Il disordine della ragione pubblica

(*) Premessa.

Con “ragione pubblica” intendiamo il denominatore comune, ovvero l’intersezione tra le differenti visioni estetiche, etiche e religiose che si incontrano e si confrontano fra loro in una società pluralista, al di là dei singoli punti di vista degli individui che la compongono. La base comune, insomma, che tiene insieme la collettività e il cui criterio generale, secondo la teoria promossa da John Rawls (“Liberalismo politico”, 1993), teoria sulla quale torneremo più avanti, dovrebbe essere costituito dalla ragionevolezza fra cittadini liberi ed eguali all’interno di un sistema equo di cooperazione sociale.

Questa riflessione tratterà dunque della concezione liberale dello Stato, della politica e dei rapporti sociali. Il termine però presenta un’ambiguità di fondo che va chiarita. Con la parola liberale si può intendere sia una concezione che si ispira ai valori etici del liberalismo, basati sul rispetto e sulla difesa della libertà individuale e della libera iniziativa economica. In questo senso, si circoscrive la rappresentazione ai movimenti liberali, conservatori, democratici, radicali e libertari storicamente intesi.

Ma esiste un’accezione più ampia. Quella di chi ritiene, anche provenendo da altre impostazioni valoriali, che nell’ambito della dialettica democratica costituiscano principi irrinunciabili temi come l’inviolabilità dei fondamentali diritti umani, la tutela del dissenso, la separazione dei poteri, l’eguaglianza delle opportunità, la promozione del merito quale migliore alleato del bisogno.

Nel saggio presente adotteremo il secondo significato. Ciò consente anche a chi scrive, pur muovendo da una base cattolico democratica, di considerarsi a tutti gli effetti un liberale.

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Cos’è la democrazia?

Fin dalla scuola elementare (o primaria) ci insegnano che la parola indica, etimologicamente, la forma di governo in cui il potere appartiene al popolo (dal greco δῆμος, cioè dêmos ovvero il «popolo» e -κρατία, cioè kratéō ovvero «comando»). Ma in senso stretto, questa cosa fu vera e parzialmente solo ad Atene nel V secolo a.C (e pochissimi altri casi), dove godevano della possibilità di assumere decisioni politiche i cittadini maschi adulti – quindi esclusi per diritto donne, schiavi, stranieri residenti detti meteci; di fatto, anche servi e soldati in missione.

Secondo stime accreditate, i titolari di voto ammontavano a 30-50 mila ateniesi su un totale di 250-300 mila. Più o meno il 15%. Si consideri però che, per ragioni squisitamente pratiche, è difficile che poco più di qualche migliaio di persone alla volta potessero effettivamente esercitare in modo compiuto il loro diritto. Si consideri altresì che il corpo elettorale italiano per le elezioni politiche della Camera rappresenta attualmente oltre i ¾ della popolazione complessiva. Circa 46 milioni e mezzo su 60 di abitanti. Ma in quest’ultimo caso parliamo di elettori. E non di titolari di poteri deliberativi (non sarebbe propriamente corretto parlare di legislatori), come nella Grecia antica. Inoltre, ad Atene, gli incarichi esecutivi (boulé, pritania, epistate) e i giudici venivano decisi per sorteggio, non per votazione. Facevano eccezione le cariche per le quali era richiesta una particolare competenza come nel caso dei generali dell’esercito, degli strateghi e dei magistrati con compiti economico-finanziari. Solo queste figure erano elettive.

Si trattava di una forma di democrazia diretta, nel senso che non vi erano rappresentanti (come i deputati e senatori) selezionati dal popolo per esprimersi in sua vece, cosa che accade nelle odierne democrazie rappresentative. L’ecclèṡia, ovvero l’assemblea popolare, discuteva e deliberava su tutte le questioni di interesse generale, mentre alla boulé, composta di di 500 cittadini scelti tra le 10 tribù in cui Clistene aveva diviso gli ateniesi, spettava l’iniziativa legislativa.

