Filosofia del Socialismo

Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea

pubblicato il 08/03/2020

IV

Il marxismo – il materialismo “oggettivistico”, dialettico come storico – fu sconfitto – specie tra le due guerre mondiali – non solo per ragioni economico-sociali e politico-istituzionali – pure importantissime – ma anche per ragioni culturali-psicologiche (socioculturali). Si pensi all’Italia dal 1919 in poi. I socialisti, che erano la gran parte della sinistra (e nel 1919 il partito più votato in parlamento, con 156 deputati su 508), pur perseguendo da una vita ideali nobilissimi di riscatto sociale dimostrarono di essere del tutto inadeguati a prendere il potere: o alleandosi con forze liberaldemocratiche (giolittiane), che pure lo desideravano, oppure facendo davvero la rivoluzione. Non comprendevano che il potere si dà solo a chi si abbassi a prenderlo, e non aspetta mai a lungo chi debba prenderlo; se egli non si decide, in epoche anche solo un po’ di crisi, meno gravi di quella di un secolo fa, scappa tra le braccia di un altro, per lo più con “fuga nell’opposto”. Legati a una visione di fatale evoluzione graduale, o eventualmente segnata da strappi, ma sempre “in avanti” (nel senso del continuo “progresso”), ed essendo il partito più votato in parlamento, i socialisti di tutte le correnti non credevano che la violenza squadristica contro di loro, scatenatasi su larga scala in tutta la Valle Padana tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, fosse qualcosa di più di un rigurgito della violenza di guerra, o di un momentaneo regresso nella storia, doloroso sì, ma da non prendere sul serio per gli anni a venire; e, tra loro, i massimalisti, che erano nel 1919-1920 la grande maggioranza, benché da anni parlassero di rivoluzione imminente e fatale, “come la Russia”, aspettavano che scoppiasse da sé; ma intanto non avevano nemmeno lo spirito adatto a rispondere alla violenza con la violenza. (In seguito avrebbero provato a farlo piccoli gruppi di ex combattenti di sinistra, gli “arditi del popolo”, e di comunisti, o di eroici popolani di talune zone anarchiche come a Sarzana, ma si trattava di azioni slegate e nell’insieme marginali, nemmeno lontanamente confrontabili con la “marea nera” dei loro avversari, oltre a tutto spesso connivente con le “forze dell’ordine”, marea che dilagava in tutta la Valle Padana). In sostanza tutti i socialisti – ma a livello ideologico – seppure, nel loro caso, non psicologico, e quindi meno succube praticamente – pure i comunisti – erano tutti fermi ad una cultura materialista positivista – attesista, materialistico economica, fatalistica, e in cui la storia si fa da sé; e ciò in anni di “reazione al positivismo”, in cui in campo avversario dilagavano invece tendenze volontaristiche, attivistiche, neoidealistiche e neospiritualistiche, che pur non essendo state sempre di destra (sol che si pensi al 1912/1917 o 1919, erano interpretate da forze visceralmente antisocialiste, composte da giovani che avevano voluto e combattuto la Grande Guerra, spesso come la pericolosa e indimenticabile avventura della loro altrimenti insensata esistenza da piccoli borghesi o sottoproletari violenti e frustrati. Esauritasi, senza riformismo e senza rivoluzione, l’ondata operaia bracciantile e socialista del 1919-1920, il partito della guerra “combattuta” e “vinta”, ma misconosciuta, scendeva in lotta violenta contro i “nemici della guerra” e i detrattori “della vittoria”, identificati con socialisti e comunisti; ma lo faceva, molto ben sostenuto anche economicamente, in totale combutta, via via crescente, pure nei consensi, con la borghesia grande, media, piccola e piccolissima, che nel dopoguerra 1919/1920 aveva assistito con paura al dilagare del movimento operaio e socialista a livello di lotte sociali nelle campagne e nelle città (oltre che nelle urne di voto). Le tendenze culturali attivistiche, futuristiche, volontaristiche, neoidealistiche e neospiritualistiche erano solo un ingrediente ideal-tipico della marea nera “contro-rivoluzionaria” che si riversava contro la sinistra, ma avevano il loro peso. Perciò si può dire che la cultura di “reazione al positivismo” sconfiggesse l’altra, materialista positivista.

