Filosofia del Socialismo

 

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 3) Cooperazione

pubblicato il 21/06/2020

Ho già avuto modo di spiegare che una delle conseguenze fondamentali dell’idea che l’infinito, o il divino, sia un a priori in noi – persino nel caso in cui sia solo una realtà psicologica – è il riconoscimento del fatto che “gli altri” fanno parte della nostra interiorità più profonda: sono già in noi, come un “altro interiore”, e “quindi” tutti nostri “fratelli” (come noi). Possiamo anche negarli, ma la negazione diventa subito un’autonegazione. E infatti una parte notevole della problematica dei grandi romanzi di Dostoevskij, da Delitto e castigo (1866) a I fratelli Karamazov (1878/1880), tematizza in modo profondo proprio questo fatto: l’altro ci è totalmente intimo, si tratti pura di una vecchia strozzina, o di un padre assolutamente indegno. E se neghiamo radicalmente “l’altro” per scelta, faremo molto male non solo a lui, ma a noi stessi, sino ad annientarci o rovinarci. Ne ricaveremo comunque frutti marci[1]. La questione è complessa, anche nella vita collettiva, ma lì c’è un fondamento forte. Questo punto decisivo ha molte conseguenze. La prima conseguenza è il senso di un’insopprimibile fratellanza ontologica, d’essere (o almeno antropologica, psico-antropologica), che dovremmo preservare in noi come un valore fortissimo, qualunque cosa accada e nei confronti di chiunque. Solo in una difesa estrema possiamo dimenticarcene, se la pensiamo così, ma non appena ci sia dato farlo la fraternité deve tornare.

Tuttavia questa fraternité nel mondo contemporaneo ha avuto una sorte tutto sommato triste. Era, notoriamente, uno dei tre valori forti della Rivoluzione francese del 1789 (liberté égalité fraternité), ma fu presto lasciata cadere, in una nuova società modernamente capitalistica, finalmente senza più privilegi di casta né corporazioni, ma sempre più basata sulla corsa all’arricchimento personale nel “libero” mercato. Si affermava pure l’égalité formale, ma come valore fortissimo solo di fronte alla legge. Tuttavia di fraternité ce n’era e sarebbe stata pochissima.

Tuttavia la fraternité è rimasta sempre in campo, anche perché dai Vangeli ai giorni nostri è stata un punto chiave del cristianesimo, sol che si pensi all’idea dell’amore del prossimo, ma anche, e ancor più, a quella dell’essere tutti figli dello stesso Padre (e Madre). Ma il cristianesimo ha perso via via terreno dall’Illuminismo in poi, cioè negli ultimi tre secoli, pur essendo rimasto una tendenza rilevante anche nel mondo contemporaneo (però spesso come forza di complemento “d’altro”, che di “cristiano” aveva e soprattutto ha poco o niente).

Al di fuori del cristianesimo la fratellanza ha avuto appunto poca fortuna. Tra chi l’ha sostenuta, dal 1789 in poi – ossia nell’età che diciamo contemporanea – mi viene in mente Robespierre, per quanto tanto criticato per via del Terrore: un Robespierre che comunque mirava ad un assetto in cui tutti i cittadini fossero affratellati, per così dire costretti alla “virtù”: virtù del cittadino teorizzata anteriormente, nell’Illuminismo, da Montesquieu, come “spirito” necessario della Repubblica[2]: in modo – per Robespierre – che non ci fossero più classi, ma solo diversità di mestiere o professione nella nazione, ossia che non ci fossero cittadini né troppo ricchi né troppo poveri. Robespierre, che era anche fautore di una nuova religiosità del cittadino (e della Natura), puntava ad elevare i proletari senza espropriare i ricchi[3]. Marx e Engels, convinti dell’antagonismo irriducibile delle classi, nella Sacra famiglia (1844) diranno illusoria tale sua posizione, e anzi vedranno in essa una delle ragioni fondamentali dello scacco dei giacobini.[4]

