famiglia, casa di proprietà, lavoro sicuro anche se non eccessivamente retribuito, auto di proprietà più vacanze assicurate, buoni voti a scuola per i figli e contatti con l’esterno limitati al mezzo televisivo, a volte alle radio e ai media web (più rozzi e semplici). Nulla più. Qualche capatina in Chiesa – dopo anni di ignavia –  per comparsate matrimoniali o per Cresime e Comunioni di cugini e nipoti e stop. Di “neri”, “cinesi”, “stranieri che mangiano kebap” nemmeno l’ombra…”noi siamo gente seria” direbbe uno dei nostri “assopiti”. Una specie di apartheid culturale perpetuo combinato con un limbo artificalmente fabbricato, dominato dalla sindrome “not in my backyarard”. Ecco. L’estinzione comincia di lì. Dal fatto di essere portati a credere di poter disporre del mondo, della natura che ci circonda, del fiume vicino a casa, del mare a cento chilometri, della montagna a duecento, come se fossero “proprietà acquisita di diritto”.  Proprietà, beninteso,  del genere umano migliore, quello che non si veste di pelli e non vive a contatto vero con la natura ma, pure quando va in montagna o al mare, sfoggia “Gucci” o “Dolce & Gabbana”. Ovviamente senza limiti di utilizzo delle inamovibili fonti fossili, basi di tutti gli sfizi possibili e immaginabili: dai viaggi di cento metri per comprare le sigarette all’impiego di camion sempre più grandi e inquinanti per trasporti tranquillamente possibili via mare o via ferrovia, fino ai continui trasbordi casa-mare, casa-montagna, “appannaggio di diritto non negoziabile”. Una sindrome da “non nel mio giardino” generalizzata, da perpetuare in tutti i modi, anche con muri divisori di centinaia di chilometri anti-intrusi o l’inganno di poter fruire sempre e comunque del “mare pulitissimo” magari alle Seycelles, visto che il mare di casa non è agibile.

La conseguenza, alla lunga, però è devastante e cominciamo ad assaporarla in tutta la sua asprezza proprio in questi anni. Da una parte un mondo politico sordo ed incapace di esprimersi in modo autorevole e concreto, dall’altra una situazione drammatica, evolutatisi in un briciolo di tempo (geologicamente parlando) che, ormai, è di fatto una “estinzione di massa”.  Una vera rivoluzione che cambierà i connotati all’intera terra e di cui la parte animale e vegetale è solo una delle componenti. Proprio Angela merkel, per tornare ai “murui divisori” di cui sopra, nel 2016 richiese all’Università di Francoforte una serie di studi per capire quanto sarebbe costato (ai soli tedeschi e, quindi alle multinazionali operanti in Germania) l’applicazione del giusto mantra “Aiutiamoli a casa loro”. Ad euro 2016 i costi per la sola Germania, di un progressivo sganciamento dagli interessi, proprietà, compartecipazioni dirette e indirette, in Africa e Sud America, ammonterebbero a ben 40 miliardi tondi tondi, sperando che gli equilibri rimessi in piedi in nazioni perennemente in difficoltà, possano reggere alla competizione internazionale. I finanziamenti esterni, a favore dei diversi Stati (ex Terzo e Quarto Mondo) finalizzati alla riforestazione, ad un uso oculato delle risorse idriche, alimentari, ad un utilizzo differente delle miniere e delle risorse ad esse collegate, “dovrebbero aiutare tutti questi amplissimi territori ad uscire dalle secche della neocolonizzazione” (nell’originale ancora espressivamente: “sollte all diesen sehr großen Territorien helfen, zu entstehen aus den Untiefen der Neokolonisation“..(1)) .

Poi, a cascata, le popolazioni ritroverebbero i loro habitat di origine e ne eviterebbero lo spopolamento, si potrebbe tentare un’opera di riequilibrio globale mettendo il genere umano nella sua porzione di competenza in interazione (e non in competizione distruttiva) con gli altri esseri viventi fino ad arrivare ad una resilienza vera, globale e non parolaia. Esattamente il contrario di quello che potrebbe succedere con l’ennesimo frazionamento del movimento “Verde” italiano o con la riproposizione di  “baracconi” tipo la COP26 scozzese.

Per capire meglio cosa ci sta succedendo rileggiamo insieme alcuni dei passi più significativi del recente documento di origine WWF.

Cos’è l’ “estinzione di massa”?

“L’estinzione delle specie animali e vegetali è un fenomeno naturale che fa parte del processo evolutivo. L’estinzione “naturale” delle specie è un processo che avviene dall’inizio della storia della vita sulla terra. Ogni specie si evolve, si adatta all’ambiente e al clima nel quale vive, e prima o poi (generalmente trascorrono alcuni milioni di anni) lascia spazio ad altre forme di vita, che meglio sanno adattarsi ai cambiamenti ambientali in corso. Si stima infatti che oltre il 99,9% delle specie viventi che hanno abitato la Terra oggi non esista più.