A livello teorico, la democrazia diretta venne ripresa nel corso del ‘700 dall’illuminista ginevrino Jean-Jacques Rousseau il quale riteneva che la democrazia dovesse necessariamente esprimersi in forma di partecipazione personale, l’unica modalità che permetterebbe di garantire e consolidare la libertà di ognuno oltre a consentire la formazione della volontà generale.

In realtà le democrazie moderne si ispirano, anche per motivi piuttosto ovvi riferiti al numero dei votanti ed alla complessità dei problemi – incomparabilmente maggiore rispetto ai tempi di Pericle – ai modelli rappresentativi anglosassoni e francesi post/rivoluzionari dove il popolo sceglie i governanti di norma ogni 4 o 5 anni (eccezion fatta per alcuni strumenti come la legge di iniziativa popolare, i referendum, e pochi altri), sebbene alcuni movimenti attuali cerchino di riproporre le tesi rousseauiane utilizzando le possibilità di collegamento in rete rese disponibili da internet.

Oggi possiamo impiegare una definizione diversa attraverso le parole del filosofo austriaco Karl Popper secondo il quale la democrazia dovrebbe identificarsi in un insieme di regole e di istituzioni tali da consentire il dissenso, anche di uno solo, oltre che un sistema politico dove ci si possa sbarazzare del governo in carica senza spargimento di sangue. Per esempio per mezzo di elezioni.

Popper così indica una forma particolare di democrazia. Quella liberale. Avendo in mente la sua tesi maggiormente nota: la società aperta.

Nel 2003, un saggio del politologo inglese Colin Crouch dal titolo Postdemocrazia dipingeva la condizione della democrazia all’inizio del terzo millennio, come forma di governo “caratterizzata dal rispetto formale delle regole democratiche, ma sempre meno partecipata dai cittadini e sempre più controllata da ristrette cerchie interne ai poteri pubblici e privati: burocrazie, tecnocrazie, lobby finanziarie, economiche e politiche, mezzi di comunicazione di massa” (def. Enciclopedia Treccani).

Più recentemente, si sono invece affermate – anche come reazione alla postdemocrazia che esautorava nei fatti la sovranità popolare – forme di democrazia autoritaria. Rimanendo in Europa: l’Ungheria di Orbán, la Russia di Putin, la Polonia di Duda, la Turchia di Erdoğan. Non vengono considerate (e, almeno in alcuni casi, non si considerano) democrazie liberali. Alcuni per definirle utilizzano un neologismo sincratico: democratura (democrazia + dittatura).

Si tratta di sistemi a competizione elettorale multipartitica dove si vota a scadenze prefissate. Normalmente i soggetti politici al governo risultano titolari di un consenso vasto, spesso maggioritario, per cui si potrebbe dire che sono regimi a sovranità popolare.

In cosa allora questa forma si distinguerebbe dalle democrazie liberali? Nel fatto che il dissenso non è tutelato. Ovvero non sono garantite le minoranze. Quelle non in linea con la volontà del potere politico, pur se questo sia sorretto da un consenso maggioritario.

Si badi che mentre nelle postdemocrazie, i diritti individuali sono tutelati ma la sovranità popolare viene svuotata, nelle democrature accade l’opposto. I cittadini hanno nuovamente voce in capitolo nelle scelte politiche, ma non sono garantiti i diritti delle minoranze, e quindi nemmeno dei singoli dissenzienti.

Tutelare tutti, minoranze comprese, significa infatti assicurare a ciascuno la protezione degli inviolabili diritti dell’uomo. Diritti che non possono essere annichiliti nemmeno in nome di un preteso interesse collettivo perché la loro intangibilità è fondata sulla giustizia.

Diritti come vita, sicurezza, libertà personale, di coscienza, di religione, di opinione, di associazione, l’eguaglianza di fronte alla legge, i diritti politici, sociali ed economici, a cominciare dalla proprietà privata.