Una posizione tutta incentrata sulla fratellanza è stata, più oltre, quella di Giuseppe Mazzini. Questi, secondo me, è stato sottovalutato nella storia del pensiero politico, e anche morale e religioso, mentre ha avuto non solo una vita da rivoluzionario di prim’ordine, per tanti anni cruccio di Metternich e dell’Austria, ma pure una visione neo-religiosa e morale, e politico-sociale, notevole. In certo modo ha avuto poco spazio perché è stato schiacciato tra il trionfante liberalismo, a lungo individualista (oggi diremmo prevalentemente liberista) di Cavour e della ulteriore Destra storica, e il socialismo rivoluzionario di Marx e dei suoi continuatori (basato sul forte antagonismo tra le classi). Tanto il liberalismo quanto il socialismo sacrificavano la fratellanza sociale, che era invece fondamentale per Mazzini, il quale mirava ad una Repubblica democratica, con suffragio universale e divisione dei poteri, di cittadini affratellati, nel quadro di una forte collaborazione volontaria tra le classi, di cui l’ideale del cooperativismo avrebbe dovuto essere massima espressione.[5] Quest’ideale nei primi decenni dopo l’Unità in Italia ha avuto molto a che fare con la nascita delle Società Operaie di Mutuo Soccorso, poi evolutesi in senso socialista (e dopo il 1945 anche comunista).

Nel pensiero sociale del XX secolo la fratellanza è stata un valore forte – a parte il solito cristianesimo, anche democratico e sociale – più che altro in Gandhi, che v’innestò persino una visione di rivoluzione non violenta, che mirava a imporsi col coraggio della non resistenza al male (ma senza piegarsi ad esso accettandolo) e con la forza travolgente dell’esempio, e tramite piccole comunità o ashram di lavoro comune e di totale fratellanza: inducendo il nemico a conciliarsi e, ove possibile, a diventare amico. Riuscì a dare un contributo di prim’ordine alla conquista dell’indipendenza dell’India dagli inglesi. Ma quella posizione, ripresa in Italia dal liberalsocialista neo-religioso Aldo Capitini, tra i protagonisti del Partito d’Azione, e che non a caso si rifaceva pure a Mazzini[6], era ed è troppo lontana dall’approccio prevalente nella Storia, e perciò per ora è rimasta, in Occidente, molto minoritaria. Purtroppo.

Quando Marx e Engels nel 1846-1847 s’inserirono nella piccola setta internazionale di veri proletari, prevalentemente di lingua tedesca, presenti anche in diverse nazioni come Francia e Belgio, chiamata “Lega dei giusti”, e ben presto “Lega dei comunisti”, il motto della Lega era: “Tutti gli uomini sono fratelli”. Marx disse, con fine ironia ebraica, che c’erano tanti uomini di cui non avrebbe mai voluto essere “fratello”, e il motto fu cambiato in quello ben noto, che campeggia a partire dal Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848: “Proletari di tutto il mondo, unitevi”.[7] Era l’affermazione di una visione grandiosamente giustizialista a livello sociale, ma anche totalmente polemologica, di guerra, che spostava l’idea della guerra come condizione normale nel rapporto tra gli Stati a livello della società civile (e del singolo Stato), in cui le classi si scontrerebbero perpetuamente (lotta di classe), ora in modo pacifico e ora violento, ma sempre come forze nemiche, per ottenere ricchezza e potere: il che lungi dal far male al mondo lo farebbe progredire, in una successione di ex classi oppresse poi vittoriose, culminata nella borghesia imprenditrice, che sarebbe poi sostituita dal proletariato, in vista di una “prossima” società senza classi e “quindi” senza Stato. In tal caso l’istanza dell’uguaglianza sociale balza al primo posto, a scapito della fratellanza. Questa pare incompatibile, almeno tra classi, con la perenne lotta tra le classi, finché non sarà arrivata nel mondo la società senza classi e senza Stato (che, a dir la verità, non è mai stata dietro l’angolo).

