Filosofia del Socialismo

 

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 2) La liberazione di sé

pubblicato il 31/05/2020

In base alle molte cose dette in proposito sin qui ritengo sufficientemente dimostrata, o quantomeno abbastanza approfonditamente argomentata, la tesi che l’idea dell’infinito (e quindi dell’eterno) sia a priori in noi.[1] Essa è quantomeno l’archetipo del divino, come direbbe la psicologia analitica[2]: un’istanza che nell’ànthropos c’è da sempre, anche nel più arcaico o nel più rozzo: sia che rinvii al divino effettivo; o a un bisogno di “vita beata” al di là della vita concreta anche più moralmente vissuta (come in Kant[3]); e sia che l’archetipo del divino, e della connessa beatitudine, abbia un carattere “soltanto” psicologico, ma non “d’essere” in sé e per sé (cioè non “ontologico”). Se fossimo sicuri che l’istanza sia esclusivamente psicologica, potremmo assumerla come un che di abbastanza relativo, seppure di qualche importanza. Ma siccome un’aspirazione a priori del genere, presente in ciascuno di noi, può essere “difficilmente” senza fondamento alcuno – come la fame se non avessimo la necessità di mangiare – l’ipotesi della realtà in noi di un che di divino, di infinito ed eterno “davvero”, per me va tenuta quantomeno aperta: come un’effettiva “possibilità che sì”, che – pur non potendo mai eliminare la “possibilità che no” – può avere per noi un certo significato esistenziale. In base a ciò ritengo esistenzialmente, e anche logicamente, valido vivere – per usare a rovescio una famosa formulazione di Grozio[4] – “come se Dio esistesse”: cioè come se il senso dell’infinito e dell’eterno, e il connesso bisogno di vita beata, fossero un che di reale. Pensarlo non è irragionevole; è psicologicamente conforme a un’istanza d’infinità in noi a priori, e potrebbe anche rinviare a un’infinità oggettiva oltre che soggettiva. Per ragioni benissimo espresse dall’idealismo romantico già richiamato, con particolare riferimento a Schelling e Hegel.

In ogni caso, anche “soltanto” considerando la religiosità come un’istanza psicologica a priori e imprescindibile, cioè come un archetipo, la cosa sta a significare che già nella nostra interiorità più profonda c’è molto da fare. Se l’istanza del divino, o dell’infinito che dir si voglia, è in essa presente a priori, la psiche in quanto tale, infatti, è quasi l’opposto di una “tabula rasa”, ossia di una lavagna in cui non ci sia scritto niente di niente. Se c’è “il senso del divino”, o dell’infinito, è l’opposto del niente psichico (il che è già un antidoto – da non buttar via – al mero nichilismo). E ciò conferma subito quanto Dostoevskij – memore della propria prigionia in Siberia – faceva dire nell’Idiota (1869) a Myskin: che “anche nell’oscurità di una prigione si può trovare una vita immensa”[5]. Non solo: questo sta a significare che il cercare innanzitutto fuori di noi una felicità che può essere in primo luogo – anche se non esclusivamente – trovata, o non trovata, in noi, è insensato. La cercheremo certamente anche fuori di noi, ma in primo e imprescindibile luogo in noi stessi, nella nostra vita intima e personale, in cui dobbiamo far valere innanzitutto, anche se niente affatto esclusivamente, la nostra “nobilitade”.

Questa conclusione porta a introiettare, almeno in parte, quanto è stato ampiamente esteriorizzato a livello storico sociale. La posizione che propongo di superare è ampiamente presente in aree politico-teoriche anche tra loro diverse e opposte. Tanta parte del liberalismo sociale, del cattolicesimo sociale, del fascismo e naturalmente anche del socialismo e comunismo ha cercato “fuori di noi” la soluzione dei problemi intimi e individuali: come se la vita intima, spirituale e personale, fosse – o sia – solo una conseguenza d’altro: mentre ne è il fondamento imprescindibile. Questo è stato affermato con particolare forza da visioni le quali, come i diversi tipi di materialismo, credono che nell’interiorità in quanto tale non ci sia, in sé e per sé, qualcosa che vale; che l’interiorità sia un che di assurdamente separato, da superare stando “con gli altri” e “tra gli altri” dalla culla alla tomba. In tali ambiti, che pretendono di risolvere il singolo in quanto singolo tutto in ambito storico sociale, si dà non solo una “fuga dalla realtà”, ma quella che io direi proprio una “fuga nella realtà”. Come se uno potesse essere un fesso nel suo pensato-vissuto privato, e realizzarsi solo nella “vita sociale”. Per contro anche la vita più intima e personale ha, intrinsecamente, un valore immenso. La nostra liberazione dipende certo dall’esistenza sociale, ma se abbiamo una vita intima e personale vuota, o disastrata, credere che la riscatteremo tra gli altri è quasi sempre un’illusione.

