Filosofia del Socialismo

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 1) Idealismo “religioso”(III)

Pubblicato il 18/05/2020

III

Si sa che Carl Gustav Jung, quand’era ormai più che ottuagenario – in una famosa intervista televisiva del 1959 a Freeman della BBC che si può facilmente vedere e ascoltare anche su You Tube persino con sottotitoli in italiano – interrogato sul suo credere o non credere in Dio rispose di non aver bisogno di credere, osservando: “Adesso lo so”.[1] Voleva dire che riteneva di aver fatto l’esperienza del soprannaturale. Quella certezza aveva però carattere psicologico, mentre sul piano filosofico, logico, il suo approccio potrebbe esser detto “problematicismo”, se si vuole a sfondo idealistico. Credo di poterlo affermare con certezza. Infatti io non solo ho recensito il vasto epistolario edito di Jung, ma persino schedato per temi tutte le 1200 lettere scelte di Jung. Lì si vede come sino alla fine teologi amici cercassero di tirarlo dalla loro parte (di lui si occupò pure padre Agostino Gemelli[2]), ma egli si sottrasse sempre: non solo per il grande tema del male nell’essere come nella nostra psiche originaria – per lui esso pure a priori come il suo opposto, nel Sé e dunque in Dio – ma soprattutto perché diceva cento volte, kantianamente, che noi non possiamo essere certi su tali “realtà ultime” perché pensiamo nel nostro corpo, nello spazio e nel tempo. Abbiano solo molti indizi di cose ed esperienze in noi che portano oltre la nostra carnalità pensante. Io concordo molto.

Oltre la “scienza” idealistica dell’Assoluto immanente in noi: con Hegel oltre Hegel

Questo va oltre l’idealismo di Fichte e Hegel (Schelling meriterebbe un discorso a parte, per la sua considerazione dell’inconscio nello Spirito, alias Natura). Infatti l’infinità del pensiero, non solo in senso metaforico ma effettivo, per essi era un punto fortissimo. Lo si è visto. In ciò ritenevano che la loro fosse “sofìa”, sapienza, scienza, più o meno come quando diciamo che 2 per 3 fa 6. Per loro era, sin da Fichte, “dottrina della scienza”, scienza delle scienze, una sorta di super-scienza in capo a tutte le forme più specifiche, e in certo modo meno certe, di sapere. Invece per me è “filosofia”, cioè amore della sapienza (o della scienza), amicizia per la sapienza (o per scienza), “possibilità che sì”. È possibile che l’archetipo dell’infinito e dell’eterno, cioè di Dio, in noi a priori, sia psicologico (per me soprattutto in riferimento alla psicologia analitica, junghiana) e logico (idealismo gnoseologico), ma anche ontologico (reale in sé). Ma la possibilità che sì – cioè che lo sia – è pure possibilità che no. Se Dio esistesse nel senso forte dei monoteismi sarebbe veramente di una genialità senza pari l’averci messi in questa condizione “aperta”. Se fossimo certi che Dio ci sia, la fede non varrebbe niente. Diverrebbe inevitabile. Invece il dubbio antropologico è la rocca della nostra libertà: fa della fede o della non-fede una libera scelta. Questo però non significa che la scelta sia “al buio”. Ciascuno cerca la risposta che gli paia migliore. E se sceglie senza pensarci, vuol solo dire che si affida al caso su questioni esistenzialmente decisive.

C’è gente che per un’idea sociale, o per una persona cara, su cui pure non ci può mai essere certezza “matematica”, si è fatta ammazzare. In ambito religioso si possono dare convinzioni altrettanto forti, anche se chi per una convinzione mai logicamente certa ammazza o ferisce il prossimo potendo farne a meno, per me è sempre stato un cretino o una mente disturbata, magari per ragioni da investigare (ma non da giustificare).