La visione basata sulla fratellanza ha sempre una matrice religiosa (in Occidente “cristica”). Infatti solo se l’infinito, il “divino”, è già in noi, possiamo essere e sentirci fratelli; e se no, no. E in effetti il concepire la storia persino sociale come un campo di battaglia tra le classi nell’economia o società civile (e Stato), cioè come una sorta di latente o aperta guerra civile continua o potenziale, postulava l’ateismo (la religione come “oppio dei popoli”, come detto da Marx nel 1844), e poi per sempre nel marxismo. Postulava e postula, insomma, proprio l’opposto della fratellanza. Tanto più che dal 1845 Marx rifiutava anche la nozione di Feuerbach dell’uomo che in sé stesso è prima di tutto specie (ancor viva nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844[8]), e si persuadeva del fatto che “tutto” si muta a seconda del contesto storico sociale, che formerebbe la coscienza della grandissima parte delle persone in base agli interessi sociali e di potere che si confrontino in un determinato momento storico; quelli che prevalgono, prevarrebbero pure nelle coscienze individuali. Per Marx dal 1845 non c’era più, insomma, una natura umana in qualche modo perenne, ma solo rapporti economico-sociale mutevoli, certo sempre profondamente umani, che cambiano di continuo l’essere umano (modellato dall’interno dal sistema sociale dominante). Così nuovi rapporti sociali, ad esempio di tipo collettivista, renderebbero collettivista l’uomo anche nell’intimo. Com’è pure accaduto e accade in un quadro “di classe” opposto, come nella società capitalistica.[9] Così pensavano Marx e il marxismo.

In ogni caso, togliendo Dio, o la stessa idea di un’infinità immanente nello spirito umano, e persino di universalità umana non riducibile alla storia, la relazione tra parti opposte diventava priva di una sorta di ammortizzatore interiore dei conflitti, o di armonia prestabilita o forza sintetizzatrice a monte, o di umanità che viva in ciascuno di noi, ma anche in chiunque altro (che in ultima istanza è come noi). Nella pura contingenza degli enti, che non avendo niente di universale possono essere altruisti od egoisti semplicemente per l’impulso storico sociale che li fa essere in un modo o nell’altro, in caso di contrasto il nemico diventa solo nemico, e non un fratello separato. E l’antitesi diventa la chiave di volta del divenire. E infatti la Rivoluzione diventa il soggetto della Storia, come si è visto in Marx, specie in pagine famose del 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852) e nel poscritto del 1873 alla seconda edizione del primo libro del Capitale.[10] In sostanza per molta gente, non solo per il marxismo, la visione dell’avversario come nemico diventa normale. Questa è una delle tante ragioni in cui, in un mondo in cui “tutto è relativo”, quasi nichilista, come l’Italia d’oggi, la faziosità regna sovrana, anche senza idee forti che l’alimentino. Più l’idea di un’universalità che ci accomuna viene a cadere, più la negazione dell’altro può farsi illimitata, persino quando i motivi per averla siano poco seri, ossia di mero gioco per il potere o per la ricchezza.

Tuttavia, tenendo conto del fatto che gli orientamenti collaborativi tra forze sociali e politiche opposte, si sono spessissimo risolti a vantaggio del potere costituito tradizionale, riducendo spesso gli alleati progressisti ad elementi integrati nel sistema tradizionale, la tentazione antagonistica può essere molto forte. Il mondo è pieno di elementi rappresentativi di classi subalterne o di tendenze alternative al modello dominante che essendosi accordati con forze moderate pretese “democratiche”, rappresentative del vecchio potere tradizionale, si sono semplicemente fatti ingabbiare come forze di complemento, convertite non solo all’interesse, ma persino alla mentalità e ai vizi dei “padroni del vapore”. Gli ex avversari che si sono conciliati con parti cospicue di forze dominanti a quanto pare non hanno tenuto conto del fatto che chi va con lo zoppo impara a zoppicare, e che in tali contesti è facilissimo dare la mano e farsi prendere il braccio e tutto il resto, e fare la fine dei pifferi di montagna che andarono per suonare e furono suonati; e che il potere è una gramigna e corruttivo, e integra con la carota quando non può usare il bastone (anzi, soprattutto con la “carota”, che è molto più convincente). Per cui se ti comprometti con esso, corrompi te stesso e rovini l’ideale di liberazione che ti stava a cuore. Talora il meccanismo è stato spiegato in modo assolutamente convincente. Ad esempio se uno vada a leggere la grande orazione pronunciata da Amadeo Bordiga al congresso di Livorno del PSI del 1921, in vista della scissione comunista, tutto ciò lo toccherà con mano, con un’anticipazione di una quarantina d’anni e più dei temi del Marcuse di L’uomo a una dimensione (1964)[11] E sentendo quanto le tendenze ad adattarsi tatticamente a ogni compromesso rendano politicamente imbelle ogni forza di alternativa, si può essere presi dalla volontà di raccogliersi in fratellanza rivoluzionaria in vista della crisi sistemica. In una fase di pensiero “liquido”, e di liquidazione di tutte le grandi idee, in cui spesso lo scontro sembra tra forze intercambiabili, che talora possono realizzare alleanze di segno assolutamente opposto da un anno all’altro senza problemi, come il premier Conte e il Movimento 5 Stelle rispettivamente con la Lega di Salvini e col Partito Democratico, la tentazione del neo-settarismo, quale sia il colore da uno preferito, potrebbe essere forte.