L’attesa redentiva “dall’esterno” è un tratto molto forte del marxismo, per il quale non è la coscienza a determinare l’essere sociale, ma l’essere sociale a determinare la coscienza[6]. Questo è forse il suo primo postulato e la quintessenza del suo storico materialismo. Invece, per un bel tratto di strada, solo la coscienza può liberare sé stessa, anche se solo parzialmente. L’efficace canzonatura dell’approccio che demanda a non si sa quale salvazione fuori di noi quello che invece si può fare solo individualmente, si trova nel dramma teatrale di Peter Weiss La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat (1964), laddove si legge: “Così è Marat / questa per loro è la rivoluzione / Hanno male a un dente / e dovrebbero farselo strappare / Gli è bruciata la zuppa / e rabbiosi esigono una zuppa migliore / Questa trova il marito troppo corto / e ne vorrebbe uno più lungo / Quell’altro ha le scarpe strette / il suo vicino le ha più comode / Un poeta non trova le sue rime / disperato cerca idee nuove / Da ore e ore un pescatore attende con una lenza in acqua / perché non abbocca mai un pesce / E così eccoli tutti dalla Rivoluzione / credono che la Rivoluzione darà loro tutto / il pesce / la scarpa / la poesia / il nuovo marito / la nuova moglie / e assalgono qualsiasi fortezza / e poi eccoli lì / e tutto resta come prima / la zuppa bruciata / i versi zoppicanti / il compagno nel letto / fetido e consunto / e tutto il nostro eroismo / che ci ha portato fin giù nella cloaca / possiamo anche attaccarcelo al cappello / se ancora ne possediamo uno.”[7]

Questa “logica” prospettica, che affida a un “deus ex machina” – si chiami Rivoluzione o Riforma, o Stato assistenziale (o anche “Dio”, sia chiaro) – la risoluzione dei grandi problemi dei soggetti, si trova nel marxismo anche migliore, come se la liberazione potesse venire solo al di fuori dalla vita del singolo in quanto singolo: mentre invece la vita collettiva può e deve essere il coronamento, ma non il fondamento, della liberazione di sé. Eppure in questa trappola cadono anche i migliori (e per un quarto di secolo buono ci caddi pure io). Si sa che uno dei pensatori più interessanti del marxismo contemporaneo, Ernst Bloch, ha scritto una grande opera intitolata Il principio speranza (1959). Questa veniva quarant’anni dopo il libro che aveva reso Bloch famoso: Spirito dell’utopia (1918/1923). La felicità incondizionata per questo filosofo è un bisogno a priori in noi. Egli ne riconosceva il carattere antropologico, in modo identico a Jung (che pure considerava un reazionario, nel clima politico del proprio tempo). Tuttavia Bloch tendeva a vedere l’istanza – coscientemente religiosa, anche se era ateo (un “ateo religioso”[8]) – proiettata nel futuro, chiamato a realizzare il sogno antropologico redentivo, anche tra le contraddizioni della storia. E forse ciò era coerente col suo ateismo, perché se diciamo in partenza che l’infinito in noi è un’istanza, ma non una realtà, la sola cosa che possiamo fare è cercare di realizzare “l’istanza di liberazione a priori” nella storia “a venire”, illuminandola con la nostra suprema speranza di liberazione umana: sia che questa “speranza redentiva” sia un’utopia da fare e fattibile, o un ideale di perfezione cui avvicinarsi (sul che, anche in riferimento a Bloch, si può discutere). L’aspirazione antropologica a una vita infinita, o beata, in Bloch, insomma, guardava al futuro. Invece io credo che se si assume la realtà possibile dell’infinito in noi (come a mio parere – lo si è visto – faceva Hegel), questo nel profondo di noi comporti pure la possibilità di una vita valida intrinsecamente.