L’estinzione è dunque un fenomeno ricorrente, ma molto lento. Occasionalmente, nel corso della storia evolutiva, sono avvenuti però anche episodi di estinzioni di massa, eventi geologicamente rapidi, contraddistinti da un significativo incremento dei tassi di estinzione in numerose aree geografiche e ambienti in tutto il pianeta. La comunità scientifica oggi unanimemente riconosce cinque grandi estinzioni di massa avvenute nel passato.

La prima estinzione di massa di cui gli scienziati hanno riconosciuto le tracce negli strati geologici e nei rinvenimenti fossili è quella avvenuta alla fine del periodo geologico dell’Ordoviciano (circa 443 milioni di anni fa), in cui si stima che siano scomparse quasi il 90% delle specie viventi. Il secondo episodio di estinzione di massa avvenne alla fine del Devoniano, circa 359 milioni di anni fa. In questo episodio gli studiosi stimano la scomparsa di circa il 75% delle specie. La terza estinzione di massa (fine Permiano, circa 251 milioni di anni fa) fu probabilmente la più catastrofica, con la scomparsa di circa il 96% delle specie viventi. Alla fine del Triassico (circa 200 milioni di anni fa), la quarta estinzione di massa portò alla scomparsa quasi l’80% delle specie. Un valore molto simile (76%) scomparve, invece, alla fine del Cretaceo (circa 65 milioni di anni fa), in quella che è considerata la quinta estinzione di massa. Quella a cui stiamo assistendo oggi è ormai considerata unanimemente dagli scienziati (2) la sesta estinzione di massa, a causa del tasso di estinzione così accelerato da provocare l’attuale vertiginoso declino della biodiversità. La rivoluzione industriale, la crescita della popolazione umana l’espansione delle città hanno accelerato gli impatti sulla biodiversità. Mentre in condizioni normali scompaiono ogni anno da 1 a 10 specie, durante l’ultimo secolo il tasso di estinzione è accelerato in maniera impressionante. Oggi i 300 specialisti della Species Survival Commission della IUCN stimano un tasso di estinzione di 1.000 volte superiore al tasso di estinzione naturale.

La sesta estinzione di massa                                                                                      Il report IPBES (2019) (3) traccia un quadro allarmante sulla perdita di natura in atto nel nostro Pianeta: l’estinzione delle specie corre infatti a ritmi sempre più veloci. Il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati modificati in modo significativo. Più di un terzo della superficie terrestre del mondo e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono ora destinate alla produzione di colture o bestiame e circa 1 milione di specie animali e vegetali, come non si era mai verificato nella storia dell’umanità, rischiano l’estinzione.

Il 68% delle popolazioni monitorate di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci hanno subito un declino tra il 1970 e il 2016. Stiamo distruggendo la biodiversità a un ritmo senza precedenti. A partire dalla rivoluzione industriale, le attività umane hanno distrutto e degradato sempre più foreste, praterie, zone umide e altri importanti ecosistemi, minacciando il benessere umano. Il 75% della superficie terrestre non coperta da ghiaccio è già stata significativamente alterata, la maggior parte degli oceani è inquinata e più dell’85% della superficie delle zone umide è andata perduta.

Il più importante fattore diretto della perdita di biodiversità nei sistemi terrestri durante gli ultimi decenni è stato il cambiamento dell’uso dei suoli e, principalmente, la conversione di habitat primari incontaminati in sistemi agricoli, mentre la gran parte degli oceani è stata oggetto di pesca eccessiva. A livello globale, il cambiamento climatico non è stato finora il più importante fattore responsabile della perdita di biodiversità, ma nei prossimi decenni si prevede che assumerà un’importanza pari o superiore a quella degli altri fattori.

La conversione di praterie, savane, foreste e zone umide, il sovrasfruttamento delle specie, il cambiamento climatico e l’introduzione di specie aliene sono i fattori chiave. L’impatto dell’uomo sulla natura sta alterando i paesaggi in tutto il mondo. “L’estinzione genera estinzione”. La perdita di una specie causa un effetto “domino”, che favorisce l’estinzione di altre che da essa dipendono. E la crisi di biodiversità che stiamo provocando non ha ripercussioni solo sugli ecosistemi. L’umanità stessa si affida alla biodiversità per la salute e il benessere. La pandemia di coronavirus ha fatto comprendere a molti i pericoli legati alla distruzione degli habitat naturali da parte dell’uomo. Interferire e distruggere gli equilibri degli ecosistemi naturali depredando gli habitat darà vita a nuove emergenze, non solo sanitarie. L’aumento inarrestabile della popolazione umana, la distruzione degli habitat naturali, la deforestazione, il traffico e il commercio di fauna selvatica, gli allevamenti intensivi, l’inquinamento e la crisi climatica sono tutte problematiche in relazione tra loro.

