Dante Alighieri: mastro Adamo e Filippo il bello

I personaggi incontrati o citati da Dante nel suo viaggio ultraterreno sono numerosi, ma ne troviamo due molto diversi accomunati però dalla stessa accusa: essere falsari.

Uno è mastro Adamo, che sconta fra i falsificatori il suo peccato con la deformazione del corpo a causa dell’idropisia. Notevole lo scontro verbale fra questi e Sinone, il greco bugiardo che convinse i troiani ad accogliere il cavallo di legno. Mastro Adamo ricorda di aver vissuto nel castello di Romena, in Casentino, presso i conti Guidi, che lo indussero a falsificare il forino d’oro di Firenze, il dollaro del XIII e XIV secolo.

“Io son per lor tra sì fatta famiglia:

 e mi indussero a batter li fiorini

ch’ avevan tre carati di mondiglia.” (“Inferno”, canto XXX, 88/90)

A causa loro ( dei conti Guidi), che mi spinsero a coniare fiorini con tre carati di oro in meno, mi trovo fra questi dannati.

Le notizie su mastro Adamo sono poche. A volte viene citato come originario di Brescia, in realtà sembra che sia inglese, stabilitosi in Italia, prima a Brescia, poi a Bologna, dove si sarebbe fermato, secondo alcuni storici, per motivi di studio. Il titolo di mastro però era utilizzato sia in ambito accademico sia nelle professioni, per indicare un esperto di una determinata arte, tessile o orafa, ad esempio.

Gli zecchieri erano come i podestà e i capitani di ventura, stipulavano un contratto con il comune che li ingaggiava, insieme ad un certo numero di collaboratori. La loro permanenza in un determinato luogo dipendeva da motivi di natura diversa: onestà, affidabilità, capacità tecniche. Le zecche medievali lavoravano per conto terzi: il comune fissava peso, lega e diametro delle proprie monete, affidando l’officina monetale ad un professionista e al suo staff. I privati si presentavano con proprie quantità di oro o di argento (monete estere, gioielli, pepite, rottami), per trasformarle in denaro sonante, nella quantità necessaria alle loro esigenze.

Il guadagno consisteva nel diritto di signoraggio che il comune riscuoteva dagli utenti e divideva con il mastro della zecca. Le autorità comunali vigilavano sulla bontà delle loro monete, dato che i falsari più pericolosi si annidavano  proprio fra gli addetti alla battitura delle monete: bastava togliere una minima quantità di metallo nobile, sostituirla con quello vile, tenendo la differenza. La pena per i falsari era la morte. C’ era chi ne approfittava, erano quei signori feudali che godevano del diritto di battere moneta concesso in passato da qualche sacro romano imperatore. I più non erano in condizioni di coniare grandi quantità di pezzi d’oro e d’argento però si prestavano, in combutta con zecchieri disonesti, alla falsificazione delle monete più richieste dal mercato, protetti dalla immunità politica.

I conti Guidi convinsero mastro Adamo, che forse aveva lavorato presso le zecche di Brescia e Bologna, a battere moneta falsa: il fiorino era richiesto da tutti e tutti lo accettavano senza remore, bastava diminuire la bontà della lega e, con la complicità di qualche cambiavalute, il gioco era fatto. Così ci sarebbe stata a disposizione una maggiore quantità di fiorini da spendere soprattutto lontano da territorio di Firenze. Romena, nel Casentino,era a ridosso dei confini del Comune, quindi meglio smerciare altrove questo denaro sporco. Le notizie però correvano anche nel Medio Evo, lentamente, ma correvano e quella di fiorini adulterati spacciati in lontane piazze commerciali non poteva non impensierire le autorità fiorentine.

Non è chiaro quando mastro Adamo approdò a Romena, nel 1277 figura fra i familiares (dipendenti) dei conti Guidi, e non è chiaro quando avvenne la falsificazione, il periodo si può desumere dalla data della scoperta del colpevole: 1281. In questo anno, come afferma la “Cronica “ di Paolino di Piero, a causa di un incendio scoppiato nella casa della famiglia Anchioni, a Borgo San Lorenzo, nel territorio di Firenze, si scoprirono molti fiorini falsi e fu catturato il loro possessore, appunto mastro Adamo da Brescia, accusato di spacciare tale moneta.