Ma poi, approfondendo le cose, si può giungere a comprendere che quel raccogliersi in una qualche avanguardia di militanti, anche non necessariamente minuscola e politicamente cieca, persino diretta da persone di primissimo ordine (come furono certo Bordiga, Gramsci, Terracini e Tasca alle origini del PCI), ha sempre due conseguenze che si danno in modo quasi matematico. La prima è che ove non si sia dentro ad una grande crisi sistemica, tale posizione, più o meno settaria, condanna chi la sostenga all’irrilevanza nelle lotte sociali politiche e pure culturali: il che non fa certo bene ai lavoratori; l’altra conseguenza è che ammesso che in tempi di grande crisi la tendenza prevalga, la conseguenza è sempre una dittatura più o meno liberticida, talora a favore della propria area o parte, ma più spesso addirittura a proprio danno. Sono due cose che la storia ci ha fatto vedere in modo così continuo in tutto il mondo, negli ultimi cento anni, che non è necessario neanche attardarci tanto a dimostrarlo. Chi lo vuol vedere, ormai può vederlo totalmente a occhio nudo. E chi non lo veda, e non sia stupido, caccia la testa sotto la sabbia come gli struzzi. In generale si tratta di pose, e in qualche caso di persone disperate per i fatti loro in lotta col mondo, bisognose di un nemico su cui scaricare il loro disadattamento esistenziale. Ho conosciuto persone generosissime e di animo nobilissimo che erano così, per cui non sto disprezzando nessuno.

Ma non facciamola neppure troppo facile. Infatti è per me vero che le forze progressiste che hanno accettato l’alleanza con forze “sistemiche” moderate o conservatrici o “borghesi” hanno sempre finito per farsi “ingabbiare”. Da Garibaldi al socialismo riformista e oltre. Certo si potrebbe pure dire che per tale via si sono ottenuti risultati così importanti, dall’Unità d’Italia alla Costituzione del 1948 vigente e al Welfare State che abbiamo, che solo gli ingenui per partito preso possono trascurare o minimizzare, naturalmente godendone di continuo i risultati. E però è vero che lo scotto di quel riformismo, da Garibaldi ai giorni nostri, è sempre stato un grande trasformismo, persino fortemente corruttivo (in Italia dal 1876), e un’assenza di alternativa democratica di sinistra che in Italia è tanto persistente da essere impressionante.

Gramsci e Togliatti, studiandosi di adattare l’idea comunista all’Occidente e all’Italia, avevano inventato e praticato una soluzione, poi continuata (con poca fortuna) da Pietro Ingrao, e riletta in chiave realistica, e per ciò stesso più moderata, da Enrico Berlinguer. Si doveva creare una grande forza di popolo (il Partito Comunista), coesa e disciplinata, incentrata sull’apparato (preteso “rivoluzionario”), unita da una visione del mondo originale, liberatrice ed espansiva, e volta ad una continua presenza nel mondo vuoi sindacale e vuoi delle istituzioni elettive; ma costruita in modo tale da non renderla integrabile (troppo unanime all’interno e troppo compatta perché con essa potesse accadere): capace “lei”, semmai, di integrare altri, e comunque di inserirsi in alleanze diverse senza snaturarsi com’era invece sempre accaduto a democratici e socialisti dal Risorgimento ai giorni nostri.[12] L’idea di Gramsci e Togliatti ha dei punti di contatto con quella che nel mio piccolissimo ambito caldeggio io “per l’avvenire”, ma tenendo nel massimo conto – per quel che mi riguarda – le disfatte subite dalla sinistra, e per ciò cercando di inserire la ricerca di un mondo nuovo dell’alternativa in una nuova idea socialista, che a mio parere dovrebbe essere spirituale, ecologica e solidale. Se l’avessimo messa a punto e diffusa, non saremmo cani sperduti senza collare: o senza partito o con partiti fantasma, come in questa tristissima fase storica.