Si potrebbe pensare che le tendenze che ho detto di reazione al positivismo fossero intrinsecamente reazionarie (come poi opinò Lukàcs[1]), e per ciò tali da non poter, e neppure “dover”, essere assorbite a sinistra, anche se in astratto avessero potuto permeare il movimento operaio, socialista e comunista. Ma le tendenze che connotano una cultura – come l’Illuminismo, il Romanticismo, o anche l’Idealismo o il Materialismo, o allora il Decadentismo o “Reazione al positivismo” – sono sempre trasversali: possono presentarsi “da destra” e “da sinistra”, naturalmente con programmi opposti. Le attitudini volontaristiche, neoidealistiche, eccetera – oltre a tutto conformi allo “spirito del tempo”, cioè alla cultura epocale – tra il 1914 e il 1930 o giù di lì si presentarono soprattutto tra fautori della guerra e, più oltre, della “reazione” nera; ma avrebbero potuto benissimo svilupparsi anche in “camicia rossa”, tanto che c’erano ben state nel 1912-1914 nello PSI, ed emersero nel giovane Gramsci e tra i più rappresentativi fra i suoi amici dell’”Ordine Nuovo”, e sulla “Rivoluzione liberale” di Gobetti, a Torino, e negli anni Trenta, e poi Quaranta, tra i liberalsocialisti di “Giustizia e Libertà” e nel Partito d’Azione, sol che si pensi a Carlo e Nello Rosselli o ai filosofi Guido Calogero e Aldo Capitini, che in quell’ambito contarono molto. Solo che queste idee “pensate e vissute”, in cui i valori e stili di vita e le filosofie della “reazione al positivismo” erano ben presenti, non riuscirono affatto a prevalere nella sinistra più cospicua e decisiva, socialista e comunista, rimasta tutta permeata dai suoi moduli esistenziali e filosofici superati, materialistico economici, deterministi e fuori tempo massimo rispetto alla “Storia”, tanto in area riformista che rivoluzionaria.[2]

Comunque l’approccio ai problemi e la connessa psicologia collettiva (o viceversa) erano quelli che erano. L’attivismo, l’idealismo, il volontarismo e così via motivarono i nemici della sinistra. Il “marxismo” negli anni Venti e Trenta del Novecento, in Italia e in Europa occidentale, fu sconfitto, non solo nei dibattiti filosofici e culturali dell’epoca (il che sarebbe di ben scarso rilievo), ma nella prassi politica e sociale. La filosofia dell’azione, non necessariamente “di destra”, ma allora “da destra”, sbaragliò quella fatalistica ed economicistica, che incrociava le braccia o in attesa che la tempesta reazionaria passasse (riformismo) o che quella rivoluzionaria – come una specie di Zorro vendicatore collettivo, o come le “giacche blu” che arrivano in soccorso del fortino assediato dagli indiani nei film western – arrivasse da sé (massimalismo). Questa era la caratteristica del PSI, che nella fase anteriore al primo governo Mussolini era la gran parte della sinistra.

La cultura che ho detto di “reazione al positivismo”, ovviamente pure per tanti fattori politici ed economici, prevalse pure dopo il fascismo: contro “la sinistra”, contro il “marxismo”. Valse quando a vincere fu infatti, dal 1945 in poi, la Democrazia Cristiana, che in quanto “cristiana” aveva comunque un approccio opposto al materialismo economico, filosofico e storico. Quella cristiano democratica era una cultura di vecchio stampo, per diversi aspetti del passato (la “dottrina sociale della chiesa”, la neoscolastica, gli ex gentiliani convertiti come il pedagogista Hessen o Armando Carlini o lo stesso Guzzo, per non dir di Sciacca, e i laureati dell’Università Cattolica, quelli che Gramsci – con sarcasmo – nei Quaderni del carcere chiamava “i nipotini di Padre Gemelli”), ma era molto più viva – nella filosofia o idea morale e religiosa, e nelle stesse dottrine sociali coeve[3] – di quanto a sinistra si fosse creduto, si credesse o si sarebbe creduto. Persino gli ex comunisti, come D’Alema e Veltroni, arruolando Romano Prodi o fondando “l’ircocervo”, il Partito Democratico, il partito unico degli ex comunisti e degli ex democristiani “di sinistra” accoppiati, non immaginavano di certo che l’alleato, o il coniugato – si chiamasse Prodi o Franceschini o Renzi – avrebbe potuto bagnar loro il naso.