Si potrebbe anche pensare che non potendo esserci, sui problemi dell’Essere, certezza matematica, ci si possa affidare a un onesto scetticismo, come uno che nel dubbio non scelga. Ma sin dall’inizio io ho pensato che non sia possibile. La questione è così decisiva che è impossibile non avere un orientamento, per quanto oscillatorio, tanto che l’opzione pro e contro la fede – soppesate le cose – è soprattutto una scelta esistenziale. L’agnosticismo mi è sempre parso, in proposito, logicamente possibile, e anzi la sola posizione veramente ragionevole, ma esistenzialmente impossibile. Uno soppesa i pro e i contro e “decide”[3].

Da molti anni, procedendo così, io mi sono fatto delle convinzioni, che mi paiono altamente probabili (purtroppo non ho nessuna certezza). L’unica convinzione che ritengo possa essere “quasi” certa è che in noi, a priori, ci sia la dimensione dell’infinito e dell’eterno. La do al 99 per 100. Ma se a ciò corrisponda la realtà, non solo logica, o comunque psicologica, ma ontologica, in sé e per sé, dell’infinito e dell’eterno, mi pare più discutibile: anche se ho una forte propensione a credere che l’infinito ci sia, e che ci sia alla prima radice di noi stessi (non come un “altro” da noi stessi, ma come nostro Sé, cioè come radicale di “tutta” la nostra mente, con un’allure di ciascuno di noi: è il mio idealismo). Inoltre non posso pensare che ciò sia vero, o molto verisimile, in me senza esserlo pure fuori di me, innanzitutto negli altri Sé della mia specie; ma siccome siamo con evidenza derivati dagli animali, che oltre a tutto sono presenti persino nel nostro DNA, deve valere pure per i viventi più in generale. La cosa più plausibile è che siamo tutti quanti congiunti nell’inconscio collettivo, che è pure tanta parte della nostra psiche umana, la quale ha in sé la luce, che credo infinita, della coscienza o ragione, che però è avvolta dalla notte dall’inconscio (“animale” senza aggettivi); oppure la coscienza è come un’isola nell’oceano dell’inconscio. Non solo sono psicomatico io, e siamo psicomatici noi umani, ma debbono esserlo tutti i viventi, in tutta la terra e in tutti i mondi abitati. Siamo-sono tutti psichici. Ma è impossibile pensare che tutti lo siano per conto loro. Ci dev’essere uno psichismo che li organizza dall’interno in modo inconscio, resosi cosciente in noi umani. E, “quindi”, ci dev’essere una mente della vita, un Vivente della e nella vita, pensante inconsciamente dappertutto, e resosi anche cosciente nell’uomo. Ritengo possibile che i mistici giungano a percepirlo – oltre che a intuirlo oscuramente come tutti – talora con chiara coscienza. E penso che come singoli siamo punti vivi, psicosomatici, di questo Vivente che tutti ci vive. Può anche darsi, ed è anzi molto probabile, per le tante esperienze di cui si è detto, che in noi ci sia un quid, o quis, che va al di là dello spazio, del tempo e dell’Io.

L’altra idea forte che mi sembra connessa a tali punti è quella della grande interdipendenza, e “quindi” dell’empatia. Su tali basi la coappartenenza a un solo essere umano, comprensivo – per Capitini – dei vivi e dei morti[4], mi pare emerga con forza: anzi mi pare chiaro che siamo parte della vita comune, umana ed animale, e anzi di un essere vivente che vive da miliardi di anni (a meno che, come “credo” io, non fosse latente anche prima del “big bang”, magari giunto dopo altri cicli, non credo uguali, ma ricorrenti), in cui ciascuno di noi è inscritto, come punto o se si preferisce segmento, di una retta infinita. L’empatia dovrebbe seguire, perché l’altro siamo noi, anche se ciascuno di noi è anche, e prima di tutto, sé stesso e solo se stesso. La fraternité, che tra i grandi valori del 1789 (liberté égalité fraternité) è stata la Cenerentola – in un mondo sociale sempre più competitivo e polemologico, “borghese” come “antiborghese” – dovrebbe invece essere il valore supremo (ovviamente a pari grado con la liberté, connessa all’individualità di ciascun essere vivente, tanto più se pensante-volente per natura, che in primo luogo vuole la vita per sé stesso). Mi sembra molto probabile che quando neghiamo la fraternité, facendo prevalere “logiche” da mors tua vita mea, tra individui, classi o Stati, o comunque polemologiche, e ben al di là di una normale competizione emulativa, possiamo ormai avere la certezza quasi matematica di sbagliarci; e se tali “logiche” ci s’impongano, in date circostanze, dovrebbe essere solo per forza maggiore e nostro malgrado.