Affermo ciò pur ritenendo che l’infinità, l’eternità e la beatitudine, o anche l’infinito amore come una sorta di latenza già in noi, per realizzarsi “pienamente” richiedano il “fuori di noi”, cioè una forte relazione con gli altri, con la società, con lo Stato e con gli Stati. E ciò in quanto se l’infinito, almeno psicologico, è già in noi, “gli altri” vi sono – addirittura logicamente, nonché esistenzialmente – compresi: per cui ad esempio pensare che l’amore possa vivere nella mia mente e non anche fuori di me (proprio per me), significa già non cogliere l’infinità interiore (che se è infinita, o infinitizzante, è intersoggettiva), o, nella migliore delle ipotesi, significa scambiare l’amore, che è sempre rivolto ad altri, con l’onanismo. Del resto il legame con gli altri viene pure dal fatto che abbiamo una vita di relazione non solo perché ci sono persone che sentiamo veramente come carne della nostra carne e sangue del nostro sangue, e davvero intime, ma anche per la semplice ragione che in genere dobbiamo “andare a lavorare”, e i problemi del nostro lavoro non possiamo risolverli da soli, ma solo con tutti gli altri (con i nostri “compagni”).

Ma con ciò non possiamo passare all’estremo opposto, ossia a un amore del prossimo che passi attraverso la negazione, o crocifissione psicologica, di noi stessi (invece di porre, anzi, la realizzazione di noi stessi come obiettivo non certo unico, ma naturalmente primario). Per me vivere per gli altri invece che per noi stessi significherebbe passare dal narcisismo (dell’amor proprio) al masochismo (che nega la propria individualità). Anche se dire e pensare quanto ho appena detto potrebbe non essere “veramente” cristiano, comportando una certa resistenza a “prendere la nostra croce” a imitazione del Cristo (ma tant’è – come diceva una famosa rubrica giornalistica – “io la penso così”, e se a qualcuno non piace non so che farci: il mio “retto giudizio” per ora arriva sin qui). Non possiamo insomma passare dalla necessità di alcuni altri, o di molti altri, o di tutti gli altri, per la nostra “piena” liberazione, all’idea che noi siamo solo “relazione” con altri (opponendo l’essere “persona” all’essere “singoli”). Noi non siamo solo l’individuo, “il singolo” (come pure l’avrebbe detto, del tutto positivamente, il cristianissimo Kierkegaard[9]), ma siamo anche, e soprattutto, “il singolo”. Hegel per me era un grandissimo filosofo, forse il più grande dopo Platone, ma sul carattere decisivo del singolo va corretto tramite Kierkegaard e l’esistenzialismo. Per natura sono senziente e prima di tutto raziocinante, sono cittadino e produttore, sono artista o religioso o filosofo (come diceva Hegel, e anche Marx), ma sono comunque prima di tutto “me stesso”. Anche Jung, dopo Kierkegaard e l’esistenzialismo, su ciò ha detto cose fondamentali.[10]

A questo punto dobbiamo ricordarci che noi siamo esseri psicosomatici. (Per me ogni vivente è anche psichico, pure una zanzara: ma lo siamo tanto più noi esseri umani, che abbiamo una psiche evolutasi dal puro inconscio, che pure è anche in noi, sino all’autocoscienza).

Per ragioni di metodo dobbiamo fingere che psiche e “soma”, ossia la cosiddetta anima (psyché) e il cosiddetto corpo (soma), siano distinguibili, benché la nostra sia una divisione funzionale perché essendo i due, in vita o in assoluto, un tutt’uno, non c’è niente che possa far bene al “corpo”, ma non all’”anima”, e viceversa. Ciò posto dobbiamo agire per il meglio del “corpo” e dell’”anima”.