Come definire i diversi livelli del rischio estinzione per le specie: le categorie della IUCN.                                                                                                  La valutazione del rischio di estinzione per le specie è basata sulle Categorie e sui Criteri delle Liste Rosse della IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura). Le categorie di rischio indicano quanto vicino all’estinzione sia una specie o sottospecie. Le categorie vanno da Estinto (EX, Extinct), per le specie per le quali è stata accertata la morte dell’ultimo individuo esistente, e Estinto in Ambiente Selvatico (EW, Extinct in the Wild), assegnata alle specie per le quali non esistono più popolazioni in natura, ma sono presenti solo individui in cattività (zoo, bioparchi, centri di recupero, etc.), fino alla categoria Minor Preoccupazione (LC, Least Concern), adottata per le specie che non destano particolari preoccupazione e dunque non sono a rischio di estinzione nel breve o medio termine. Le categorie di minaccia, inserite tra quelle di estinzione e quella di minor preoccupazione, indicano invece un crescente rischio di estinzione nel breve o medio termine per le specie: Quasi minacciata (NT, Near Threatened), Vulnerabile (VU, Vulnerable), In Pericolo (EN, Endangered) e In Pericolo Critico (CR, Critically Endangered). Queste specie rappresentano delle priorità di conservazione, perché senza interventi e azioni volte a mitigare le minacce nei loro confronti, l’estinzione sul breve e medio termine diventa una prospettiva concreta. Le specie per le quali non si hanno informazioni sufficienti per valutarne lo status di conservazione sono inserite nella categoria Carenti di Dati (DD, Data Deficient).

I criteri per l’inserimento delle specie in una categoria della Lista Rossa IUCN prendono in considerazione il declino della dimensione della popolazione o della distribuzione geografica e/o le piccole dimensioni della popolazione o dell’areale.

Gli “hot spot” delle estinzioni                                                                                     La perdita di biodiversità causata dall’uomo e dalle sue attività tende ad avere effetti di lunga durata, e spesso permanenti sugli ecosistemi. Gli umani, i loro raccolti e i loro animali da cibo occupano una quota crescente della superficie terrestre. La metà della terra abitabile del mondo (circa 51 milioni di km2) è stata convertita in agricoltura e circa il 77% dei terreni agricoli (circa 40 milioni di km2) è utilizzato per il pascolo del bestiame domestico (bovini, ovini, caprini e altri animali).

Dal 1800 alcuni ecosistemi hanno perso più del 90% delle loro estensione originaria, soprattutto in Europa e Nord America. I tassi di estinzione sono aumentati drasticamente nel corso del ventesimo secolo per tutti i gruppi tassonomici per i quali è possibile effettuare una solida valutazione.

Il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente oceanico sono stati significativamente modificati. Più di un terzo della superficie terrestre del mondo e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono ora destinate alla produzione agricola o zootecnica.

Quella in corso non è una “crisi” passeggera”, ma una vera e propria estinzione di massa, provocata dall’uomo e dalle sue attività. Circa il 25% delle 93.579 specie per le quali è valutato lo status di conservazione sono attualmente minacciate di estinzione globale (ovvero, elencate nella Lista rossa IUCN come vulnerabile, in pericolo o in pericolo critico). Ad essere minacciati a livello globale sono il 41% delle specie di Anfibi, il 13% delle specie di Uccelli, il 7% delle specie di Pesci ossei, il 25% delle specie di Mammiferi ed il 19% delle specie di Rettili. La situazione non è migliore per le piante. A rischio sono il 36% delle Dicotiledoni, il 17% delle Monocotiledoni, il 40% delle Gimnosperme (Conifere e altri gruppi) ed il 16% delle Pteridofite (Felci).

Ancora peggiore la situazione delle zone umide, di cui si stima abbiamo perso circa l’87% dal 1700 ad oggi.

Negli ultimi 20 anni l’Artico ha visto grandi trasformazioni nei suoi habitat, soprattutto a causa dei cambiamenti climatici. Le aree ricoperte da ghiacciai stanno diminuendo, lasciando spazio a zone acquitrinose e paludi (in aumento del 19%). In queste aree le foreste stanno sostituendo un habitat unico come la tundra, che si è ridotta del 91%.I cambiamenti climatici hanno un impatto diretto su specie e habitat, in particolar modo modificando la distribuzione spaziale, i cicli riproduttivi, le migrazioni ed i movimenti. Esaminando 130 studi sugli impatti dei cambiamenti climatici su Uccelli e Mammiferi minacciati, si evince che quasi 700 specie hanno già mostrato risposte negative ai recenti mutamenti del clima. Quasi la metà (47%) dei Mammiferi terrestri a rischio di estinzione, esclusi i pipistrelli, e un quarto(23%) degli Uccelli a rischio potrebbero essere già essere stati influenzati negativamente dal cambiamento climatico almeno in parte del loro areale.