Gramsci partiva esplicitamente dall’idea che l’idealismo di Hegel avesse posto le basi per una nuova Riforma (come già Lutero e Calvino nel mondo cristiano: e Riforma che come sappiamo non solo improntò il Nord Europa, ma fu fondamentale nelle rivoluzioni inglesi del XVII secolo e nella prima colonizzazione dell’America). La nuova Riforma dell’idealismo hegeliano secondo Gramsci (e Togliatti) sarebbe stata ereditata, innovata e vitalizzata dalla filosofia e prassi del comunismo, da Marx a Lenin e, ahinoi, Stalin; il mondo comunista, e in specie la forma di partito al tempo stesso ideal-politica e di massa del comunismo marxista (il PCI idealizzato di cui ho detto), sarebbe stata la nuova Riforma in atto, in Occidente tramite una rivoluzione diluita in un processo storico democratico, rivoluzionario e socialista di lunga durata (“guerra di posizioni”), che pur tra le ovvie tempeste e follie della storia reale, si sarebbe imposta nel mondo redimendolo, tramite “il Partito” (qual sia si sa) e gli alleati da esso egemonizzati, superando le miserie del capitalismo e della civiltà “borghese”.

Tuttavia io credo ormai – ecco il punto – che il comunismo e marxismo siano stati una Riforma fallita, per tante ragioni che non starò a specificare per l’ennesima volta, ma anche perché avevano stravolto il primo riformatore (Hegel), perdendo l’idea dell’Assoluto già immanente in noi (l’infinito interiore, la fraternité d’essere e “pure” con la Natura, la convinzione che l’”ideale” viva e debba vivere compiutamente già in noi, e fatto vivere fuori di noi). Perciò, a quel che opino io, si tratterebbe di ripartire dall’idealismo romantico tedesco, valorizzando le moltissime cose buone dette e fatte dal socialismo e comunismo nei due secoli successivi, ma senza tornare a rifare le stesse fesserie che hanno fatto loro. In fondo, tutti insieme, dovremmo porci esattamente nella stessa posizione di critica-eredità-superamento in cui la filosofia del socialismo, di Marx and Company, si era posta nei confronti da un lato del repubblicanesimo dal 1789 al 1840 (e in Italia sino al 1890) e dall’altra dell’idealismo hegeliano: solo che ora dovremmo farlo verso il marxismo e verso il socialismo, da criticare ereditare e superare, tramite un nuovo pensiero-prassi di tipo spirituale e rosso-verde: in parole povere attraverso un “nuovo socialismo”.

Ora un punto chiave per la ripartenza della nostra Riforma concerne proprio la fratellanza. Si è già detto che la fratellanza richiede, sul piano delle convinzioni profonde, un forte senso di coappartenenza d’essere, che o in senso psicologico o in senso ontologico (d’essere), è religioso (quantomeno pervaso da “religiosità”). Inoltre quest’approccio richiede una forte spinta a logiche politico-sociali di coappartenenza, cogestione, condivisione e collaborazione: ben diverse della visione classe contro classe propria del marxismo. Va detto che la visione polemologica, “classe contro classe”, non è affatto sempre sbagliata; ma il punto è che non siamo sempre in guerra, né tra gli stati né tra le classi; e, anzi, che la guerra è una parentesi entro una lunga pace, o meglio coesistenza competitiva “fraterna” (anche nella vita sociale): nella Storia, e anche nel presente come storia, non è “la regola”, ma l’eccezione, e se è “regola” è perché i tempi, compresi quelli che facciamo noi, sono “bui”.