Questa posizione, partendo “in prima battuta” dal “corpo”, ha molte conseguenze. La cura del corpo, che è sempre anche corpo della “psiche”, fa sì che la grande salute sia una necessità dell’anima (oltre che del corpo). Perciò ad esempio qualunque forma di ascetismo esagerato è deplorevole. Io comincerei col dire che se il corpo non è “al meglio”, evitare la nevrosi è quasi impossibile. Se uno è nevrotico intanto penserà soprattutto al proprio male (con l’egoismo di chi ha mal di denti o un acuto dolore che non passi quasi mai): atteggiamento che non può essere empatico perché è costretto ad essere autocentrato, per cui anche se il sofferente si senta il più amorevole col prossimo, o il più pronto a morire per la sua causa (quale essa sia), sotto sotto il suo male sarà troppo ingombrante per consentirglielo davvero. Non dico sempre, ma almeno nel 999 per 1000 dei casi.

Perciò dubito molto del valore di qualunque macerazione del corpo. Gli asceti che vivevano sulla cima di una colonna o sempre nel deserto, o quelli che abbiano indossato un cilicio, o si siano flagellati, per me hanno sempre avuto alte probabilità di farsi del male, con raffinato masochismo, e di farne ad altri, a causa della testa “storta”: senza costrutto. Un ascetismo per periodi brevi può pure essere funzionale, come quello del pellirossa che per giorni e giorni viveva in solitudine tra i monti o nella foresta senza mangiare e continuando a invocare il suo dio, in attesa di una visione o voce del suo Grande Spirito che rispondesse a un interrogativo esistenziale – ad esempio relativo ad una scelta di vita importante da fare – per lui decisivo; o Gesù stesso nel deserto a digiuno “per quaranta giorni”. Ma in tali casi il sacrificio, come lo stesso ramadàn dei musulmani, è temporaneo: non è un modo di vivere, bensì un momento di passaggio. Ma nel mio vitalismo non sarei sicuro neanche di ciò, perché a mio parere non siamo nati per soffrire, anche se può capitare, e anzi capita sempre (senza necessità che noi lo facciamo “apposta”).

Sul sacrificio di sé da vedere cum grano salis nella storia delle religioni ci sono esempi sommamente interessanti, come ad esempio quello di Siddharta (nel VI secolo a.C.), che per un lungo periodo era stato tra asceti che non mangiavano e bevevano per lunghi periodi per ricevere l’illuminazione. A un certo punto, con loro sdegno, Siddharta smise l’ascetismo e poi acquisì la piena realizzazione di sé, “l’illuminazione” o moksa, che subito dopo andò ad esporre a Benares in un famoso discorso.[11] La via indicata era quella della moderazione (mediana) e non della macerazione di sé (né tantomeno quella della “croce”).

La cosa fu ancora più netta in Gesù, il cui primo miracolo – oggetto di uno dei momenti più alti del Mistero buffo di Dario Fo – fu quello della trasformazione dell’acqua in vino, e che era accusato di amare la buona tavola e vino, sia pure ingiustamente[12]. L’idea del far soffrire il corpo per educare l’anima non mi ha persuaso e non mi persuade, e mi tornano sempre alla mente le parole che Nietzsche mette in bocca al suo “Zarathustra”, anche se oggi respingo il nesso che lì poneva tra rifiuto dell’ascetismo e morte di Dio: “Un tempo l’anima guardava con disprezzo al corpo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: essa voleva che fosse la cosa più alta: essa voleva che fosse magro, affamato, orribile. Così pensava di sfuggire a lui e alla terra.”[13] Per fortuna però non tutto il cristianesimo faceva come diceva “Zarathustra”, né tantomeno il giudaismo, humus del cristianesimo originario. Noi sappiamo che l’Antico Testamento conteneva un’intera parte che è erotismo allo stato puro, anche se per secoli si provò a leggere in chiave mistico ascetica, di amore dell’anima per Dio, anche quel capitolo grandiosamente erotico e quasi dionisiaco (il Cantico dei cantici). Del resto, in riferimento al Cristo, già si è detto. E mi pare che nessuno abbia sinora notato che Nietzsche stesso, mentre veniva scrivendo la Nascita della tragedia (1872), in un frammento postumo ebbe a definire “dionisiaco” il Vangelo secondo Giovanni.[14]