Nell’ambito religioso ci sono poi cose molto più opinabili, come la sopravvivenza personale, e non solo la realtà di quel che in noi stessi vada al di là dello spazio e del tempo, o magari di quel che mentre viviamo vada al di là dello spazio e del tempo, che si trascinerebbe dietro “i vissuti”; o come la possibile rinascita della nostra psiche profonda, o metempsicosi, che non escludo minimamente, ma neppure affermo; oppure come la possibilità che lo psichico sussista, magari per un breve intervallo, o per sempre, senza una corporeità in cui inerisca (benché un tal dualismo radicale mi paia molto improbabile). Anche l’esistenza non tanto del “divino” quanto di un Dio “persona” mi pare alquanto opinabile.

Tutto il mio approccio sembra compatibile con punti di vista “religiosi” molto diversi.

In pratica è incompatibile solo con l’indifferentismo, segnato da un ateismo non già “religioso”, ossia pervaso almeno dalla “struggente nostalgia” dell’infinito e dell’eterno, ma assoluto. Ma un tal essere umano esiste? Se esistesse dovrebbe essere indifferente persino alla morte, non solo altrui, ma anche propria. Non ci credo. Già Freud, del resto, aveva spiegato che il nostro inconscio – all’opposto della nostra coscienza – se ne infischia della morte perché esso – a suo dire per il suo narcisismo “naturale”, ma a me interessa un tal credere nella propria “vita continua” da parte della nostra natura profonda – non ci crede affatto: non crede nella morte come fine assoluta neanche in punto di morte (ne so qualcosa); si percepisce come immortale[5]. (E se si percepisse così perché lo è?). Ma nella coscienza l’uomo sa di dover morire e questo è il suo cruccio segreto, cui non può rassegnarsi “veramente”; e anche questo è significativo, tanto che molti vi vedono l’origine stessa del filosofare.

L’indifferenza sui nostri limiti pretesi naturali, cioè la “naturale” accettazione della finitezza, non è certo stata la posizione di Sartre, il quale diceva che l’uomo è “un dio mancato”: un ànthropos che per natura vorrebbe essere un dio (un eterno e beato), ma non lo è, perché – diceva lui – “Dio” non esiste.[6] Ma già cogliere tale aspirazione antropologica è ammettere la dimensione psicoantropologica dell’infinito e dell’eterno, pur negando che alla dimensione mentale del genere corrisponda una realtà, un che di ontologica effettivo. Perciò l’ateismo di Sartre era detto, dallo scrittore cattolico Mauriac, un ateismo “religioso”[7]. Questo per diversi aspetti è conforme pure a quel che penso io, nel senso che l’ammissione che tale dimensione psichica “infinitizzante” ci sia antropologicamente, nella fenomenologia dell’essere umano, per me è la base di tutto. Il resto consegue, e se non consegue è quantomeno “possibile”. Vi si può credere, anche se la persuasione psicologica non può mai essere, in tali ambiti, certezza logica.

Il secondo approccio possibile, oltre all’indifferentismo “eventuale”, in materia di religiosità è l’agnosticismo, di cui qui ho già segnalato la fortissima possibilità logica, ma anche la fortissima debolezza, o plausibilità, o effettiva realtà, psicologica. Comunque sta ben “dentro” a quel che ritengo “verisimile” perché ammette che c’è un mistero dell’essere, compatibile con la presenza a priori, in noi, della dimensione dell’infinito e dell’eterno oltre che con la sua eventuale “insussistenza”.