La sconfitta politica del materialismo

La DC rimase al potere dal 1945 al 1994, tra alterne vicende, specie perché il PCI, in tutta la lunghissima fase di costante ascesa dei suoi voti (1946/1976), non volle rompere con Mosca, il che lo escludeva dal condominio con l’alleato necessario a vincere, che come ben sapeva (o credeva, da Togliatti a Berlinguer) da sempre era in primo luogo la DC. Il vecchio materialismo marxista e leninista – per quanto felicemente rettificato in senso idealistico da Gramsci e in parte da Togliatti, e in area socialista anche creativamente rinnovato da Lelio Basso come da Vittorio Foa, visto a posteriori – “col senno di poi”, di cui però son piene le fosse (a partire dalle mie) – fu più una remora che una forza[4]. Gramsci diede certo un apporto decisivo al rinnovamento attivistico e idealistico del marxismo, addirittura dai giorni della Rivoluzione d’ottobre, quando interpretò quella rivoluzione socialista e proletaria – che contro ogni materialismo economico e storico andava a scoppiare non al culmine del capitalismo, come per Il Capitale di Marx avrebbe dovuto “scientificamente” accadere, ma nella Russia degli zar – come una “rivoluzione contro il Capitale” di Marx: il che per l’articolista – allora socialista di estrema sinistra ancora segnato dal neoidealismo, e secondo i suoi critici di allora dal “bergsonismo” – attestava il primato della volontà rivoluzionaria sulle condizioni economiche pretese “oggettive”[5]. L’approccio, in forma più matura – e depurato dall’attivismo giovanile, ma anche molto “lavorato” dal leninismo – culminò poi nei suoi Quaderni del carcere. Ma tale apporto non fu in grado di controbilanciare, né tantomeno di egemonizzare, né lo stalinismo né il post-stalinismo, ossia il marxismo-leninismo, che fu una pesante ipoteca per il PCI dal 1925 al 1981, e in parte persino in seguito. Lo stesso – per me grandissimo – leader storico del PCI, Togliatti, che non solo diresse il partito dal 1926, ma dal 1944 ne fu di fatto, per vent’anni, prima il quasi-rifondatore, e poi il capo carismatico ideologico e politico, da un lato era effettivamente gramsciano, forse persino più neohegeliano di Gramsci; ma dall’altro era un convintissimo marxista-leninista, traduttore curatore e fautore di Stalin, tanto da concordare sempre con l’URSS in politica internazionale, ma soprattutto con la concezione leninista-stalinista del partito (per i comunisti sempre decisiva, perché per loro, in sostanza, “il Partito”, comunista, incarnava la volontà del proletariato e, “per ciò”, “aveva sempre ragione”, com’era vero per tutti i comunisti del mondo, a parte le solite mosche bianche). Per sostenerlo, almeno in termini di pedagogia per i quadri del partito, il materialismo oggettivo, il marxismo-leninismo, pareva fondamentale, e quindi era, ancora una volta, “creduto”. Ma oltre a ciò tutti i “luogotenenti” di Togliatti, tutti i compagni che contavano di più nel PCI, erano marxisti-leninisti-stalinisti anche più di lui (anzi, molto di più), da Longo e Secchia o Scoccimarro agli altri, forse compreso Giorgio Amendola seppure in modo più complesso (praticamente tutti salvo Terracini, che però poco contava sull’insieme).[6]

Quanto ai socialisti, sia pure in modo più libero e talora pure “retorico”, e però effettivo, essi rimasero totalmente interni al marxismo-leninismo comunista sino al 1956 (Nenni qualche anno prima aveva ottenuto il “Premio Stalin”); poi, nella maggioranza, veleggiarono verso l’alleanza con la DC, ma diventando semplicemente neo-turatiani, positivisti evoluzionisti, ossia la solita altra faccia (“evoluzionistico riformista”) della luna del vecchio materialismo: o per ferma convinzione o, come probabilmente Nenni – teorico-pratico del “Politique d’abord” (“Politica prima di tutto”) – perché tanto valeva dirsi tali. Ci credeva pure Saragat (anzi, quello ci credeva molto più di Nenni).

Gli anni Sessanta del Novecento, per la sinistra, non mutarono la situazione. Infatti la grande riscoperta del marxismo degli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso consistette proprio nel recupero rinnovato di un vecchio marxismo (ad esempio da Geymonat o da Colletti a Althusser).