A subire l’impatto dell’uomo sono anche gli insetti, specie posizionate alla base delle catene alimentari di tutto il pianeta. Una delle ricerche più esaustive mai realizzate fino ad oggi (pubblicata su Biological Conservation ad aprile 2019) riporta che oltre il 40% delle specie di insetti è minacciato. Nella lista rossa della IUCN sono state valutate a rischio di estinzione 58 delle 130 specie di api responsabili dell’impollinazione di colture alimentari in Europa e Nord America. Queste specie subiscono in maniera forte gli impatti del cambiamento climatico e dell’uso dei pesticidi e di altre sostanze dannose in agricoltura.

Tra le cause del declino della biodiversità c’è anche il sovrasfruttamento delle popolazioni animali. In particolare, la biodiversità marina soffre per l’overfishing, il depauperamento delle risorse di pesce causato da un’eccessiva e non razionale attività di pesca. Il pesce consumato a livello globale ammonta a 48 milioni di tonnellate in totale (di cui solo il 45% deriva da pratiche di acquacoltura). E la quantità di pesce pescato è aumentata di 5 volte nella seconda metà dell’ultimo secolo.

Le cause di estinzione e le specie simbolo dell’impatto sull’uomo sulla biodiversità                                                                                                                      La IUCN ha accertato l’estinzione di almeno 160 specie nell’ultimo decennio. Questo numero, seppure elevato, rappresenta probabilmente una sottostima, sia per la difficoltà di ricerca sia per la poca conoscenza riguardo alcuni taxa, considerati “minori” (tra gli invertebrati in primis). Le cause e i fattori che portano le specie prima alla rarefazione poi all’estinzione in questo drammatico momento storico sono numerose, e in tutte c’è purtroppo la mano dell’uomo. Spesso le specie in declino soffrono a causa di una molteplicità di fattori, per cui è difficile individuare la causa prima del declino. La lista delle specie scomparse, direttamente o indirettamente, a causa dell’uomo è costantemente da aggiornare. La scomparsa di una specie equivale a perdere un particolare e fondamentale tassello del mondo vivente, evolutosi e adattatosi in un determinato ambiente, e rappresenta dunque una grave perdita per la biodiversità del pianeta.

Tra le specie dichiarate estinte negli ultimi anni, per citare alcuni esempi, Melomys rubicola, un roditore endemico dell’isola corallina Bramble Cay, tra l’Australia e la Nuova Guinea, si è estinto nel 2016 ed è considerato il primo mammifero vittima dei cambiamenti climatici. Questo roditore viveva su un’isola al largo dell’Australia ed è stato visto l’ultima volta nel 2009. Si ritiene che l’innalzamento dei mari abbia contribuito alla sua scomparsa, a causa dell’inondazione sempre più frequente dei suoi habitat d’elezione.

La bettongia del deserto (Bettongia anhydra), piccolo marsupiale del genere Potoro, non è stato più osservato in natura dal 1933. Si crede che il declino della specie sia legato all’introduzione di specie aliene invasive in Australia, in particolare di topi e volpi. La IUCN l’ha dichiarato estinto nel 2016.

Il pipistrello dell’isola di Natale (Pipistrellus murrayi), nell’oceano Indiano, è stato dichiarato estinto nel 2017. L’ultimo individuo di questa specie è stato avvistato nel 2009. La sua estinzione è stata causata da un insieme di fattori, tra cui hanno avuto un ruolo chiave l’introduzione di specie alloctone, come il serpente lupo comune (Lycodon capucinus), il gatto e il ratto, e l’utilizzo crescente di insetticidi, come il Fipronil.

L’akiaola di Kauai (Akialoa stejnegeri) è un uccello delle Isole Hawaii, osservato per l’ultima volta nel 1969. L’effetto combinato di distruzione dell’habitat e introduzione di specie alloctone sono i fattori che hanno portato alla scomparsa di questa specie di Fringillide. La Iucn lo ha dichiarato estinto nel 2016.

Ma un epilogo simile potrebbe ripetersi per molte altre specie, alcune delle quali sono davvero ad un passo dall’estinzione. I fattori principali che stanno portando alcune specie ad un rapido declino sono differenti, alcuni dei quali assumono un’importanza a livello globale: deforestazione, cambiamento climatico, bracconaggio, incendi, utilizzo di pesticidi, inquinamento da plastica. Per ognuno di questi fattori, esistono specie simbolo che rischiamo di perdere.