Il terzo approccio possibile è il teismo: la fede in un Dio diverso dall’uomo e dal vivente, che c’era e ci sarà prima come dopo di loro, a sé stante, trascendente e non trascendentale (se non in modo derivato). Al suo attivo ha la conformità con il nostro spontaneo antropomorfismo (Dio quale “persona” come noi, assolutizzata; l’anima come nostra identità profonda, essa pure spiritualizzata). Al passivo, tale approccio da un lato ha il dualismo, che raddoppia la realtà in sé, l’essere, in una sfera spirituale e in una materiale, senza necessità. Inoltre non ha conferme scientifiche, o ne ha di troppo deboli. Anche la spiegazione della realtà del male, soprattutto quando colpisce bimbi e innocenti, è talmente debole da suonare come un’irrisione. Tuttavia l’approccio teista non può essere escluso da chi ritenga che in noi vi sia la dimensione dell’infinito e dell’eterno. Ed è stato ritenuto “vero”, e quindi compatibile, sia pure per fede, con la visione scientifica da grandi scienziati da Galileo a Newton, e ancor oggi da tanti medici o scienziati che credono così anche nel nostro tempo. Il teismo risulta ancor più dubbio nella sua forma politeistica, anche se non sono mancati grandi pensatori, come Hume, i quali hanno sostenuto che tramite angeli, demoni e santi il cristianesimo stesso maschera la tendenza politeistica[8]. Tuttavia i politeisti “critici” rovesciano l’argomento, ad esempio in India, sostenendo che quello che noi chiamiamo “politeismo” andrebbe detto “enoteismo”, ossia unità di Dio, perché gli dèi, che ivi sono centinaia di migliaia, sono tutti volti di un unico essere divino, quasi egli fosse un immenso poliedro (l’Atman o Anima del Mondo).

Il quarto approccio possibile è il panteismo, ovviamente del tutto compatibile con il politeismo, come si vede benissimo nell’induismo (che pare dovremmo dire brahmanesimo). Il panteismo non sta solo a significare che Dio è “tutto”, come dicono i suoi detrattori, ma che “il tutto” è Dio. L’idealismo è stato spesso accusato di panteismo, più o meno a ragione (ma non del tutto, o necessariamente), perché è un monismo, o tende al monismo, cioè a vedere il tutto come “uno solo” (mònos): e per tal via relativizza la differenza tra spirito e materia; ma questo per il monoteismo non è neanche il punto fondamentale perché un’idea della materialità del mondo, come il “non Dio”, il creato, la “polvere” da cui l’uomo verrebbe e in cui ritornerebbe, c’è pure nel vecchio giudaismo, ed è presente, anche se non sempre, pure alle origini del cristianesimo (tanto che nozioni come anima immortale e connesso aldilà sarebbero soprattutto derivazioni dell’ellenismo e del neoplatonismo, com’è evidente in Sant’Agostino; ma pare indubbio lo sia già nel Quarto Vangelo di Giovanni e nelle lettere di San Paolo, ma non negli altri testi del Nuovo Testamento, che semmai tendeva ad avvalorare la resurrezione finale dei morti col giudizio universale, per quanto per il non credente sia una credenza difficile persino da concepire, se non contro la ragione). Va comunque notato che dopo il superamento di millenni di antigiudaismo cattolico, da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II in poi, anche l’idea dell’anima e dell’aldilà si sono misteriosamente indebolite. La dottrina cattolica dell’anima, infusa ogni volta da Dio e non generata da padre e madre (anche se nulla vieterebbe che in noi ci siano le due anime interconnesse dei genitori, poi evolventisi con noi), è debole[9].

Il punto fondamentale di dissenso tra teismo e panteismo non è tanto quello della spiritualità del corpo quanto quello, decisivo, della realtà del male. Così ad esempio Vito Mancuso, in un suo libro antelucano su Hegel, apprezzava molto questo grande filosofo, lamentando però l’assenza o impossibilità, nella sua visione, del “principe di questo mondo”, cioè del diavolo, alias del male[10]. In sostanza se Dio è nel tutto, o anche se il tutto è in Dio (come diceva Hegel difendendo Spinoza, dicendo che il suo “Deus sive Natura” – Dio ossia la Natura – era “acosmismo” e non “a-teismo” perché sarebbe la Natura ad essere in Dio e non il contrario[11]), il male perde consistenza ontologica, cioè realtà in sé e per sé.