Ci fu sì un nuovo marxismo occidentale militante, idealistico oltre che materialista, come nel neosocialismo di Lelio Basso e di Vittorio Foa, il quale ultimo aveva pure un’intenzionalità attivistica e libertaria. Basso aveva persino preso la seconda laurea, negli anni Trenta del Novecento, dopo quella in Legge, in Filosofia, facendo la tesi sul fenomenologo religioso, e mistico Rudolf Otto, e provò sempre a tenere molto strettamente congiunta l’azione quotidiana e il fine del socialismo come società dei liberi lavoratori da far crescere nel seno delle forze sociali e culturali all’opposizione nella vecchia società e Stato (però costituzionale), tramite una sorta di rivoluzione socioculturale continua, fuori come dentro le istituzioni elettive. Vittorio Foa era persuaso che l’azione fondamentale dovesse essere nella società civile, nel mondo produttivo, in direzione della democrazia operaia, oltre a tutto in base ad una visione dell’operaio come persona contro il suo essere forza lavoro del Capitale: visione quasi personalistico comunitaria e libertaria che aveva preso a sostenere sin dal 1930, in clandestinità, nei “Quaderni” di “Giustizia e Libertà” e poi nel Partito d’Azione, e poi dal 1958/1961 in poi nell’area socialista (ma nel 1961 come cofondatore dei “Quaderni rossi” insieme a Raniero Panzieri, anche se si staccò poi subito, non volendo il conflitto, neppure da sinistra, con la sua CGIL). Ma quelle posizioni – in parte anche per gravi limiti, però non casuali, nella capacità di “fare politica” di “capi” di primo o ultimo livello di tali aree – erano totalmente incapsulate in una sinistra socialista più o meno necessariamente succube del PCI, e quindi marxista-leninista spesso più dei comunisti stessi, anche se molto più libera nella discussione interna e nei rapporti interpersonali. Quel genere di nuovo marxismo, bassiano e foano, nel 1964 parve trovare un alveo in teoria “su misura” nel PSIUP, ma pure lì risultò ben presto in minoranza, fosse pure una minoranza forte e vivace, condizionato com’era dai filocomunisti irriducibili, marxisti-leninisti, schiacciati in mezzo tra PCI e PSI, tra i quali il nuovo marxismo occidentale era stato, era e sarebbe sempre stato costretto a muoversi, evidentemente per ragioni molto profonde, oscillando tra i due, dall’esterno o dall’interno, come un pendolo: tanto più che nel 1970/72 il PSIUP, per ragioni varie che qui non starò ad analizzare, entrò in irreversibile crisi, confermando il fatto – in riferimento alle idee di Basso e Foa – che il marxismo occidentale, idealistico e attivistico, era dannato, in Occidente, a essere un fermento o del microriformismo “evoluzionistico” socialdemocratico o del marxismo-leninismo comunista, sia che aderisse al PSI che al PCI, prima e dopo lo stesso PSIUP. Inoltre – spiace molto il pensarlo, e quindi dirlo – il limite era anche nel loro stesso marxismo, cioè vecchio socialismo più o meno succube del materialismo positivista (per quanto idealmente e attivisticamente controbilanciato), ossia di un pensiero inadeguato all’azione, e alle passioni emergenti a livello epocale, già dal 1914 in poi: contesto che infatti fu genialmente compreso, ma solo dal 1930, dal più grande esponente del neomarxismo “idealistico” tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, Karl Korsch, che si era separato, allora, dal marxismo[7], dal materialismo sterile, socialdemocratico come pure marxista-leninista, ossia dalla cultura che in Europa occidentale era stata e sarebbe stata sconfitta in tutte le rivoluzioni tendenti al socialismo, cioè al post-capitalismo: nel 1848, nel 1871, nel 1918/1922, nel 1929/1933, nel 1948, nel 1956/1963, eccetera. (E quando quella cultura non era stata sconfitta, fuori dall’”Occidente”, nel mondo eurasiatico russo, o in Cina e oltre, aveva promosso dappertutto una “degenerazione” burocratico-autoritaria talmente ripetuta sotto ogni clima e in ogni tempo da risultare una “generazione” della “degenerazione”, che certo avremmo avuto pure noi, come i polacchi o cecoslovacchi o ungheresi, se qui nel 1943/1945 non fossero arrivati i soldati americani, ma quelli sovietici: con identici o quasi identici effetti che in Europa Orientale, effetti che persino suo malgrado si sarebbero imposti pure al geniale Togliatti, che a detta della sua compagna Nilde Jotti dopo la sconfitta del Fronte Popolare nell’aprile 1948 appariva, stranamente, “allegrissimo”).