Deforestazione                                                                                                               8.000 anni fa, circa la metà della superficie terrestre era occupata da foreste. Oggi quest’area si è ridotta al 30% e la deforestazione continua a ritmi vertiginosi, soprattutto nei luoghi che ospitano alcune delle comunità umane più vulnerabili al mondo e dove si concentra una elevata biodiversità in pericolo. Tra il 2004 e il 2017 oltre il 10% della superficie forestale entro i confini dei 24 fronti di deforestazione (concentrati in 29 Paesi di Asia, America Latina e Africa, che custodiscono una superficie forestale di 377 milioni di ettari) è andato perduto, si tratta di circa 43 milioni di ettari (ndr, l’Italia è grande circa 30 milioni di ettari); mentre quasi la metà della foresta ancora in piedi – circa il 45% – ha subito frammentazioni. Solo nel Cerrado brasiliano, che ospita il 5% delle specie animali e vegetali del pianeta, ad esempio, i terreni sono stati rapidamente deforestati per l’allevamento del bestiame e la produzione di soia con la conseguente perdita di un terzo (il 32,8%) della sua superficie forestale tra il 2004 e il 2017

I delfini di fiume, di cui esistono 8 specie appartenenti alle famiglie Iniidae, Delphinidae e Platanistidae, vivono nei sistemi fluviali del Sud America e dell’Asia. Mentre alcune specie si incontrano esclusivamente in acque dolci, altre popolano anche i mari o le acque salmastre. L’habitat naturale di questi abitanti dei fiumi sta via via scomparendo, a causa della deforestazione e della costruzione di impianti di sbarramento e dighe. Le dighe sono ostacoli spesso insormontabili che impediscono ai delfini l’accesso alle fonti alimentari, impedendo anche la migrazione dei pesci. I delfini di fiume rimangono spesso vittima anche di catture accidentali, morendo impigliati con le pinne nelle reti a maglia stretta dei pescatori. E anche l’inquinamento dei fiumi rappresenta oggi una seria minaccia per la sopravvivenza delle popolazioni residue. In Asia gli scarichi delle industrie, degli insediamenti e i residui dei pesticidi impiegati in agricoltura vanno a finire nei corsi d’acqua, deteriorando la qualità dell’habitat e delle risorse per i delfini.

Altre specie che sono in pericolo estinzione a causa della distruzione dell’habitat sono le 3 specie di orango che vivono in Indonesia: l’orango di Sumatra (Pongo abelii), l’orango del Borneo (Pongo pygmaeus) e l’orango di Tapanuli (Pongo tapanuliensis). L’areale originario degli oranghi si estendeva da Giava alla Cina meridionale. Oggi sono presenti solo nella parte nord-occidentale di Sumatra e nel Borneo. Nel Borneo quasi il 40% dell’habitat dell’orango è andato perso tra il 1973 e il 2010 a causa della deforestazione. A Sumatra questa percentuale ha raggiunto addirittura il 60% tra il 1985 e il 2010. Le piantagioni di palme da olio e alberi da cellulosa, le aziende agricole e l’industria mineraria scacciano l’orango dal proprio habitat. Tra il 1999 e il 2015, si stima che circa 100.000 oranghi siano morti a causa dell’uomo. I fattori che stanno portando all’estinzione gli oranghi sono, oltre alla deforestazione per fare spazio a piantagioni di olio da palma e a nuove miniere, anche il riscaldamento globale e il bracconaggio, che continua ad uccidere ancora molti di questi primati. Secondo recenti ricerche, con gli attuali tassi di deforestazione, nei prossimi 35 anni potremmo perdere altri 45.000 oranghi.

Incendi                                                                                                                                 Quasi tutti gli habitat che si tratti di foreste, di steppe, di praterie, di savane, risentono in maniera significativa dai cambiamenti prodotti dal riscaldamento del pianeta: cambiamenti nel ciclo delle piogge, nella quantità di acqua e umidità presente nel terreno, nell’energia dei venti, nelle frequenti siccità, nell’inaridimento, nella progressiva desertificazione che avanza nel pianeta al ritmo di 11 milioni di ettari l’anno. In questo generale stato di sofferenza si aggiunge l’impatto umano diretto: degrado, consumo insostenibile, deforestazione, mancata gestione, abbandono. Ecco quindi che tutti gli ingredienti per incendi devastanti sono accuratamente serviti. Innescati dalle mani scellerati di piromani o da quelle criminali di piccoli e grandi interessi, gli incendi si trasformano in un istante in veri e propri mega fires (o addirittura gigafires): roghi sempre più grandi per dimensione del fronte delle fiamme, per superficie attraversata, per velocità di propagazione, per temperatura raggiunte. Solo negli stati uniti negli ultimi 40 anni il numero degli incendi è aumentato del 1000%.