Ma è soprattutto lo Yoga a farci capire meglio di tutto quanto un corpo armonico sia fondamentale per l’anima. Lo Yoga vuol dire “unione”, e l’unione cui si mira è quella col divino, in noi e al di là di noi. Ma la base, per potersi poi avviare verso il misticismo contemplativo, in cui la mente s’immergerebbe in Dio o nell’Anima del mondo, a partire dal frammento di “Lui” (o “Lei”) che è in noi, è lo Yoga della buona salute, l’Hatha Yoga, in cui il corpo è domato e rafforzato in sommo grado, in tutti gli aspetti e funzioni.[15]

Un corpo sano, forte e sciolto è fondamentale per tutto il resto. Su ciò oggi nel “nostro” Occidente si è andati avanti. Oggi chiunque apprende a nuotare dalla più tenera età. E si va in palestra (anche se si rischia l’opposto dell’ascetismo, ossia un culto quasi pagano della corporeità, che comunque è un buon valore). Anche il non capire quanto la nicotina o le droghe di qualunque genere o gli alcoolici e soprattutto superalcoolici siano nocivi, fa un gran male anche allo spirito, che non si può salvare, o che è molto più difficile salvare, in un corpo malato. Naturalmente vale pure per tutto ciò che induca bulimia o anoressia.

Il corpo, anche se siamo un tutt’uno con esso, è il nostro violino, e pretendere di poterlo suonare bene rovinandolo è insania. Una parte non piccola della “vita agra” dipende dall’aver trascurato o rovinato lo strumento. Persino il successo scolastico, lavorativo, e nella vita di relazione, ha molto a che fare con ciò.

Naturalmente uno potrebbe chiedersi che vita sia una vita senza tali cose più o meno nocive, ma in realtà l’obiezione trascura il senso di benessere che deriva dalla fruizione della grande salute (o persino da un miglioramento quando non vi sia). Inoltre tutto ciò ha da essere solo una precondizione per ben altro, come sa appunto lo Yoga. La nostra vera vita va ben oltre, ma si può costruire solo su quella solida base fisica, e sin dalla più tenera età. La grande salute va cercata per tutti, dal concepimento in poi. Con buona pace dei nemici dell’aborto “in tutti i casi” che non mettano in discussione la vita della madre.

Ma la salute fisica è solo una precondizione, come la cura dello strumento, che però in noi non è tale, ma nostra identità somatica, che è anche psichica.

Sul lato spirituale della nostra vita c’è una parte del pensiero di Hegel che è stata troppo frettolosamente messa da parte. E il rifiuto, in area “rivoluzionaria”, è durato dalla sinistra hegeliana (pochi anni dopo la morte di Hegel, avvenuta nel 1831) alla Scuola di Francoforte di Adorno e altri, giunta sino a noi (“scuola” che pure ha sempre apprezzato molto questo filosofo). Questa parte invece per me è “il meglio” del suo pensiero. Il riferimento va a quello che egli chiamava “Spirito assoluto”. Com’è noto Hegel, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1816/1830), chiamava “Spirito soggettivo” la mente nei suoi vari livelli, dai più sensoriali ai più razionali, che per lui nell’uomo integrano anche i primi; “Spirito oggettivo” la mente che si realizza nella vita collettiva, nella famiglia, società (mondo del lavoro, economia) e infine Stato, di solito visto come il culmine del processo; e appunto “Spirito assoluto”: la vita dello Spirito allo stato puro, che quasi autocontempla la propria infinità in presa diretta, che noi oggi diremmo autoreferenziale: uno “Spirito assoluto” che si manifesterebbe nell’arte, nella religione e nella filosofia, ossia nell’infinità sentita “soggettivamente”, tanto da chi faccia che da chi fruisca l’arte a fondo; nella religione, che vede l’infinito “oggettivamente”, come proiettato in un essere a sé; e nella filosofia, che unendo tutto, vede l’infinito tanto sensibilmente quanto concettualmente[16]. Ora io direi “Psicologia” oltre e forse insieme a “Filosofia”, perché il nostro è più un oscillare tra piano soggettivo e oggettivo – però “al tempo stesso”, in presa diretta – piuttosto che vera fusione tra soggettività e oggettività.