Come si garantiscono i diritti inviolabili delle persone dagli abusi del potere costituito? La principale risposta è: separando i poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario e, per estensione, la stampa che infatti viene anche chiamata quarto potere) e facendo in modo che si controllino e limitino a vicenda. O meglio, che «il potere arresti il potere», (“Lo spirito delle leggi”, Montesquieu 1748).

Non solo. Va richiamata la rilevanza non meno pregnante che le comunità territoriali ed i corpi sociali intermedi svolgono secondo i canoni di una sussidiarietà che si declina sia in senso verticale che orizzontale per conferire alle democrazie un equilibrio stabile ed una coesione resistente.

In altre parole, la democrazia liberale è un sistema complesso di pesi e contrappesi (check and balance). Per tale ragione Robert Dahl e Charles Lindblom la definiscono democrazia poliarchica (o poliarchia).

Democrazia e liberalismo rappresentano risposte a due domande diverse. La democrazia si pone il problema di “chi comanda”. E la soluzione che propone è (in sintesi brutale): la maggioranza. Che potrebbe però dominare in modo dispotico (“Democrazia in America”, Alexis de Tocqueville 1835). Il liberalismo invece si pone il quesito di “come controllare chi comanda”. Anche se supportato dalla maggioranza. Ed il responso è: attraverso lo Stato di diritto, ovvero lo Stato nel quale anche chi governa è sottoposto alla legge.

Si prenda il secondo comma dell’articolo uno della Costituzione italiana. Precetto democratico: La sovranità appartiene al popolo. Precetto liberale: che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

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Le costituzioni, intese come atti che disciplinano l’organizzazione Stato, esistono fin dall’antichità, tanto da essere state analizzate e commentate, tra gli altri, da Platone, Aristotele, Polibio, Cicerone. Tuttavia, “costituzione”, per lungo tempo, è semplicemente sinonimo di assetto stabile di uno Stato. Sicché quando Platone o Aristotele – che ha pure scritto un libro intitolato “Costituzione degli ateniesi” – parlavano di costituzione, intendevano in realtà “modi in cui uno Stato era costituito”.

Solo dalla fine del ‘700 esse assumono il significato moderno e si configurano come il principale strumento per garantire i diritti individuali attraverso limitazioni al potere del sovrano, fino ad allora sciolto dal rispetto delle leggi (lègibus solùtus). Una proto-costituzione può forse essere considerata il Bill of rights (dichiarazione sui diritti) inglese del 1689 che fissa i limiti delle prerogative règie. Malgrado sia stata la prima monarchia a porre alcuni vincoli ai propri poteri attraverso la Magna Charta di libertà rilasciata da re Giovanni d’Inghilterra ai baroni nel 1215, ancora oggi il Regno Unito risulta sprovvisto di una costituzione in senso stretto.

I due documenti che invece sono stati presi a modello dalla gran parte delle nazioni sono la Costituzione americana del 1787 (seguita alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti del 1776) e la Costituzione francese del 1791 (che comprende la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, l’anno della rivoluzione). Per amor di patria citiamo anche la prima corte moderna dedicata al controllo di costituzionalità delle leggi: il Corpo degli Efori creato con la costituzione napoletana del 1799.

Da dove provengono le idee sul limite all’autorità sovrana? I semi, restando sempre agli ultimi secoli, sono già rintracciabili nel giusnaturalismo, in alcune componenti dell’illuminismo e nelle opere di maestri del pensiero come Locke, Hume, Smith, e, in fin dei conti, Kant stesso.

Un ultimo appunto. Si potrebbe osservare che esistono anche Stati costituzionali non democratici, né liberali. Per esempio la Repubblica Popolare Cinese. Un po’ sommariamente potremmo concordare con quanto asserito dall’art. 16 della citata Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. Almeno non come la si intende in Occidente dalle rivoluzioni di fine ‘700.