Qui va ben compreso che la “logica” della guerra perpetua, che ha per me sempre un presupposto che nega la “religiosa” fratellanza umana sino a sentire che “pietà l’è morta”, non va aggiornata, ma radicalmente rifiutata. Ad esempio è facile, e persino oltremodo affascinante su un piano intellettuale, aggiornare l’approccio polemologico (classe contro classe, guerra continua, rivoluzione continua, lotta continua) di Marx (o Lenin o Rosa Luxemburg e così via, Foa compreso), con quello del grande politologo, certo non casualmente “nazi” durante l’era hitleriana, Carl Schmitt, il quale diceva che non è vero – come aveva affermato il teorico della guerra moderna von Clausewitz – che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, ma che “è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi”. Talora ci è cascato persino una forte testa del marxismo contemporaneo come Mario Tronti, da cui credo di avere molto appreso nella mia vita (nel suo caso per nostalgia “disperata” di un nuovo antagonismo di sinistra: alla ricerca di una nuova filosofia “rivoluzionaria”).[13] Schmitt però sapeva che la conseguenza della logica amico-nemico, che va superata ripristinando lo Stato sovrano, è la dittatura (apologizzata in un’opera intitolata proprio La dittatura, del 1921[14]): opera che guardava “da destra” con simpatia a Lenin, in attesa di ritrovarsi subito in Mussolini, e soprattutto in Hitler. Mentre la dittatura come “fine” non sarebbe piaciuta a Marx, e credo neanche a Lenin (per cui era un mezzo, neanche scontato sempre), per Schmitt, che proprio in questo a mio parere è stato fascista nell’anima anche nel mezzo secolo in cui non lo è più stato affatto, la dittatura era il buon governo (il sano assolutismo del venerato Hobbes restaurato in veste moderna); e per ciò dopo il 1945, negli anni Sessanta e Settanta, Schmitt simpatizzava più con l’URSS che con l’America, e per un presidenzialismo democratico quanto più prossimo possibile alla dittatura (una dittatura che poi per lui, come per il suo amato Donoso Cortès[15] del 1849, era la forma aggiornata del sempre sognato assolutismo: un assolutismo ritenuto la forma più logica dello Stato moderno in quanto monopolio della forza, senza le per lui artificiose divisioni dei poteri, specie a scapito dell’esecutivo, che con buona pace dei liberali ammazzerebbero lo Stato a fuoco lento con la pretesa di curarlo, precipitando via via il mondo nell’anomia internazionale)[16].

Ma quel che pensa Schmitt, comunque lo si giudichi, non è vero. La normalità nella specie non è la guerra, ma la cooperazione tra esseri umani. E le democrazie sono regimi che sono sempre risultati molto più economicamente produttivi delle dittature, e nel mondo contemporaneo molto più durevoli, e che hanno sbaragliato le dittature di ogni colore sino ai giorni nostri. Le democrazie saranno, e per me sono, pure da correggere, evitando le pandemie dell’ingovernabilità, ma sono da preservare da ogni forma di assolutismo o neo-assolutismo. Noi, rispetto alla democrazia, non getteremo mai via l’acqua sporca col bambino.

Il discorso sul far prevalere la fratellanza a livello sociale è naturalmente esso pure pieno d’insidie. Una è costituita dal corporativismo. Com’è noto si chiamavano corporazioni le unioni di arti e mestieri operanti nel Basso Medioevo, nei comuni, nel quadro del nascente capitalismo mercantile: associazioni tra datori di lavoro e prestatori d’opera legati da patti ritenuti perpetui vincolanti per entrambe le parti. La nozione ha avuto un seguito anche dopo la caduta di Napoleone. Infatti Hegel, geniale anche su tale terreno, su ciò scriveva, in Lineamenti di filosofia del diritto, del 1821: “Nella corporazione l’aiuto che la povertà riceve perde il suo carattere accidentale, così come il suo carattere ingiustamente umiliante[17], e la ricchezza nel suo dovere di fronte alla propria associazione perde l’orgoglio e l’invidia che essa può suscitare[18] (e cioè quello del suo possessore, questa negli altri), – la rettitudine ottiene il suo verace riconoscimento ed onore.”[19]