Tutto ciò, però, è molto più concreto di quanto appaia. Hillman ad esempio, a proposito di questa “vita nell’infinito” che Hegel chiama “Spirito assoluto” (o meglio del suo equivalente, che per Hillman è l’Anima come primo archetipo), parla di un “nutrire l’anima”. Non è solo il nostro corpo a dover essere nutrito, ma anche l’anima (ricordo sempre che separo questi piani solo per “modo di dire”). Abbiamo bisogno non solo di un vago discorrere di una vita infinita, ma appunto di percepirla (dando alla percezione tutta l’intensità teorica che Merleau-Ponty, sulla scorta vuoi di Husserl e vuoi della psicologia della forma, dava al percepire antropologico[17] ). E l’arte è un primo modo di percepire la vita infinita, attivamente (facendola) o anche passivamente (fruendone), dalle forme più primordiali, come il canto o la danza o il disegno o pittura alle più elaborate. Ad esempio io credo che la musica abbia spesso lo straordinario potere di farci percepire, in mille sue composizioni (non solo apertamente religiose), il sapore e addirittura la realtà dell’infinito. Al proposito la Nona di Beethoven mi sembra un’ottima dimostrazione, ove uno s’immerga in essa, dell’esistenza dell’infinito in noi (molto di più di qualsiasi libro di Schelling o Hegel, tanto per restare in tema). Ma naturalmente vale pure per la vita religiosa, sia che si esprima nella preghiera (su cui chi non creda nel carattere o trascendente o prevalentemente trascendente del divino, ma lo ritenga esclusivamente o prevalentemente immanente, ha ovvie resistenze), o sia che si esprima nella meditazione, come in tutte le forme di Yoga, induistiche o buddhistiche o anche cristiane (che trovo fondamentali). Considero anche la psicologia analitica anche come lo Yoga scoperto in Occidente (il nostro Patanjali, venuto ventidue secoli dopo, è Jung), nel senso che lo svelamento – anche solo visto nel suo lampeggiare – dell’archetipo del Sé – cioè dell’infinito in forma individualizzata in ciascuno di noi – è la stella polare della trasformazione di sé. Già solo approssimandoci al nostro Sé più intimo otteniamo, entro di noi, “qualcosa che vale”.

Tutto ciò mi pare il fondamento. Ma non possiamo, e neppure ci è dato, fermarci qui, benché sia già moltissimo. Infatti non viviamo come in una leibniziana monade, unità spirituale assoluta, “senza porte e senza finestre”[18], ma tra gli altri. Già ho detto che se siamo infinitizzanti gli altri sono in noi, tutti parte di noi stessi, “come noi stessi”, e “per ciò” fraterni nell’essere (se non amati quantomeno amabili, o “da amare” quanto riusciamo, in una misura che non basta mai). Ma poi c’è appunto quel che Hegel chiamava “Spirito oggettivo”: abbiamo legami fondati sull’amore (lui diceva che ciò fonda la “famiglia”, ma oggi vale per l’eros rivolto ad ogni essere umano che sentiamo indispensabile o quasi accanto a noi); e andiamo a lavorare (società civile), e partecipiamo alla vita dello Stato, e per tali ragioni siamo nella Storia. E questo non possiamo farlo prevalentemente tramite un’attività mentale pura (Spirito assoluto, che coglie l’infinito per così dire in presa diretta), ma solo in mezzo agli altri, cioè con una vita engagée, non solo per campare bene noi, ma per campare meglio che possiamo noi insieme a tutti gli altri. Ma questo è un punto ulteriore su cui si dovrà tornare.