E ‘ strano che proprio l’artefice delle falsificazioni fosse a Firenze con una quantità di tali fiorini . Mastro Adamo era sicuro di poterli spendere perché erano ben fatti, perché certo di disporre di complicità o solo per ingenuità? Fu vittima di presunzione o dell’inganno altrui? Forse a Firenze qualcuno pescava nel torbido? Non si sa. Mastro Adamo confessò il suo reato. Possiamo immaginare come lo fece, conoscendo i metodi investigativi del tempo…

I conti Guidi, ghibellini, furono spinti solo dal desiderio di lucro o anche da fini politici? Firenze aveva mire espansionistiche su Romena e il territorio circostante. I conti comunque approfittarono del fatto che nessuna autorità avrebbe potuto mettere il naso nei loro affari. Non era una novità. La penisola era costellata, fra la fine del ‘200 e i primi del ‘300, di un centinaio di soggetti politici, fra signorie, comuni, vescovadi e regni, quasi tutti nominalmente vassalli della Chiesa o dell’Impero, ma in realtà autonomi quindi liberi di agire quasi senza limiti. Autonomie e privilegi feudali perdurarono nei secoli, dando vita a vicende analoghe.

Una di queste la storia dei luigini di Dombes.

Fra il 1655 e il 1670 circolò in Europa una moneta francese da cinque soldi d’argento di buona lega(967/1000) pari a 1/12 di scudo.

Era un pezzo così richiesto che si arrivò ad offrire uno scudo per sei luigini. Questo perché nell’impero ottomano si faceva incetta, dato che veniva usato anche per guarnire le vesti delle ricche signore turche: era uno status simbol. Gli speculatori francesi, per far fronte alle vorticose richieste, si rivolsero a quei  feudi imperiali che godevano del diritto di battere moneta. Però si verificò un progressivo scadimento della qualità della produzione, per cui se i luigini della principessa di Dombes erano ancora di lega decente, quelli di Arquata Scrivia, Loano, Fosdinovo ed altri centri si rivelarono più scadenti.

Un bellissimo libro di C. M. Cipolla narra questa storia (“Tre storie extra vaganti”). I pezzi erano così scadenti e talmente numerosi che misero in crisi la circolazione monetaria e l’economia dell’impero ottomano, dove si verificò un vero e proprio processo inflazionistico, con un innalzamento spaventoso dei prezzi. La soluzione fu trovata grazie alle pressioni degli inglesi, danneggiati nei loro commerci, che costrinsero prima Luigi XIV a vietare la produzione dei luigini(1666) e poi la repubblica di Genova a prendere provvedimenti contro i feudi imperiali liguri coinvolti nella truffa.

Anche nell’epoca contemporanea ci sono stati dei mastro Adamo al servizio del potere. Ricordiamo il tentativo di Hitler di mettere in ginocchio l’economia britannica, durante il Secondo conflitto mondiale, stampando sterline false talmente ben fatte da costringere la Banca d’Inghilterra a prendere severi provvedimenti per salvaguardare la moneta e l’economia nazionali. Ciò avvenne grazie ad un gruppo di falsari ebrei, individuati nei campi di sterminio e costretti a lavorare con minacce e lusinghe.

L’ “operazione Bernhard”, dal nome dell’ufficiale nazista responsabile del piano criminale, portò alla produzione di biglietti per un valore di 133 milioni di sterline. 300.000 servirono per pagare la spia Cicero (nome in codice), mentre 100.000 furono utilizzate per ottenere informazioni utili alla liberazione di Mussolini, prigioniero a Campo Imperatore.

La storia delle sterline false è narrata da uno dei protagonisti, A. Burger, in un libro avvincente: “L’officina del diavolo”. Un altro caso di cui si parla è la Corea del Nord, accusata dagli americani di essere uno stato canaglia non solo per la produzione di armi nucleari e il sostegno a movimenti terroristici, ma anche perché si presterebbe a una serie di traffici internazionali illeciti per recuperare quella valuta pregiata necessaria ai piani guerrafondai della famiglia Kim e fra questi la produzione di dollari falsi. Qui però siamo nel campo delle ipotesi e dell’intrigo internazionale.

Nel canto X dell’”Inferno” Dante si scaglia contro i falsari, mentre nel canto XIX del “Paradiso, accusa Filippo IV il bello (1268-1314), re di Francia, di essere un falsario:

“Lì si vedrà il duol che sovra Senna

induce, falseggiando la moneta

quel che morrà di colpo di cotenna.”(“Paradiso XIX, 118/120)

Si vedrà il danno arrecato al popolo francese, coniando moneta falsa, da colui che morirà colpito da un cinghiale (Filippo il bello).

