D’Alema e l’assenza della sinistra

Per quale ragione prevalente si immagina che un lettore del popolo di sinistra legga il recente libro di Massimo D’Alema “Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale”(Donzelli editore, pp. 158)? Naturalmente, per sapere come un esponente storico, autorevole, della sinistra interpreta i fatti aggrovigliati dell’attualità. Per acquisire un punto di vista alto della sinistra su tali fatti. Per cercare di capire come la sinistra può svolgere il suo ruolo nell’attualità internazionale. Per avere una ulteriore conferma della indispensabile funzione storica della parte politica nella quale milita. Per rafforzare una appartenenza che gli consente di filtrare i fatti senza subirli passivamente e, per questo, sentirsi attivo, protagonista. Per contribuire, così, per la sua parte, a costruire il futuro.

Invece, niente di tutto questo è presente nel libro. E man mano che si va avanti nella lettura la delusione diventa sempre più profonda. La parola “sinistra” non compare nemmeno una volta. Nemmeno inavvertitamente. Nemmeno en passant. Né può essere accampata l’attenuante dell’estrema sinteticità del libro a fronte di fatti globali epocali e di una moltitudine di protagonisti. Si ha quasi l’impressione che l’autore ‘consapevolmente’ sia stato molto attento a non pronunciarla.

D’Alema leader prestigioso della sinistra, politico di razza, con una militanza di più di mezzo secolo sempre dalla stessa parte, qui non c’è proprio. Non c’è il dirigente con un’esperienza politica unica iniziata nel partito fondato da Antonio Gramsci. Il collaboratore e, per molti aspetti, l’’erede’ di Enrico Berlinguer. La figura         apprezzata, seguita, votata da migliaia di elettori, di militanti . Il politico dal curriculum eccezionale, primo presidente del Consiglio dei Ministri proveniente dal partito di Togliatti. Ministro della Repubblica per la sinistra. Statista che ha incontrato i “grandi della Terra”- e che con questi si è confrontato-, presidenti di Stati nazionali e Papi, sempre col compito di rappresentare e ‘servire’ una grande idea, un grande movimento di donne e uomini, una grande cultura, una ‘civiltà’ addirittura.

Memoria di questa storia nel libro ve ne è davvero poca perché D’Alema ha voluto scriverlo nella nuova, recentissima veste di professore della Link Campus, università sicuramente prestigiosa ma anche abbastanza chiacchierata e ‘indagata’. Sono raccolti, infatti, i testi delle sue lezioni svolte tra marzo e maggio scorsi. E’ senz’altro apprezzabile  che egli abbia con tenacia perseguito l’obiettivo di fare anche il professore, ma questo titolo aggiunge assai poco al prestigio della sua figura politica. Di professori, per fortuna, ve ne sono tanti. D’Alema politico di caratura internazionale è invece uno solo. Il peso di una storia cinquantennale si fa sempre sentire, anche se c’è una momentanea ‘caduta’, anche se al momento non si fa politica attiva. L’ingenuità di aver detto, forse per cercare di giustificare l’assenza nel libro di una spirito ‘militante’, che <<la politica non si predica, si pratica>> è appunto solo una ingenuità che gli va perdonata. Perché sa meglio di tutti che la politica è anche (soprattutto?) “predica” e che proprio molte sue prediche di sinistra sono servite a tenere in vita un movimento.