di Franco Livorsi

  1. Si veda qui, su “Città Futura on line”: F. LIVORSI, Io e Dio da Cartesio a Kant (6 aprile 2020); Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e Schelling (14 aprile 2020); Il Logos in cammino nell’Idealismo di Hegel (22 maggio 2020); Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 1) Idealismo “religioso” (1° maggio 2020, 10 maggio 2020, 18 maggio 2020).
  2. C. G. JUNG, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1947/1954), “Opere”, Bollati Boringhieri, 1976, vol. 8, PP. 177-251; La psicologia della traslazione illustrata con l’ausilio di una serie di immagini alchemiche (1946), ivi, 1982, vol. 16, pp. 173-341; Introduzione all’inconscio (1959, ma postumo, 1964), in: AA.VV, L’uomo e i suoi simboli, a cura di C. G. Jung, Casini, Firenze, 1967, pp. 18-104.
  3. I. KANT, Critica della ragion pratica (1788), a cura di F. Capra, riveduto da E. Garin, Laterza, Bari, 1955. L’uomo, con la sola ragione operativa, liberatasi dagli impulsi sensibili, sarebbe capace di vivere per ogni altro e per tutti gli altri (“virtù”, il “bene più alto”), ma per giungere a una felicità altrettanto perfetta (“sommo bene”), dovrebbe andare al di là di questa vita.
  4. U. GROZIO, Prolegomeni al “De jure belli ac pacis” (1625), traduzione e note di S. Catalano, Introduzione di E. Di Carlo. Il pensatore, fervente calvinista olandese, diceva di voler illustrare principi di diritto universale validi per la loro intrinseca razionalità, “anche se Dio non esistesse”.
  5. F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota (1869), tr. e cura di G. Pacini, Feltrinelli, 1998, p. 93.
  6. L’esposizione più chiara e profonda di tale tesi, maturata in Marx sin dal 1845, è in: K. MARX, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Editori riuniti, 1959.
  7. P. WEISS, La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese di Sade (1964), Einaudi, Torino, 1967, pp. 75-76.
  8. E. BLOCH, Spirito dell’utopia (1918, 1923, 1964), a cura di F. Coppellotti e V. Bertolino, Sansoni, Firenze, 1980; Il principio speranza (1954/1959), Introduzione di R. Bodei, Feltrinelli, Milano, 2005; Ateismo nel cristianesimo (1968), a cura di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano, 1970.
  9. S. KIERKEGAARD, Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes de Silentio (1943), Comunità, Milano, 1983. Il motivo del “singolo” attraversa tutta l’opera del filosofo danese, ma ivi in modo particolarmente perspicuo.
  10. C. G. JUNG, Il significato della psicologia per i tempi moderni (1933), in “Opere”, vol. 10/1, cit., 1985, pp. 211-224 e specie p. 217.
  11. Si veda soprattutto: THICH NHAT HANH, Vita di Siddharta il Buddha (1991), Ubaldini, Roma, 1992, pp. 72-77.
  12. Per il riferimento a Dario FO si vedano: Mistero buffo: giullare popolare (1969/1974), edizione integrale, Einaudi, Torino, 2014; da confrontare con la versione con audio e video, Gruppo Editoriale L’espresso, Roma, 2016. Per gli altri riferimenti evangelici si veda: GIOVANNI, 2,1; LUCA, 5,27; MATTEO, 11, 16-19.
  13. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883/1886), tr. di L. Scalero, Lomganesi, Milano, 1979, p. 37.
  14. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi. Vol, primo. Autunno 1869-Aprile 1871, a cura di . Carpitella e F. Gerratana, tr. di G. Colli e C. Colli Staude, Nuova ed. a cura di G. Campioni, Adelphi, 1989 e 2004 al punto 7 (13), p. 179, scrive: “Il Vangelo di Giovanni è nato nell’atmosfera greca, dal terreno dionisiaco: suo influsso sul cristianesimo, in antitesi all’elemento ebraico.” Il cenno all’”elemento ebraico” non è valutativo. Si veda dello stesso: Nascita della tragedia, ivi, 1971.
  15. L’opera per me fondamentale per comprendere tali cose è: I. K. TAIMNI, La scienza dello Yoga. Commento agli yogasutra di Patanjali alla luce del pensiero moderno (1958, ma 1961), Ubaldini, 1970. Patanjali, autore del maggior testo dello Yoga, scrisse in India nel 200 circa a.C.
  16. L’opera fu tradotta da Benedetto Croce per la Laterza di Bari nel 1907.
  17. M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione (1940), a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano, 1965.
  18. W. LEIBNIZ, Monadologia. Principi razionali della natura e della grazia (1714), a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano, 2001.

 

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