Il radicamento nel materialismo positivistico – da Marx agli anni Venti del Novecento – fu perciò, come oggi opino, il limite vero della cultura diffusa, come pure elaborata, della “contestazione”, del “1968”[8]: sino alla riscoperta di una visione della storia che si fa da sé, comune all’operaismo marxista riposizionatosi come setta fuori dalla sinistra detta “ufficiale” (storicamente determinata nei suoi grandi partiti e sindacati; e che la “nuova sinistra” di tutti i tipi fu e sarebbe sempre stata incapace di rifondare: in termini necessariamente neosocialisti democratici e post-comunisti, nonché post-marxisti-leninisti). L’operaismo marxista cercava, e ancora cerca, tra le folle – invece che nelle fabbriche come negli anni Sessanta e Settanta del Novecento – il Soggetto sottinteso della “Rivoluzione”, il “deus ex machina”, i movimenti sotterranei delle masse[9]. Anche i piccoli gruppi eversivi e violenti pretendevano di fare la volontà sotterranea di grandi masse, investigata con quel materialismo economico sociale da quattro soldi, che si autoconvinceva di vedere all’opera tutto un sotto-mondo proletario invisibile, che pur non votando quasi per nulla per “i rivoluzionari” era considerato proteso a fare la rivoluzione – che come sempre poi non faceva – in base a una frusta metafisica materialistica, che vedeva e vede sempre all’opera forze invisibili invece che ben visibili. In sostanza sino al 1991 gran parte della sinistra seguitò ad essere caratterizzata dal materialismo senz’anima dei riformisti come dei leninisti, con a lato minoranze minuscole, eternamente emarginate e marginali, che nel loro immaginario si credevano l’ombelico del mondo: minoranze che negli anni Dieci-Venti del Novecento inneggiavano – oltre che a Marx – a Nietzsche, Sorel e Bergson (lo si è visto); e dopo il Sessantotto (e “Settantotto”) – dopo aver cercato per cento volte di far rivivere nella teoria-prassi una qualche neoscolastica marxista pretesa “scientifica” – ora, a “guerra finita”, sembrano riprendere, sempre a nome di Marx, l’humus d’inizio secolo pure nietzscheano, sorelliano e bergsoniano: da Deleuze a Foucault e Antonio Negri, prospettando, nella fase relativamente recente, mutamenti di tipo biopolitico (l’oltreuomo di “Federico”, ma da sinistra), inventandosi un settarismo ora generoso e ora gravemente anomico, destinato sempre a scambiare lucciole per lanterne, e che sull’insieme storico sociale ha sempre pesato – al di là delle proprie fantasticherie, ora generose e ora irresponsabili – come il due di briscola, pur lasciando sul campo morti, feriti e più di tutto disperati. Anche se io – sia chiaro – ho sempre pensato, e penso, che proprio da tali spiriti eretici, ben prossimi – a parte la tabe residuale materialista “scientifica” degli “anni di piombo” – a quella che ho detto “reazione al positivismo”, ci sia molto da apprendere, ma su un piano analitico sociale e di interpretazione del mondo, ma non certo per cambiarlo (ossia non certo in ambito pragmatico, in cui sono sempre stati e sono gli ultimi della classe, forse dal tempo dei libertari di sinistra contemporanei di Marx o del giovane Filippo Turati). Infatti per me in quell’humus le elaborazioni innovative ci sono state e sono, ma solo su un terreno diverso da quello in cui, non certo solo per colpe altrui, tali componenti si sono rovinate, essendo incapaci di capire che solo forze sindacali e partitiche vere, comunque socialiste e democratiche per quanto possano essere “di sinistra”, e libertarie ed ecologiste, avrebbero potuto, possono o potrebbero mettere a frutto anche “nuove teorie” interessanti, altrimenti matematicamente produttive di lutti e rovine, e pure di irrimediabili disfatte[10].

Comunque il marxismo-leninismo, ma anche le altre forme di marxismo, nel Sessantotto stesso, e tanto più nel decennio ulteriore del Novecento, e sempre, furono e sono sconfitti. In quel tempo ci furono sì elementi di nuova cultura, ma soprattutto nella sfera antiautoritaria di base: direi più di costume che direttamente politica, imparentata con tendenze alla libertà dei corpi e sessuale, al femminismo, all’ecologismo, al pacifismo e anche alle esperienze visionarie e mistiche (nuova cultura, o controcultura, che veniva soprattutto dall’Inghilterra e dall’America, dai Beatles a Bob Dylan e alla Beat Generation, ad esempio dell’ecologo profondo, e libertario, Gary Snyder, per non dire di Fritjof Capra), cultura che non aveva niente a che fare, o ben poco a che fare, col marxismo. Credo che saranno i fermenti di una sinistra del futuro, anche post-capitalistica, che non potrà ripercorrere – a meno che non seguiti a decadere, il che è purtroppo possibile – i vecchi stereotipi, magari del socialismo “evoluzionista”, per non dire del materialismo determinista “catastrofista”, di tipo marxista, ma dovrà accedere ad un approccio apertamente post-materialista. E se non ci riuscirà – preferendo oscillare tra un nichilismo “progressista” vacuo, da spretati che non credono più in Dio, e i vani tentativi di rivitalizzare i cadaveri del passato – seguiterà a collezionare disfatte.

Va comunque detto che pure la vision socioculturalmente egemone dopo il 1945 è stata post-positivista, e non marxista: anche se nell’insieme sembra che tutta l’epoca culturalmente non sia stata molto innovativa, ma più una versione debole dei vecchi moduli degli anni Venti che non segnata da un vero rinnovamento dei moduli stessi: quasi che in Italia – cui qui va il riferimento maggiore – dopo il 1945 non ci siano più stati filosofi o pensatori veramente importanti, anche se ci sono stati maestri straordinari come Eugenio Garin, Nicola Abbagnano, Enzo Paci e soprattutto Norberto Bobbio[11]. Anche i neomarxisti, citati o citabili, sono stati più epigoni che innovatori.

Comunque guardando all’Italia si vede che la cultura egemone – sebbene meno profonda e incisiva nelle rielaborazioni rispetto al marxismo contemporaneo – è stata quella cattolica (ora incrociata con residui di neoidealismo gentiliano, e ora di pragmatismo americano): visione comunque non certo materialista da un punto di vista filosofico e culturale. Siccome tale cultura non è stata affatto originale, l’abbiamo sottovalutata (io per primo, pur con qualche approfondimento anche su tale terreno[12]). In ogni caso il mondo cattolico non solo è esistito ed esiste, ma guardato in senso ampio ha avuto un ruolo importante.