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In generale, come premesso, sono da ritenersi liberali tutte le forze politiche che propugnano le libertà individuali ed economiche quali elementi intangibili della vita politica e sociale, ma pongono questi valori accanto alla difesa delle minoranze, del dissenso, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della giustizia in senso ampio. In questa seconda accezione, possono essere inclusi nel gruppo anche molti partiti di ispirazione cristiana, socialdemocratica o ecologista.

Se per semplicità volessimo circoscrivere l’ambito all’Italia del secolo scorso, risultano certamente riconducibili alla categoria suddetta esponenti politici di estrazione diversa, tutti di caratura notevole: Bobbio, Bonomi, Croce, De Gasperi, De Nicola, Einaudi, Giolitti, La Malfa, Malagodi, Nitti, Spadolini, Spinelli, Sturzo, Rossi.

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Altra caratteristica dei liberali: sono favorevoli ai processi sovranazionali. E non potrebbe essere diversamente. Globalizzazione significa possibilità per persone, denaro, beni e servizi di muoversi nel mondo. E significa unire i popoli. Perché chi commercia, di regola, non si fa la guerra.

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Il pensiero liberale deve inevitabilmente prevedere la laicità delle istituzioni, intesa come autonomia da ogni potere ecclesiastico. Autonomia che non implica contrapposizione alle religioni, la cui professione si rende generalmente disponibile all’individuo, quando non contrasti con la legge o il buon costume. Per rimanere in casa, “Libera chiesa in libero Stato” è un principio ripreso da Cavour a Torino in occasione del suo intervento al parlamento del 27 marzo 1861 che portò alla proclamazione di Roma come capitale del Regno d’Italia.

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Appare più complesso il rapporto del liberalismo con il potere economico.

Costituisce un errore grave ritenere che esso coincida con l’assenza di regole, una sorta cioè di anomia o anarchia economica. È vero che tale impronta trova riscontro in due espressioni caratteristiche della corrente di pensiero: la massima laisser faire, laisser passer (traduzione francese di «lasciar fare, lasciar passare») e la metafora della mano invisibile che guiderebbe le scelte degli individui verso il bene della società e dello Stato pur perseguendo costoro il loro interesse egoistico. «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse» (“La ricchezza delle nazioni”, Adam Smith 1776).

Ma nemmeno il regime di più spinto liberalismo economico (o liberismo) può darsi in assenza di una regolamentazione, per quanto minima. Qualsiasi Stato e qualsiasi mercato necessitano di regole (anche minime, al limite informali) e autorità che le facciano rispettare. Ci viene in soccorso, in questo caso, l’autorevole e perentoria ammonizione di Friedrich von Hayek, economista e sociologo austriaco nonché premio Nobel per l’economia nel 1974: «Il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che, se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione (dello Stato N.d.T.) non può essere eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri».

A proposito di regolazione dei mercati. In teoria il liberalismo, promuovendo la concorrenza, dovrebbe anche combattere le collusioni e le concentrazioni eccessive. Si pensi, in questo caso, alle legislazioni antitrust sorte già nel 1890 negli Stati Uniti a partire dallo Sherman Act per sciogliere i monopoli ed i cartelli tra aziende al fine di impedire che potessero abusare di una posizione dominante. Attualmente nei paesi avanzati esistono legislazioni ed autorità antitrust. Ma faticano notevolmente, dato l’enorme potere di mercato di alcune multinazionali (si pensi solo a Microsoft), nell’applicare efficacemente la legislazione sulla concorrenza. Non è un problema semplice.

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Il potere economico ha le potenzialità per creare, assieme al benessere, anche grandi danni. Oggi però un’insidia più subdola influenza le nostre vite. Il condizionamento dei mezzi di comunicazione, compreso quelli sulla rete, che possono commettere abusi particolarmente seri.

Si tratta di una vecchia questione sollevata da autorevoli pensatori di area e, in particolare, nuovamente Karl Popper. In “Cattiva maestra televisione” il filosofo viennese ammoniva «una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a quando il potere della televisione non sarà pienamente scoperto».