Più di un teista critico – da Jonas nell’ambito del giudaismo a Jung nell’ambito di un cristianesimo pur molto “ereticale”, e però profondo (su un piano personale e non “scientifico”), si era detto insoddisfatto della vecchia spiegazione agostiniana – sempre accolta dal cristianesimo – del male come privatio boni (“privazione del bene”), che connette il male a un distanziarsi, mai assoluto (la privazione nel cristianesimo è intesa come una diminuzione) dal sommo bene che è Dio. Dopo Auschwitz, e già dopo gli orrori della Grande Guerra, tale idea a Jung pareva insostenibile, e tanto più parve a lui insostenibile, come lo era per il filosofo ebreo Jonas, appunto dopo Auschwitz[12]. Per contro la posizione, agostiniana restò condivisa dalla grande filosofa ebrea Hannah Arendt, che veniva dallo studio di Agostino fatto alla scuola di Heidegger, e che vedeva il male come una sorta di epidemia dello spirito, senza consistenza ontologica, persino nel caso del grande organizzatore dell’olocausto Eichmann, con orrore di tanti ebrei nel mondo[13].

In ogni caso la tendenza del panteismo a negare la realtà del male, o a vedere il male come aspetto della divina natura (o della natura divina), a molti cristiani è parso incompatibile con la loro fede, talora più ancora dell’ateismo. Tuttavia il panteismo – sia nella forma antica compresa tra Giordano Bruno e Spinoza (ma per molti latente già in Scoto Eriugena e soprattutto Cusano, e pure nel Bergson dell’Evoluzione creatrice, e per una vita, per la chiesa ufficiale, pure in Teilhard de Chardin), e sia nell’idealismo, e pure nel neoidealismo – secondo molti cattolici o cattolici tradizionali negherebbe la possibilità stessa del male nel mondo, riducendo il male ad un aspetto più o meno necessario nel tutto.

La questione è però complessa per chiunque. Pure la riflessione del cattolicissimo, geniale, Wilhelm Leibniz su Giuda, considerato necessario nel quadro della salvezza, e su Dio che aveva creato “il migliore dei mondi possibili”[14], aveva relativizzato molto il male. L’idealismo, nel suo monismo, pur parlando spesso solo poco o niente su ciò (per reticenza storicamente datata nel XIX secolo e per non urtarsi troppo con la chiesa nel XX), deve vedere bene e male come normativa umana, anche nel senso di troppo umana, anche molto utilmente (essendo poco pensabile come male reale in sé e per sé in un reale infinito, immanente, sempre al di là, o al di qua, del bene e del male). Da ciò s’intende la forte resistenza del teismo contro il panteismo, cui nel cristianesimo si aggiunge pure il fatto che se il male non è né può essere ontologico, Dio non aveva nessun bisogno di incarnarsi, né tanto meno di farsi ammazzare, per redimerci. E siccome il cristianesimo è un “cristocentrismo” la cosa non è priva d’importanza.

Tuttavia il panteismo ha dalla propria parte il suo superare il dualismo, cui oggi in termini logici è quasi infantile credere, e che è infatti affidato a un fideismo sempre più irrazionale: fideismo pur esso possibile, ma razionalmente troppo improbabile, non dico per un intelletto che cerchi la fede come complemento, come in tanta scolastica tomista o neotomista (intellectus quaerens fidem), ma anche semplicemente come una fede che cerchi nell’intelletto una forza ausiliaria (fides quaerens intellectum) come in ogni forma di cristianesimo platonizzante (da Agostino in poi) o anche mistica (ma non mistico-irrazionale). Ormai il dualismo in senso forte, sempre egemone nei monoteismi, sembra poter essere affermato solo contro la ragione: una ragione pretesa, in ambito religioso, impotente e fuorviante, come già in Tertulliano o in Kierkegaard e, talora – con sottilissime argomentazioni di psicologia vissuta – in Dostoevskij.[15] Ma per quanto straordinari siano tali apporti (non ritengo neanche possibile sottovalutare il pensiero di Dostoevskij, ma anche di Kierkegaard specie come critico dell’ottimismo metafisico e dell’hegelismo, e, “anche lui”, come grande psicologo), nell’insieme “mi pare” più persuasiva la tendenza al panteismo, che in ogni idealismo è presente.