Se pensiamo alla morale sociale prevalente nelle aree dell’ex Lombardo-Veneto in senso ampio, la cultura cattolica ha lasciato fermenti vivi sino ai giorni nostri. Le zone rurali d’influenza cattolica – ben testimoniate dai film di Ermanno Olmi come L’albero degli zoccoli come dal Mondo piccolo di Guareschi[13] – non sono state roba da poco, e restano la locomotiva del Paese. E tra i capi storici della Democrazia Cristiana l’impronta religiosa è stata forte, nonostante i vizi di trasformismo e le degenerazioni morali di un sistema come quello italiano, segnato da forme di governo debole già per volontà dei costituenti[14]; e, tra 1945 e il 1994, senza ricambio del partito egemone (con connesso periodo di potere così lungo da far marcire qualunque forza di governo, fosse stata pure di francescani scalzi, perché per me è sì vero che, come diceva il cinico ma acuto Giulio Andreotti, “il potere logora chi non ce l’ha”, ma – a quel che ritengo io – corrompe più o meno fatalmente chi ce l’abbia troppo a lungo: sicché dopo vent’anni, se una forza di potere resti in sella, e tanto più se restino in sella gran parte delle stesse persone, è quasi impossibile che l’assetto di potere non puzzi di pesce marcio. Questo è forse il primo argomento a favore della democrazia, cioè del ricambio della squadra di governo per volontà del popolo sovrano liberamente e pacificamente espressa, periodicamente, secondo norme costituzionali vincolanti).

(Segue)

di Franco Livorsi

G. LUKÀCS, La distruzione della ragione (1954), Einaudi, Torino, 1959. In pratica il geniale marxista autore dell’opera condannava con parole di fuoco, certo con ottima conoscenza e mirata scelta di testi, tutta la cultura detta “della borghesia” dopo il 1848, con particolare riferimento a Nietzsche: come irrazionalista, decadente, imperialista e guerrafondaia, prefascista o fascista, terreno di coltura di Hitler. Scriveva ormai da stalinista da decenni (Stalin morì nel 1953 e la destalinizzazione iniziò nel 1956), in un alveo liberticida e totalitario, sia pure di sinistra, che pretendeva di dare lezioni di democrazia pure al mondo liberale o libertario. Tanto per cambiare.

Per l’approfondimento di tutte queste posizioni, e delle contrapposte, rinvio soprattutto all’ottimo: E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, 1900-1960, Laterza, Roma.Bari, 1997 (già 1966, e poi aggiornato sino al termine indicato), da integrare con il suo: Intellettuali italiani del 20° secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974. Ma si veda pure: N. BOBBIO, Maestri e compagni. Piero Calamandrei, Aldo Capitini, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Antonio Giuriolo, Rodolfo Mondolfo, Augusto Monti, Gaetano Salvemini, Passigli, Firenze, 1994.

Si vedano, in proposito, soprattutto i lavori di Pietro SCOPPOLA, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Studium, Roma, 1979; La Repubblica dei partiti, 1945-1996, Il Mulino, Bologna, 1997. I numerosi spunti polemici di A. GRAMSCI contro i “nipotini di padre Gemelli” sono riscontrabili nei suoi Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi.

In proposito è molto interessante proprio per capire dall’interno le tendenze socioculturali richiamate: P. SPRIANO, Le passioni di un decennio. 1946-1956, Garzanti, Milano, 1986. Per il versante socialista si veda soprattutto: G. GALLI, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Baldini & Castoldi Dalai, Milano, 2007.

A. G., La rivoluzione contro il Capitale, “Avanti!”, 24 novembre 1917. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Gramsci e il bolscevismo (1914-1920), in: FONDAZIONE ISTITUTO PIEMONTESE A. GRAMSCI, “Il giovane Gramsci e la Torino d’inizio seolo”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1998, pp. 101-124.

Sul periodo sono da vedere in particolare: R. MARTINELLI, Il partito nuovo dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, 1995: G. GOZZINI – R. MARTINELLI, Dall’attentato a Togliatti all’8° Congresso. 1948-1956, che sono la prosecuzione, come volumi 6 e 7, della Storia del Partito comunista italiano di Paolo Spriano, che andava dal 1921 al 1944, uscita in 5 volumi, ivi, dal 1967 al 1995. Ma naturalmente hanno grande rilievo le maggiori opere su Togliatti, da: G. BOCCA, Palmiro Togliatti, Laterza, 1973, molto interessante per sondare i drammi politici e umani del leader nella storia del suo tempo; E. RAGIONIERI, Palmiro Togliatti. Per una biografia politica e intellettuale, Editori Riuniti, 1976, che mette insieme le vaste introduzioni che lo storico fiorentino apponeva come introduzione alle opere di Togliatti, da lui curate sino alla morte, e che ai fini del mio ragionamento sono l’apporto più rilevante perché l’autore cercava sempre il pensiero politico, esplicito o implicito, nelle vicende del leader; A. AGOSTI, Palmiro Togliatti, UTET, Torino, 1996, il più completo in termini di certezza delle fonti, e anche il più equilibrato (su cui rinvio anche a: F. LIVORSI, Togliatti nella storia, “Il pensiero politico”, n. 1, 1997, pp. 90-94, in cui discutevo l’opera).