È un tema spinoso. Si pensi all’uso dei social network. Risulta ormai acclarata da diverse indagini – ultima e più clamorosa quella dalla giornalista inglese Carole Cadwalladr sul caso Cambridge Analytica, riguardante il ruolo di Facebook nella Brexit e dei troll (provocatori) russi durante le ultime elezioni presidenziali americane – il potenziale di interferenza sulle dinamiche democratiche attraverso la manipolazione delle opinioni.

La soluzione del problema non è così semplice. Da un lato la rimozione di fake news o di notizie magari vere ma veicolate e trattate ad arte in modo da eccitare gli animi potrebbe essere considerata una forma inaccettabile di censura (ma secondo quali criteri?). Dall’altro risulta ormai evidente che il non agire rischia di deteriorare fortemente la qualità della vita democratica.

Quello che appare certo è che in un regime illiberale l’autonomia dei mezzi di comunicazione non può essere tollerata. Si prenda ad esempio la Russia di Putin, dove in 20 anni risultano uccisi o scomparsi 300 giornalisti scomodi per il regime. Ma si possono condizionare in modo efficace in mille altri modi per ridurli al silenzio e corrodere il diritto ad un’informazione indipendente.

Ovviamente, un discorso analogo vale per la magistratura, a cominciare dalle supreme corti che nelle democrature non sono indipendenti dal potere politico.

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Infine, ma non meno importante, il problema della giustizia distributiva.

Partiti di ispirazione liberale si sono posti storicamente obiettivi diversi.

In senso stretto, nel liberalismo continentale tende a prevalere (ma con molte eccezioni rilevanti) la declinazione in senso conservatore o moderato, poco propensa alla promozione dell’eguaglianza sociale. Al contrario, negli USA e più in generale nei paesi anglosassoni, i cosiddetti liberal costituiscono più o meno un’area di centro/sinistra.

Tra i massimi esponenti di lingua inglese dobbiamo qui necessariamente richiamare la figura del britannico John Maynard Keynes, un membro del Partito Liberale del Regno Unito, le cui elaborazioni teoriche costituirono una giustificazione potente all’intervento dello Stato nell’economia, anche in deficit. A testimonianza che il liberismo costituisce solo una parte (spesso grottescamente distorta) del pensiero liberale, assai più vasto e complesso.

Ai liberisti che nutrivano una fede incrollabile nella “mano invisibile” del mercato che, a lungo termine, attraverso il libero gioco di domanda e offerta ed il conseguente assestamento dei prezzi e dei salari avrebbe risolto ogni problema senza bisogno di interventi dello Stato, Keynes rispondeva ironico che «Nel lungo periodo siamo tutti morti» («In the long run we are all dead»). Da qui la necessità, in alcuni casi, di far intervenire la mano visibile pubblica.

Tornando però all’eguaglianza, in senso sociale (e non giuridico/formale), trovo personalmente convincente la posizione dello statunitense John Rawls, considerato da molti il maggiore tra i filosofi politici della seconda metà del XX secolo.

Nel suo testo più influente, “Una teoria della giustizia” del 1971, il professore di Harvard propone una teoria della giustizia (sociale) come equità. Per contestare le idee dei liberali classici Rawls ricorre all’esperimento della posizione originaria. Proviamo a spiegarlo così. Si immagini una situazione puramente ipotetica nella quale, ancor prima di nascere, un velo di ignoranza ci impedisca di sapere dove e come staremo nel mondo – ovvero uomini o donne; etero o omosessuali; ricchi o poveri; bianchi o di colore; europei o africani; religiosi o meno; colti o ignoranti; e potremmo continuare riempiendo mille altre caselle – ebbene, se non potessimo conoscere la nostra condizione futura, in questa fantasiosa posizione originaria e prenatale, quale società riterremmo più apprezzabile?