Tuttavia, a dispetto di legioni di monoteisti tradizionali, anche colti, la linea tra il panteismo, di cui l’immanentismo idealistico è variante, e il teismo, è molto sottile: il che spiega ad esempio la contiguità e il passaggio di posizione in molti: ad esempio dalla filosofia gentiliana a quella neospiritualistica. Penso ad Armando Carlini, Augusto Guzzo, Michele Sciacca, Sergio Hessen e persino, nelle aperture religiose, a Ugo Spirito.[16]

Del resto c’è pure un quinto approccio: una tendenza filosofica, minoritaria ma significativa, detta panenteismo, che a me pare feconda e sostanzialmente condivisibile. Questo panenteismo consiste nel vedere “il tutto in Dio” (ma in un Dio che noi cogliamo innanzitutto alla prima radice della nostra mente, vero “uno”, e poi nel “tutto”). Il panenteismo ha anche avuto una sua specificità[17], ma credo lo si possa riconoscere anche – e per quel che mi riguarda, soprattutto – in Hegel. A me pare che Hegel – inteso quale egli credo fosse e si sentisse, ossia “romantico e mistico”[18] – risponda abbastanza bene a tutte le aporie del panteismo di cui si è detto, che stanno a cuore a tanti teisti, che vedono nel panteismo non una possibile versione del teismo stesso (come secondo me indubitabilmente è), ma un occulto materialismo, ateo e anticristiano, come disse un famoso opuscolo di Bruno Bauer alle origini della “sinistra hegeliana”[19]. Infatti Hegel ha mostrato, per me e tanti altri (della destra hegeliana e non) che Dio non fu solo “sempre in noi” (Agostino, Lutero), ma “sempre noi”, e quindi pure nel mondo. Hegel ha sì sottovalutato l’irrazionale, l’inconscio, ma non del tutto (e comunque in ciò può pure essere utile integrare la sua visione con quella contigua di Schelling, e soprattutto – credo io, ma pure Silvia Montefoschi – con Jung[20]), ma nell’insieme è stato convincente. Dio è in noi e noi siamo in Lui: siamo due in uno, e il male è la nostra Ombra, la sua Ombra, l’Ombra di Dio, l’Ombra del Sé in noi. Infinità e finitezza sono complementari in noi, e nella realtà, che è umano-cosmica: è sufficiente che la finitezza, nel composto, prevalga – come ogni volta che sbagliamo qualcosa negando in noi stessi l’infinità (e la connessa condivisione), sempre accade (ma sempre per qualche ragione), per veder irrompere il male, che è una sorta di autonegazione dell’infinito, che si stacca dalla propria divino-umanità (se si vuole facendo prevalere l’umano troppo umano, cioè l’animalità, l’Io “empirico” diceva Hegel, entro la sua divino-umanità). Il compito dell’uomo, come “animaledio” è quello d’indiarsi, facendo prevalere in sé stesso e nel suo mondo quanto sia “uno e tutto” (i greci dicevano: Eis kài Pan, e a ciò faceva eco Hegel sin da quando era un collegiale, con Hölderlin e Schelling, a Tubinga). Ma invece di “Uno e Tutto” noi – come il liberalsocialista e neoidealista e neospiritualista Aldo Capitini, credo del tutto a ragione – possiamo dire “uno e tutti” (eis kài pàntes). Infatti dall’uno-tutto in noi scaturisce necessariamente l’interdipendenza, la condivisione, i motivi per comporci l’un l’altro come membri di una grande orchestra, in modo che ne scaturisca una grande sinfonia, come nella Nona di Beethoven, e non le cacofonie, come nell’orchestra internamente frazionata di Prova d’orchestra (1979) del film-apologo di Fellini. Il male è cacofonico, dissonante, divisivo, in ciascuno di noi e tra noi: è l’opposto della fraternité. E ciò ha molte conseguenze, per ciascuno di noi e per tutti noi. La fraternità è la base di tutto, a pari merito solo con la libertà.