Su Giorgio Amendola, rinvio a: F. LIVORSI, Giorgio Amendola nella storia del comunismo. Note e riflessioni, in: AA.VV., “Giorgio Amendola. Una presenza nella storia”, n. monografico del “Quaderno” dell’Istituto storico per la Resistenza in provincia di Alessandria (ora ISRAL), a. IV, n. 8, 1981, pp. 5-36, che però, per quel che riguarda il mio contributo, era segnato da un approccio ideologizzante: sarebbe ora da confrontare col mio saggio Giorgio Amendola “liberalcomunista”, “Risorgimento” (semestrale dell’Istituto per il Risorgimento di Milano), n. 2, 2000, pp. 303-328, in cui pienamente mi riconosco. Rinvio infine a: F. LIVORSI, Umberto Terracini e i comunisti negli anni del Patto Molotov-Ribbentrop, in: ISTITUTO GRAMSCI DI ALESSANDRIA, “Umberto Terracini nella storia contemporanea, Dell’Orso, Alessandria, 1987, pp. 55-62. Il volume pubblicava le relazioni di un convegno su Terracini tenutosi ad Acqui Terme nel gennaio 1985 (Terracini aveva una villetta a Cartosio, tanto che le sue carte sono ora presso la Biblioteca comunale di Acqui).

K. KORSCH, Marxismo e filosofia (1930), Pgreco. Milano, 2012; Scritti politici, Introduzione di G. E. Rusconi, Laterza, Roma-Bari, 1975. La critica del materialismo economico e del coevo determinismo storico fu espressamente rivolta sia al marxismo socialdemocratico che comunista, con particolare riferimento a Lenin, e infatti fu condannata sia da Kautsky (pur antileninista dal 1914/1918) che da Zinovev (comunista) che dal trockijsmo stesso (Pietro Tresso). Si confronti con: G. VACCA, Crescita e trasformazione. Korsch teorico e politico. 1923-1938, Dedalo, Bari, 1978.

L. BASSO, Socialisti e cattolici al bivio. Temi per una alternativa democratica, Lacaita, Manduria, 1961; Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Feltrinelli, 1958 (e poi 1998), che interpretava la Costituzione, di cui era stato uno dei principali elaboratori, alla luce di una moderna idea di autogoverno, ossia di democrazia dei partiti, ruotante attorno all’articolo 49 della stessa, da lui fatto approvare alla Costituente, che vede i partiti come forme della sovranità popolare, tramite cui il cittadino può partecipare al potere non solo col voto, ma con l’attiva, volontaria, ossia con la militanza o il sostegno all’organizzazione politica che egli voglia scegliere; Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, 1980, che voleva proporre la sua teoria politica. Ma si veda, nello stesso humus, qualche apporto dell’operaismo marxista di Vittorio FOA, come: Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980, e soprattutto lo straordinario libro Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, ivi, 1991. Per un inquadramento valido e oggettivo sul marxismo di sinistra del tempo si veda: N. BADALONI, Il marxismo italiano degli anni Sessanta, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, Roma, 1972. Ma si veda soprattutto: P. ORTOLEVA, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1998. L’Associazione Città Futura, di Alessandria, ha dedicato al Sessantotto, nel 2018, un interessante convegno; e “Città Futura on line” ha su ciò un interessante spazio specifico che raccoglie molti interessanti interventi, prima e dopo il convegno, tra cui segnalo quelli di Patrizia Nosengo e Giuseppe Rinaldi, tra i molti tutti interessanti, in quanto con essi ho interloquito. Richiamo i miei contributi lì: Frammenti sul 1968/1969: I) Introduzione (3 dicembre 2018); II – III -IV) Ricordi e riflessioni su Rudi Dutschke e il Sessantotto (14 maggio 2018, 27 maggio 2018, 4 giugno 2018). Da ciò ricavai pure il contributo: Ricordi e riflessioni sul “Sessantotto” in Piemonte, in: Cittafutura – Associazione Città Futura, Alessandria; 850 anni di storia, a cura di R. Penna e G. Patrucco, Litografia Viscardi, Alessandria, 2019, pp. 120-125. Per i riferimenti al PSIUP rinvio a: A. AGOSTI, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Roma-Bari, 2016, che si può confrontare con: F. LIVORSI, Una storia del Psiup, “Critica marxista”, n, 5, 2014, pp. 72-79.