Siamo nel “Paradiso”, nel cielo di Giove, in cui Dante formula una critica contro i cattivi regnanti e le loro male opere.

L’accusa di falsario è ripresa dal cronista Villani (1280-1348), che a sua volta si rifà a Goffredo di Parigi(morto nel 1320), che parla delle conseguenze psicologiche ed economiche della svalutazione del 1313. Sì, perché fu una vera e propria svalutazione quella di Filippo IV, attuata per ragioni diverse. Intanto la motivazione politica, il re di Francia fu impegnato per tutta la vita in una politica estera dinamica: sostegno agli Angioini nella guerra del Vespro, contro gli Aragonesi di Sicilia, l’espansione nei paesi fiamminghi, lo scontro con Edoardo II d’Inghilterra e con il papa Bonifacio VIII.

Queste lotte costrinsero il sovrano a sostenere ingenti spese militari, cui si aggiunsero un aumento del valore dei metalli nobili e  lo squilibrio del rapporto fra oro e argento. Quindi per farvi fronte Filippo, oltre ad attuare una pesante politica fiscale e azioni discutibili (la soppressione dell’ordine dei Templari), portò avanti un programma di riduzione di fino nelle monete d’oro, aumentandone così il numero in circolazione. E’ una pratica antica, condotta già dagli imperatori romani del III secolo, che svalutarono il denaro d’argento fino a farlo diventare un comune pezzo di rame, con le conseguenze del caso: svalutazione della moneta e innalzamento dei prezzi.

La stessa politica fu attuata da tanti altri  sovrani nella storia: niente di nuovo sotto il sole. Dante però prende di mira Filippo IV di Francia perché nemico della sua visione politica: nel “De monarchia”, il poeta parla di due autorità alla guida del mondo cristiano, Impero e Chiesa. Tutti gli altri poteri devono essere vassalli. E’ una visione antiquata in un’epoca in cui in Italia e in tutta Europa si stanno affermando nuovi soggetti politici: signorie (Visconti, Scaligeri, Estensi ecc.) e monarchie nazionali (Francia, Spagna, Inghilterra).

Filippo esprime questa nuova realtà, come dimostra lo scontro con Bonifacio VIII (schiaffo di Anagni) e i maneggi per l’elezione di un papa francese, Clemente V, e il trasferimento della Santa Sede ad Avignone, sotto la tutela capetingia. Dante non poteva accettare ciò, tanto più che riteneva Filippo un immorale, autore di gravi nefandezze, come la soppressione dell’ordine dei Templari (suoi creditori) e la condanna per adulterio di due delle sue tre nuore (scandalo de la Tour de Nesle). Tanti furono i sovrani accusati di essere dei falsari, fra questi non possiamo non citare Federico II di Svevia(1195-1250), lo “stupor mundi”,re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. Come re di Sicilia , nel 1221, fece battere denari di bassa lega d’argento tanto che il rapporto con il tarì d’oro avrebbe dovuto essere di 23 a 1, ma egli impose d’autorità un rapporto di 16 a 1.

I denari in questione furono considerati falsi, con sommo gaudio dei sostenitori del papa, i guelfi, che condussero in tal senso una campagna diffamatoria. Federico II agì così per lucrare a vantaggio delle casse regie, anche se lo svilimento della moneta non era, e non è, da considerarsi illecito se comunicato pubblicamente. Il problema era proprio questo, Federico vietò di comunicare agli utenti la variazione e perché ciò si concretizzasse era necessaria l’assoluta fedeltà degli zecchieri reali, cosa non sempre facile da ottenere. Nel 1230 il re rimosse dall’incarico quegli ufficiali della zecca colpevoli di aver svelato il vero valore dei denari e di fronte alle accuse di essere un falsario reagì con durezza, proibendo l’uso della moneta aurea da parte dei privati, imponendo il monopolio della circolazione dei denari di mistura (divenuti vera moneta fiduciaria), attuando il pieno controllo regio su tutto l’oro del regno e promettendo dure sanzioni contro coloro che avessero proclamato false le nuove monete di mistura.

Federico, al contrario di Filippo, non alterò la moneta aurea, ma il suo comportamento di fronte alle necessità finanziarie non fu diverso, tanto che i guelfi gli attribuirono il titolo di falsario. Dante colloca questo imperatore fra gli eretici, insieme a Farinata degli Uberti (“Inferno”,canto X), ma falsario proprio no, e ciò perché comunque Federico era il simbolo di quella autorità imperiale tanto vagheggiata ed intravista nuovamente con l’arrivo in Italia di Arrigo VII (1312).

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