Poniamo, per esempio, di scegliere una società che pratica la discriminazione verso gli omosessuali. Ricordiamo che siamo nella posizione originaria e non sappiamo cosa ne sarà di noi. Ora mettiamo di nascere proprio con orientamento omosessuale. Avremmo dunque optato per un esito che ci si ritorcerà contro. Questo esperimento può essere ripetuto cambiando il criterio di preferenza. Con esiti non molto diversi.

Vale allora la pena di chiedersi se esista, almeno secondo il pensatore americano, una società che nel velo di ignoranza iniziale sia più desiderabile rispetto alle altre? La risposta è sì. Si tratta di un ambiente dove il contratto sociale (Rawls si può ritenere il fondatore del neocontrattualismo) tra cittadini dovrebbe garantire due elementi irrinunciabili:

1) la tutela del più ampio sistema di libertà fondamentali compatibile con il rispetto delle libertà di ciascuno

2) le differenze sociali ed economiche sarebbero giustificabili se portano maggior vantaggio ai più svantaggiati, in una situazione di equa eguaglianza d’opportunità.

Con queste premesse, anche se non sai quale sarà il tuo destino dovresti poter trovare perlomeno accettabile la condizione che acquisirai per nascita e successivo sviluppo. Va da sé che le disparità immotivate secondo tali canoni andrebbero aggiustate con un’attività anti/discriminatoria e redistributiva da parte dello Stato allo scopo di ricreare l’equilibrio sociale.

Appare una trasposizione non molto dissimile dall’alleanza tra il merito ed il bisogno più volte richiamata. Per esempio è quasi sempre ammissibile che una persona più istruita, pensiamo ad uno scienziato, guadagni di più rispetto ad un’altra perché normalmente anche il suo contributo al benessere sociale è maggiore. Malgrado, ovviamente, non sia sempre necessariamente vero. In altri termini, lo riteniamo generalmente equo. Mentre non riteniamo equo solitamente che a una persona sia concessa una retribuzione maggiore perché è raccomandato.

Il neocontrattualismo di Rawls che richiama in causa il ruolo dello Stato come agente e garante di una ridistribuzione sociale volta a superare le lacune insite nelle forme di liberalismo che si limitano all’uguaglianza delle opportunità, ha subito numerose critiche. Le più celebri quelle di Robert Nozick, maggior esponente del pensiero liberale libertario. Nozick, anche lui professore ad Harvard, nel 1974 dà alle stampe il saggio “Anarchia, Stato e utopia”. La critica alle tesi di Rawls si basa sull’assunto che se i diritti individuali costituiscono il cardine del pensiero liberale, allora ne seguono due conseguenze:

1) senza uno Stato minimo è impossibile garantire i sopraindicati diritti;

2) ogni forma di Stato che non sia minima finisce inevitabilmente per violare i diritti fondamentali dell’uomo.

Le tesi di Nozick sulla difesa dei diritti individuali risultarono così radicali da aver ispirato movimenti anarco/capitalisti i quali se da un lato giungevano al punto di prefiggersi l’applicazione allo Stato e alla legge delle regole del mercato, dall’altro finivano per avvicinarsi nella loro iconoclastia ai gruppi antagonisti anarchici di sinistra che protestavano contro la guerra del Vietnam.

Più recentemente l’economista e premio Nobel 2008 Paul Krugman ha sostenuto sul tema della giustizia distributiva tesi che appaiono a chi scrive decisamente condivisibili. Nel suo saggio forse più celebre, (“La coscienza di un liberal” 2007) egli ha collegato la crescente polarizzazione dei salari (rispetto ai gloriosi 30, ovvero i 3 decenni successivi alla fine del secondo conflitto bellico) che ha prodotto la progressiva rarefazione della classe media, allo sviluppo tecnologico ed alla globalizzazione. Ma i due fattori non spiegano tutto il problema.

Aggiunge Krugman che dalla fine degli anni ’70 in poi, a partire dai paesi anglosassoni, sono state poste in essere le politiche della disuguaglianza. Ovvero politiche anti/sindacali, anti/distributive, anti/welfare state. Sarebbero queste, insieme alle prime due cause sopra citate, ad avere portato alla grande divergenza, quel processo di graduale impoverimento della classe media, almeno nella sua frazione più consistente.