Il koala (Phascolarctos cinereus) è in declino nell’Australia orientale. Questo marsupiale, un tempo abbondante nelle foreste di eucalipto del continente, è stato decimato dalla perdita di habitat, dalla diffusione di malattie (es. Clamidia) e da eventi climatici estremi negli ultimi anni, che hanno causato periodi di siccità e incendi fuori dal comune. Dopo i drammatici incendi dell’estate 2019/2020 in Australia, si stima che anche circa 60.000 koala abbiano subito gli effetti di questi eventi. Le peggiori perdite sono state a Kangaroo Island, con altre 40.000 koala potenzialmente colpiti. Poi ci sono state le foreste di Victoria, nelle quali vivevano 11.000 koala. Altre preziose popolazioni di koala sono state colpite dal fuoco nel NSW, dove si stima che 8.000 koala siano rimasti coinvolti negli incendi, uccisi o feriti. Il riscaldamento globale rappresenta una minaccia continua, aumentando da un lato la frequenza e l’estensione degli incendi boschivi e dei periodi di siccità, e dall’altro riducendo la qualità delle foglie di eucalipto, che rappresentano la quasi totalità della dieta del koala. A seguito degli incendi 2019-2020 si stima una riduzione del 72% nel numero di koala in sei località della costa settentrionale dell’Australia.

Alcune stime, basate sui trend di declino della specie registrati negli ultimi anni, che hanno purtroppo subito una rapida accelerazione in seguito agli eventi del 2019-2020, evidenziano un elevato rischio di estinzione entro il 2050 se non si interviene sulle popolazioni residue con interventi di ripristino dell’habitat.

Anche l’Opossum pigmeo di montagna (Burramys parvus), specie di marsupiale in rapido declino, sta pagando un elevato costo a seguito degli incendi che hanno distrutto la metà della Kangaroo Island, habitat naturale della specie. Prima del disastro si stimava sull’isola la presenza di meno di 200 esemplari. Oggi la specie, in pericolo critico di estinzione, potrebbe essere ancora più prossima alla scomparsa.

Tra le specie più colpite dagli incendi ci sono quelle che hanno capacità di spostamento ridotte, come molti rettili. Nei tragici incendi australiani, ad esempio, ad essere state maggiormente colpite sono diverse specie di lucertola, principalmente specie comuni nell’Australia orientale e sud-orientale. Delle prime 20 specie più colpite, 16 sono scincidi (famiglia Scincidae), due gechi (famiglia Diplodactylidae) e 2 lucertole drago (famiglia Agamidae).

Cambiamento climatico                                                                                                I cambiamenti climatici provocati dalle attività umane sono responsabili di gravi conseguenze su molti habitat e sulle specie che da questi dipendono. Il riscaldamento globale sta rendendo sempre più fragili in particolare gli ambienti polari e di alta montagna, mettendo a rischio la sopravvivenza di specie vulnerabili e uniche. Tra queste il simbolo è certamente l’orso polare (Ursus maritimus): il suo habitat e la sua sopravvivenza sono seriamente minacciate. Gli orsi polari hanno infatti bisogno del ghiaccio marino per potersi muovere in aree estese e andare in cerca di cibo, ma se i trend di fusione delle calotte polari e la scomparsa di habitat idoneo proseguiranno come negli ultimi decenni, in soli 35 anni rischiamo di perdere fino al 30% della popolazione di orso polare. A conferma di questa terribile prospettiva, secondo l’organizzazione Polar Bear International, la popolazione di orsi nella baia di Hudson, in Canada, ha già subito una riduzione del 30% fra il 1987 e il 2017.

Altra specie simbolo dei drammatici effetti del cambio climatico è il leopardo delle nevi (Panthera uncia). Questo felino vive nei paesaggi montani aspri e in alta quota dell’Asia centrale, ad oltre 3.000 metri di altitudine. Oggi sul pianeta restano meno di 7.000 individui, distribuiti in un areale ridotto e frammentato. Il cambiamento climatico, influenzando negativamente gli ecosistemi d’alta quota, habitat d’elezione del leopardo delle nevi, sta aggravando le altre minacce e peggiorando una situazione già molto precaria, a causa di deterioramento e perdita del suo habitat, del bracconaggio e del conflitto con le comunità locali. Un recente studio della Berkeley University, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, ha stimato che entro il 2070 solo un terzo dell’areale del felino tibetano potrebbe resistere agli effetti del riscaldamento globale. Le temperature sempre più calde provocano infatti l’innalzamento del limite superiore delle foreste, mettendo a rischio gli habitat aperti di alta montagna, regno di caccia del leopardo delle nevi.

Tra le specie italiane minacciate dal cambiamento climatico c’è lo stambecco (Capra ibex). Con l’innalzamento delle temperature medie, la stagione vegetativa nelle aree montane dove vivono questi Ungulati è sempre più anticipata. Le praterie d’alta quota si sono impoverite di proprietà nutritive e non offrono ai giovani capretti il foraggio adatto alla loro nutrizione nel momento critico dello svezzamento. Basti pensare che nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, roccaforte della loro distribuzione italiana, la sopravvivenza nel primo anno di vita è scesa dal 50% negli anni ’80 al 25% di oggi. Negli ultimi 20 anni, la popolazione alpina si è dimezzata. Questa specie, mentre è perfettamente in grado di far fronte alla rigidità delle temperature invernali, non è altrettanto adattata a sopportare temperature elevate. Le previsioni per lo stambecco non sono molto ottimistiche. I modelli dei ricercatori prevedono, con gli attuali trend di riscaldamento globale, un dimezzamento dell’estensione degli habitat idonei allo stambecco entro il 2100.