di Franco Livorsi

  1. Jung parla. Interviste e incontri, a cura di W, McGuire e R. F. C. Hull, Adelphi, 1995, pp. 519-539. Il riferimento va all’intervista televisiva a John Freeman, per la BBC, del marzo 1959, trasmessa alla TV inglese in ottobre.
  2. La discussione con i teologi verteva soprattutto sul male in Dio, che essi non potevano ammettere e Jung – che partiva dal Sé interiore come dio contratto nella psiche unitaria o “imago Dei”, con i relativi archetipi, sì, come si vede in: C. G. JUNG, Lettere (1906/1961), MAGI, Roma, 2006, tre voll., specie in lettere al teologo amico V. White e a C. E. Scanlan, del 1959-1960. L’interlocuzione con il teologo gesuita Victor White, incentrata sul rapporto tra psiche, Dio e male, si può ora vedere in dettaglio in: Lettere tra Carl Gustav Jung e Victor White, a cura di A. Conrad Lammers e A. Cunningham, con la consulenza di M. Stein, Magi, Roma, 2016. Si confronti, per l’ analisi, in forma di catalogazione ragionata, cui ho accennato, con: F. LIVORSI, Note e riflessioni sulle lettere di Jung, “Rivista di psicologia analitica”, a. LX, n. 30, vol. 82, 2010, pp. 55-72. Ma si veda pure: A. GEMELLI, Psicologia e religione: I. La psicologia analitica di C. G. Jung, Vita e Pensiero, Milano, 1954.
  3. Lo pensavo già quand’ero molto giovane, come nel mio articolo: Ateismo etico storico e problema dei cattolici. “Il Gallo”, Genova, a. XVII, n. 12, 10 dicembre 1963. Allora ritenevo l’ateismo la scelta esistenziale più umanistica, condividendo l’aforisma di Nietzsche “È immorale credere in Dio” (e connettendolo al Marx della religione come “oppio dei popoli”). Da molti anni, specie dal 1979, non lo penso più in nessun modo: sia perché gli indizi del divino – immanente, o prevalentemente immanente, ma reale – mi sono parsi sempre più forti – nel sonno, nella veglia e in base a tante letture, soprattutto di filosofia mistica e di psicologia analitica – e sia perché vedo un nesso tra ateismo e amoralismo (non immoralismo, si badi bene), e non mi sembra un grande “affare” per l’umanità.
  4. A. CAPITINI, Religione aperta. Prefazione di G. Fofi. Introduzione e cura di M. Martini, Laterza, 2011. Si veda ad esempio il cap. terzo, “La morte e i morti”, pp. 21-35.
  5. S. FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), in “Opere”, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp. 123-136. Si veda pure: F. LIVORSI, Inconscio e storia in Freud, “Nuova Antologia”, n. 2175, 1990, pp. 357-373.
  6. J.- P. SARTRE, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), a cura di G. Del Bo, Mondadori, Milano, 1963.
  7. Traggo la visione di Mauriac su Sartre come ateo religioso da F. JEANSON, Sartre, Mondadori, Milano, 1961, p. 174.
  8. D. HUME, Storia naturale della religione (1755), a cura di U. Forti, Laterza, 2007.
  9. Per la dubbia presenza dell’Anima nell’Antico Testamento si veda: H. W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia, 1975. In Catechismo della Chiesa cattolica. Testo integrale e commento teologico, diretto da R. Fisichella, Piemme, Casale Monferrato, 1993, al punto 366, a p. 82, si legge: “La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è “prodotta” dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale.” Per un’interessante, eterodossa ma non troppo, discussione teologicamente aggiornata, si veda il bel libro di V. MANCUSO L’anima e il suo destino, Cortina, Milano, 2007.
  10. V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo, Piemme, Casale Monferrato, 1996.