Dunque andrebbero ribaltate, pur modulandole sulla base dello scenario attuale.

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In conclusione.

Reinterpretando il titolo di un saggio di Benedetto Croce, il maggiore tra gli ideologi del liberalismo novecentesco italiano, non possiamo – e non dobbiamo – non dirci liberali se teniamo alle conquiste politiche degli ultimi tre secoli.

Come abbiamo visto fin qui, non può darsi pensiero liberale senza tutela delle minoranze e quindi necessariamente anche del dissenso, perché le barriere poste a loro difesa costituiscono gli intangibili di tale teoria in quanto fondata sulla libertà.

Detta impostazione può benissimo convivere assieme alla forma democratica di Stato, inteso come spazio dove la sovranità appartiene al popolo, ma poiché il popolo non la pensa nella sua totalità alla stessa maniera, diciamo meglio: alla maggioranza, o perlomeno alla maggioranza di coloro che votano.

Gli Stati che applicano entrambi i punti precedenti si possono chiamare democrazie liberali (o liberaldemocrazie che dir si voglia).

Gli Stati dove invece, pur tenendosi elezioni, le minoranze non sono garantite e dove non è assicurata la separazione dei poteri sono dette democrazie illiberali, o democrature.

Oggi, i partiti populisti e sovranisti, spingono per quest’ultima opzione. È un buon affare? A mio modesto parere no. Uno Stato che non tutela i diritti individuali sarà comunque una tirannia. Se anziché di un despota o di un’oligarchia, fosse anche la tirannia della maggioranza, sempre una forma di totalitarismo sarebbe.

Certo, si potrebbe obiettare che è preferibile la dittatura della maggioranza rispetto a quella di una minoranza o di uno solo. In una democrazia illiberale potrebbe essere più semplice interrompere gli effetti nefasti come avvenuto recentemente con l’elezione di Ekrem İmamoğlu, Sindaco di Istanbul, rivale di Erdogan che è riuscito a tenergli testa malgrado un’elezione annullata su indicazione del sultano turco.

Resta il fatto che le democrature comprimono in modo intollerabile la libertà. E questo non è accettabile. Per questa ragione i principi cardine del liberalismo sono tutt’altro che obsoleti, al contrario di quanto recentemente dichiarato da Putin. È esattamente l’opposto. Ne vanno corretti i difetti e le ricadute inique, soprattutto in campo economico e sociale. Per non cadere nel modello opposto, quello delle nazioni che garantiscono i diritti individuali ed il dissenso, ma nelle quali il potere di fatto viene esercitato da oligarchie finanziarie e tecnocratiche; le già menzionate postdemocrazie.

Per tali ragioni «Ciò di cui abbiamo bisogno non è solamente una via per riconciliare l’autorità politica con la libertà. Ci serve (anche, nota mia) un modo per riconciliare l’autorità della moralità sociale, ovvero gli imperativi morali, con la libertà» (“Il disordine della ragione pubblica”, articolo pubblicato in Ethics a cura di David Enoch, 2013).

«Ci sono lunghi decenni in cui la storia sembra rallentare fino quasi a fermarsi. E poi ci sono quegli anni brevissimi in cui tutto cambia di colpo. Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di andare in pezzi. Un momento simile è quello in cui ci troviamo ora» (“Popolo vs Democrazia”, Yascha Mounk 2018).

Forse aveva ragione Erich Fromm a sostenere che «L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi» (Il coraggio di essere, 1980).

Invece costituisce un bene inestimabile perché «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare» (Piero Calamandrei).

A ciascuno di noi spetta, per natura e per diritto, la scelta su quale valore attribuire alla sua libertà.

(*) Testo di indubbio intersse pubblicato in contemporanea su AA “AppuntiAlssandrini”.

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