Bracconaggio                                                                                                                   A mettere a serio rischio la biodiversità, e ad avvicinare alcune specie al baratro dell’estinzione, ci sono naturalmente anche le uccisioni volontarie da parte dell’uomo, legali e illegali. Il bracconaggio, legato da un lato al commercio illegale di animali o parti di essi, e dall’altro ai conflitti che alcune specie possono creare con le attività umane, ogni anno uccide migliaia di animali, appartenenti anche a specie protette e in declino.

La tigre (Panthera tigris), una delle più carismatiche specie bandiera del pianeta, è oggi fortemente minacciata, anche a causa delle uccisioni illegali. In natura ne rimangono circa 3.900. Le residue popolazioni sono distribuite nelle sempre più frammentate foreste che si estendono tra l’India e la Cina sudorientale e dall’estremo oriente russo al Sud-Est asiatico. Mentre da un lato il bracconaggio a fini commerciali continua a mettere a rischio la sopravvivenza della specie, le altre minacce sul lungo termine sono la perdita di habitat, causata dalla conversione delle foreste in piantagioni commerciali, e la scomparsa delle sue prede naturali. A peggiorare il livello di minaccia c’è poi un crescente conflitto tra la tigre e gli interessi delle comunità locali. Dagli anni ’90 sono aumentate le uccisioni per vendetta, spesso compiute per mezzo del veleno, per proteggere il bestiame. Questi conflitti crisi si stanno diffondendo anche in uno dei più importanti territori abitati dalle tigri nel sud-est asiatico, il Belum-Temengor in Malesia, dove dal 2009 al 2018, il numero delle tigri ha fatto registrare un drammatico calo del 50%. Nell’ultimo secolo la popolazione di tigre a livello globale si è ridotta del 96%, passando dai 100.000 esemplari ai circa 3.900 odierni.

Altre specie drammaticamente colpite dal bracconaggio sono l’elefante di savana (Loxodonta africana) e quello di foresta (Loxodonta cyclotis). Entrambi sono stati nel 2021 per la prima volta inclusi nelle categorie di rischio più elevato nella lista rossa della IUCN, e presentano dunque un elevato rischio di estinzione nel breve o medio termine. Mentre l’elefante di savana è ritenuto “in pericolo”, quello di foresta è addirittura “in pericolo critico”. Oltre alla crisi climatica, e il conseguente aumento di ondate di calore e siccità, e alla perdita di habitat, le minacce più importanti per i pachidermi sono il bracconaggio, dovuto in larga parte alla domanda di avorio, e le uccisioni illegali legate ai conflitti con le popolazioni locali. Il bracconaggio, in particolare, è aggravato anche dalla sempre più diffusa presenza di gruppi terroristici, che spesso gestiscono il commercio illegale di parti di animali selvatici, importante fonte di guadagno per queste organizzazioni criminali. Si stima che il bracconaggio uccide ogni anno circa 27.000 esemplari di elefanti africani (l’8% della popolazione mondiale) a causa del commercio illegale di avorio, alimentato dalla criminalità organizzata globale e incrementato dalla grande domanda proveniente dai paesi asiatici. Solo negli ultimi dieci anni, gli elefanti africani sono diminuiti di oltre il 20%. La situazione appare ancora più drammatica se si guarda alle foreste africane: in quattro paesi dell’Africa centrale, le popolazioni di elefante di foresta sono diminuite di circa il 66% negli ultimi anni. Triste primato alla Selous Game Reserve (inserita dall’Unesco tra le aree World Heritage a rischio) con oltre il 90% degli elefanti sterminati negli ultimi 40 anni a causa dell’aumento del bracconaggio. Qui, la popolazione è passata dai 110.000 agli attuali 15.200 individui.

Altre specie, meno carismatiche delle precedenti, ma drammaticamente rappresentative del rischio estinzione causata dal prelievo umano sulle popolazioni naturali sono le 8 specie di pangolino. Si tratta infatti probabilmente dei mammiferi più trafficati al mondo. Circa 200.000 pangolini vengono trafficati e commercializzati ogni anno in Asia, sia per le loro scaglie sia per la loro carne. Tutto ciò nonostante il commercio di tutte e otto le specie di pangolino sia vietato dalle leggi internazionali e tre delle quattro specie originarie dell’Asia siano incluse nella Lista rossa della IUCN come in pericolo di estinzione. Si stima che le popolazioni di pangolini asiatici siano diminuite dell’80% negli ultimi 10 anni. Oggi il commercio illegale è in crescita, e le reti criminali internazionali che prima si concentravano sull’avorio stanno passando sempre più al pangolino.