  11. Si veda: G. W. F. HEGEL, Scienza della logica (1812), tr. e cura di A. Moni e con Introduzione di L. Lugarini, Laterza
  12. C. G. JUNG, Risposta a Giobbe (1952), in “Opere”, vol. 11, cit., pp. 337-457; Bene e Male nella psicologia analitica (1959), ivi, pp. 469-481; H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1984), Il Melangolo, Genova, 1990.
  13. Si vedano le pagine di Sant’AGOSTINO sul male in: Le confessioni (397/398), Introduzione di c. Mohrmann e tr. di C. Vitali, BUR, 2010, al Libro VII, cap. III, IV e V, pp. 182-185. Si veda il libro di H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino (1929), Milano, 1992. Il 6 agosto 1963, in margine ai suoi commenti sul processo Eichmann a Gerusalemme, la filosofa scrisse all’amico studioso di mistica ebraica Gershom Scholem: “ È anzi mia opinione che il male non possa mai essere ‘radicale’, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una ‘sfida al pensiero’, come ho scritto, perché il pensiero vuol andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la ‘banalità’. Solo il bene ha profondità, e può essere radicale.” La lettera è citata in: E. YOUNG-BRUEHL, Hannah Arendt. 1906-1975. Per amore del mondo (1982), Bollati Boringhieri, 1990, p. 419. Il riferimento andava ai suoi resoconti dal processo Eichmann, in cui, attirandosi la deplorazione dell’ebraismo internazionale (cui pure apparteneva), la Arendt sosteneva che quel grande criminale, principale organizzatore della deportazione degli ebrei verso lo sterminio, non era un “mostro”, ma un piccolo burocrate irresponsabile, meritevole di morte, ma niente affatto “diabolico”. Così in: H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, 1964. Sottesa era la visione di Agostino, riletto in chiave esistenziale, della sua tesi di dottorato e primo libro su Sant’Agostino (1929), discussa con il suo maestro e poi amante Heidegger.
  14. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male (1710), a cura di S. Cariati, Bompiani, 2005.
  15. Su Tertulliano e Kierkegaard si è detto. Ma si veda: F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota (1869), Traduzione e cura di G. Pacini, Feltrinelli, 1998, pp. 281-288. Si tratta del dialogo tra Myskin e Rogozin sulla fede.
  16. E. GARIN, Cronache di filosofia italiana (1900-1960), Laterza, 1997.
  17. Il termine panenteismo fu proposto da K. Ch. F. Krause nel 1828. Come ha scritto M. RAVERA alla voce Panenteismo in: FONDAZIONE CENTRO STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE, “Enciclopedia filosofica Bompiani”, Bompiani, 2006, vol. 8, pp. 8252-8253, “la visione di Krause non intende porsi semplicemente come un compromesso o una mediazione fra teismo e panteismo, ma ambisce a una nuova e diversa comprensione del reale che possa rendere ragione a un tempo della trascendenza di Dio e della sua immanenza nel mondo …”.
  18. G. DELLA VOLPE, Le origini e la formazione della dialettica hegeliana. 1. Hegel romantico e mistico. 1793-1800, Le Monnier, Firenze, 1929.
  19. B. BAUER, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo. Un ultimatum (1841), opuscolo pubblicato integralmente in: La sinistra hegeliana. Antologia, a cura di K. Löwith, Laterza, 1966, pp. 67-300.
  20. Si vedano in particolare: S. MONTEFOSCHI, Carl Gustav Jung. Un pensiero in divenire, Garzanti, Milano, 1985; Dialettica dell’inconscio, Feltrinelli, 1980.

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