Molto interessante per la comprensione della tendenza in questione è: Toni NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979, da confrontare con: D. GENTILI, Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna, 2012. Una caratteristica di fondo dell’operaismo è l’idea che le grandi forze sociali si autodeterminino dal basso, in sostanza nell’economia, però sociologicamente, e persino sociopoliticamente, intesa: con approccio che talora ricorda – con passaggi che si potrebbero pure documentare in dettaglio – la teoria di Adam Smith sul mercato “libero” che si autoregola come se una “mano invisibile” lo dirigesse (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, 1776, e a cura di A. Roncaglia, ISEDI, Roma, 1995). Per l’operaismo sono le azioni della classe operaia ad autoregolarsi. Ma più in generale anche il capitalismo, di cui la “C. O.” sarebbe la sola contraddizione antagonistica, irriducibile. Questa teoria da un lato è talmente radicalizzata da far pensare, alle origini della corrente e del neocapitalismo, che il capitalismo fosse in grado di assorbire ogni contraddizione, salvo l’antagonismo continuo, profondo e irriducibile dell’operaio, per ciò chiave di volta della rivoluzione. Così era, tra il 1961 e il 1966, nei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri (ma con alcuni saggi decisivi di Mario Tronti), e poi sul mensile “Classe operaia” di Tronti (1964/1966). Ma sparite le grandi fabbriche con base di massa (catene di montaggio, eccetera), Antonio NEGRI, insieme a Michael HARDT, ha applicato lo stesso schema al capitalismo della globalizzazione e alle connesse masse “proletarie” anonime, più composte da “dannati della terra” che da produttori: masse proletarie pretese sempre in tumulto, ora esplicito e ora implicito, come nelle opere dei due Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002, in cui appunto si ha l’idea di un capitalismo mondializzato pluricefalo, che si autoregola, ma col solito nemico vendicatore occulto proletario, trattato poi dai due in: Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine globale, Rizzoli, 2004. Per me sono tutte elaborazioni di prim’ordine e da meditare e discutere, ma al tempo stesso da assumere “cum grano salis”, “con le molle” e “criticamente”: del resto come le riflessioni dei grandi libertari dal XIX secolo in poi (da Bakunin a Kropotkin e oltre), di cui tali tendenze – anche senza volerlo affatto, e anzi proclamando in modo alto e forte il loro marxismo – sono la continuazione. Sono utopisti “critici”, ma sempre utopisti, e spesso impegnati in avventure pericolose a loro stessi e agli altri, in più casi strumentalizzate dal famoso “nemico di classe”.

Il nesso tra vecchia e nuova cultura della “reazione al positivismo” si vede direttamente nel pur notevole Gilles DELEUZE, come nei suoi libri: Nietzsche e la filosofia (1962), Feltrinelli, Milano, 1992; Il bergsonismo, Feltrinelli, 1999; Foucault, ivi, 1987. Per M. FOUCAULT si vedano almeno: Antologia. L’impazienza della libertà, a cura di V. Sorrentino, Feltrinelli, 2008; Nascita della biopolitica (1979), ivi, 2007. Sono interessanti, e però sempre necessariamente marginali in quanto operano al di furi di un contesto neosocialista democratico e post-materialista, che solo potrebbe rinnovare la vecchia rilettura di Nietzsche e Bergson “da sinistra”, che c’era già stata nel primo ventennio del XX secolo. Il mito dell’oltreuomo e il mito della “umanità nova”, titolo da allora del giornale degli anarchici, tornano, ma appunto senza superare né il materialismo né il negativismo più o meno nichilistico della “matrice”.

N. BOBBIO, Il futuro della democrazia. Einaudi, 2005.

F. LIVORSI, La coscienza personalista. Maritain e Mounier, in: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 345-387.

Mi riferisco naturalmente al film di E. OLMI, L’albero degli zoccoli (1978). Ma si veda pure: G. GUARESCHI, Mondo piccolo. Don Camillo, Rizzoli, 1948 e volumi successivi, per cui è da vedere: Tutto don Camillo. Il mondo piccolo, ivi, 1998, tre voll.

I comunisti temevano, a ridosso del fascismo appena finito, e mentre iniziava la guerra fredda, e loro erano gettati fuori dal governo de Gasperi nel 1947, un golpe di tipo più o meno clerico-reazionario, mentre i democristiani temevano, come a Praga, un golpe di sinistra se nel 1948 avessero vinto i socialcomunisti: sicché inventarono, tutti insieme, on assetto così proporzionale puro da garantire governi deboli, che per opposte ragioni facevano comodo ai protagonisti della Costituente e della politica italiana. Ciò è ormai riconosciuto da tutti gli storici.

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