Il rinoceronte è uno degli animali simbolo della selvaggia natura africana e asiatica, ma anche del drammatico impatto del bracconaggio sulla biodiversità. Oggi sopravvivono in natura 5 specie di rinoceronte. In Africa sono presenti il rinoceronte bianco (Ceratotherium simum) e quello nero (Diceros bicornis), mentre in Asia sono presenti 3 specie differenti, il rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis), il rinoceronte di Giava o della Sonda (Rhinoceros sondaicus) e il rinoceronte indiano (Rhinoceros unicornis). Ma i numeri indicano che la situazione è davvero preoccupante: in totale, tra Africa e Asia sopravvivono meno di 30.000 individui. Grazie al ruolo delle aree protette africane il rinoceronte bianco sembra in leggera ripresa, e sembra contare oggi circa 20.000 individui, ma lo stesso non si può dire per il cugino “minore” africano, il rinoceronte nero, che conta meno di 5.000 individui. Ancora peggiore la situazione per i rinoceronti asiatici, che sono meno di 4.000. La causa del rapido declino di queste specie è in primis il traffico illegale di corni di rinoceronte, usati dalle medicine tradizionali di Cina e Vietnam, ma anche come materia prima per la produzione di gioielli, bracciali e collane. Questi fattori hanno portato già all’estinzione in natura della sottospecie del Rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni)

Inquinamento da plastica                                                                                            La plastica in mare è oggi una delle minacce più concrete per gli ecosistemi marini e per le specie che li abitano. I cetacei sono tra gli animali più colpiti, in quanto spesso ingeriscono buste e altri rifiuti in plastica, erroneamente o scambiandoli per meduse. Un recente rapporto in merito dell’Università di Padova indica che l’84% dei capodogli spiaggiati tra il 2008 e il 2019 aveva nel proprio stomaco frammenti di plastica. Anche se la plastica non uccide immediatamente l’animale, si può accumulare nello stomaco e debilitare l’organismo, alterando la funzionalità intestinale. La IUCN ha inserito il capodoglio (Physeter macrocephalus) nella lista rossa degli animali minacciati. Si stimano non più di 2500 individui in tutto il Mediterraneo. Lo stesso drammatico impatto esiste sulle tartarughe marine (Caretta caretta). Secondo uno studio pubblicato su Global Change Biology, almeno il 52% di individui recuperati presenta sintomi dovuti a ingestione di plastica, anche in questo caso probabilmente erroneamente scambiata per meduse.

Utilizzo dei pesticidi

Tra le cause che stanno mettendo a rischio la sopravvivenza di molte specie, c’è l’utilizzo di veleni e pesticidi in agricoltura. Un recente studio statunitense, basato sull’uso di 380 pesticidi fra il 1992 e il 2016, ed uno studio dell’Università di Torino, che ha esaminato gli effetti a lungo termine del flupyradifurone, pesticida di nuova generazione, hanno rivelato che una lunga esposizione può alterare il comportamento delle api e portare ad una morte precoce. I pesticidi, tra cui anche quelli ritenuti “innocui” per le api, comprometterebbero in realtà non solo la sopravvivenza, ma il comportamento stesso delle api. L’aumento dell’uso dei pesticidi ha provocato il peggioramento dello status di conservazione delle api e di molti altri degli insetti impollinatori (comprese molte farfalle) in generale, minacciando l’impollinazione degli ecosistemi naturali e agricoli, e dunque la stessa produzione di cibo per l’uomo. Infatti quasi il 90% delle piante selvatiche che fioriscono e oltre il 75% delle principali colture agrarie esistenti necessitano dell’impollinazione animale per riprodursi.

Non tutti gli effetti sono poi valutabili nel breve termine; anche se gli impollinatori non muoiono immediatamente, le conseguenze dell’esposizione possono comunque causare alterazioni che conducono ad una morte precoce. Secondo la IUCN, più del 40% delle specie di impollinatori invertebrati rischiano di scomparire, mettendo a rischio l’equilibrio degli ecosistemi. In Europa quasi la metà delle specie di insetti è in grave declino. Il 37% delle popolazioni di api e il 31% delle popolazioni delle farfalle presentano trend negativi.

Anche molte specie di anfibi e rettili sono in declino a causa dell’utilizzo di pesticidi e altre sostanze tossiche in agricoltura. Tritoni, rane e lucertole in particolare soffrono esposizione ai pesticidi, e in aree dedicate all’agricoltura intensiva sono in drastica diminuzione. Anfibi e rettili rimangono esposti per lunghi periodi di tempo a causa delle loro scarse possibilità di allontanarsi dalle aree trattate. L’assorbimento tramite la pelle o l’ingestione di cibo contaminato sono le principali cause dell’avvelenamento.” (4)

Poco da aggiungere…dipende solo da noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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WWF ITALIA  2021

 

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