Con ciò, non si intende sottovalutare il contributo che il volumetto ha dato e le qualità  ‘accademiche’ dello stesso. Al di là della discutibilità di alcune tesi, vi sono, per esempio, sintesi molto precise e utili anche per gli addetti ai lavori (come quella sulla storia del Medio Oriente, sulla Cina del dopo Mao, sulla Russia di Putin). Forse di ulteriore verifica avrebbe bisogno la convinzione –in verità abbastanza diffusa- che la Cina ed altri Paesi <<dal carattere autoritario>> ma <<con un grado minore di individualismo, una maggiore coesione sociale>> abbiano saputo fronteggiare meglio il Comid-19 rispetto ai Paesi democratici dell’Occidente. Infatti, se ciò è sicuramente vero per gli USA, non è vero per la Germania, Paese democratico e “individualista” che contro l’epidemia ha saputo fare molto bene. Ancora: la Svezia, Paese ‘comunitarista’, a forte coesione sociale, sta combinando pasticci. Il Regno Unito ha avuto un andamento ondivago e dall’iniziale adozione dell’”immunità di gregge” è passato poi al lockdown. E’ possibile che nelle strategie di contrasto all’infezione l’aspetto ‘ideologico’ stia contando poco e stia contando invece la scelta delle classi dirigenti di ogni Paese se, di fronte a questioni capitali come la salute e la vita, dare il primato alla politica (interesse pubblico) o all’economia (logica privatistica).

Condivisibile senza incertezze è, invece, la tesi di fondo che il liberismo affermatosi dopo la caduta del Muro ha pericolosamente messo a repentaglio l’equilibrio del mondo e la stessa possibilità di ripristinarlo. Lasciato a se stesso ha dispiegato tutta la sua naturale spietatezza. Le democrazie dell’Occidente, chiuse nell’egoismo nazionalistico, sono diventate più ingiuste e diseguali. Il pensiero unico del primato dell’economia e della finanza ha annichilito le capacità mitigatrici della politica.  Niente è detto, però, nel libro della complicità in tutto questo anche della sinistra, specialmente di quella italiana, della fragilità della sua tenuta culturale, della sua politica e dei suoi gruppi dirigenti.

Fortemente indebolito il ruolo delle istituzioni internazionali, e, con esso, l’equilibrio nelle relazioni fra Stati, il mondo è diventato ‘imprevedibile’ e più violento. Bene ha fatto D’Alema a ricordare che una delle conseguenze più gravi dell’ordoliberismo imperante è stato innanzitutto il moltiplicarsi dei conflitti armati, non in un’area particolare, ma in più parti del globo: dalla Siria allo Yemen, dalla Libia all’Iran. Non ci sono più punti di riferimento, sono saltate molte regole prima condivise. Dal bipolarismo pre-Ottantanove –pieno di limiti e di rischi sicuramente, ma anche capace di dare risposte a molte crisi- si è passati ad un multilateralismo, ad un policentrismo incapace di darsi una sintesi. I vecchi protagonisti globali, USA ed Europa, faticano sempre più a bilanciare l’ascesa delle nuove potenze di Russia e Cina. Che fare, allora?

D’Alema propone soluzioni condivisibili, ma in modo del tutto generico. Chi (eccetto Trump, forse) in astratto non conviene sul fatto che <<fondamentali sono il dialogo e la collaborazione tra Cina e Occidente>>? Che il ripristino del <<necessario primato della politica può realizzarsi meglio nella democrazia piuttosto che grazie alla forza di regimi autoritari>>?  Che proprio il primato della politica democratica è <<capace di riformare il capitalismo e di vincolarne la crescita alla necessità di preservare l’ambiente naturale e quella di garantire un ragionevole grado di coesione sociale>>? Che occorre restituire il prestigio perduto agli organismi internazionali? Il problema vero –come lo stesso D’Alema ammette- è, però, come, con quali strumenti fare tutto questo, <<con quali risorse, con quale forza e volontà politica agire>>. Qui il libro tace. Non c’è il minimo riferimento ad alcun processo politico e sociale da attivare per indurre gli Stati a modificare orientamenti finora avuti. Non c’è, poi, nemmeno l’accenno al ruolo che la sinistra dovrebbe o potrebbe svolgere, al suo dovere di riattrezzarsi per dare una mano al futuro.

Pare che per D’Alema il mondo possa fare tranquillamente a meno della sinistra e la sinistra del mondo.

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