Com’è noto il corporativismo è stato rivendicato per secoli dalla chiesa cattolica (con più enfasi sino al 1963, cioè sino al Concilio Vaticano II), e anche dalla Democrazia Cristiana (sino al 1960), e soprattutto dal fascismo, che vi puntò moltissimo, istituendo persino cattedre di economia corporativa, anche se il vero corporativismo fu minimo, e seguitarono a sussistere sia i sindacati (fascisti) dei lavoratori che degli industriali (l’Unione Industriale). Ma l’idea di addivenire a un’alleanza “organica” tra Capitale e Lavoro per il tramite dello Stato, nelle corporazioni, era un punto fermo dell’ideologia fascista[20]. Tuttavia c’è un punto differenziale molto forte tra corporativismo cattolico (o in generale) e corporativismo fascista. Il corporativismo fascista era parte della visione dello Stato etico. C’era una specie di triangolazione tra Capitale, Lavoro e Stato, in cui lo Stato, necessariamente “forte” e autoritario, era la forza sintetizzatrice necessaria, che doveva obbligare gli altri due, bon gré mal gré, a mettersi d’accordo sempre. Inoltre tale visione, oltre ad essere intrinsecamente totalitaria (“Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, niente contro lo Stato”[21]), era caratterizzata da quel che c’è di meno valido nel mondo precapitalistico: i patti perpetui (dal matrimonio al lavoro): i patti che si fanno, ma non possono essere sciolti, mentre nel Moderno tutti i patti debbono, a certe condizioni, poter essere sciolti, perché altrimenti diventano catene “indissolubili”. Questo limite non c’era nel corporativismo cattolico dell’età contemporanea, in cui i patti tra capitale e lavoro erano e sono concepiti a due (capitale e lavoro), e possono essere sempre sciolti. Per tale visione pattizia aperta, i sindacati, che possono accordarsi come non accordarsi con la “controparte”, sono da preferire alle corporazioni.

Ciò posto credo sano economicamente, e anche nella relazione tra cittadini, il cercare di accordarsi; e il lottare solo per giungere ad accordi più vantaggiosi per i lavoratori. Anche in ciò vedo il vantaggio su qualunque dittatura. Del resto la stessa democrazia politica è superiore alla dittatura, e in genere è più forte sia economicamente che militarmente delle dittature, perché consente la periodica ridiscussione dei patti (elezioni), e a livello del potere legislativo addirittura la loro discussione permanente.

La questione della relazione eventualmente collaborativa tra capitale e lavoro ha avuto un decorso complesso anche nel socialismo e nel marxismo: decorso da comprendere e oggi possibilmente da riformulare nella logica dell’economia informatica e robotica, e soprattutto di globalizzazione dell’economia, del XXI secolo.

Il punto chiave della quaestio, nel socialismo, era già nella polemica di Marx con Proudhon, che era un socialista libertario, il quale concepiva il socialismo come un insieme di imprese coordinate, governate dal basso dai lavoratori stessi, nell’ambito di un’economia di mercato totalmente senza padroni. A tale autogoverno dell’economia, senza Stato, ci si sarebbe potuto avviare attraverso una banca per il credito gratuito per i lavoratori stessi. Marx e Engels nel 1848, nel Manifesto del partito comunista, dicevano tale socialismo “borghese” – aggettivo certo lì equivalente a quel che poi sarà detto riformista – accusando i sostenitori di tale posizione – cioè del “socialismo borghese” – di volere “la borghesia senza il proletariato”, ossia di voler far diventare tutti i lavoratori “borghesi”, capitalisti di sé stessi, in proprio[22]. Questo disporrà poi Marx, e sulla sua scia Lenin, ad una polemica costante contro il cooperativismo, visto al più come prova del fatto che le aziende possono andare avanti anche senza capitalisti. Ciò induceva poi Marx, nel 1867, nelle Istruzioni per i delegati del Consiglio Centrale Provvisorio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, di cui era notoriamente Presidente, a sostenere che “il sistema cooperativo non trasformerà mai la società capitalistica”; “per modificare la produzione sociale in un unico sistema vasto e armonioso di lavoro libero e cooperativo, si richiedono cambiamenti sociali generali che non saranno mai realizzati se non con il trasferimento delle forze organizzate della società, cioè del potere dello Stato dai capitalisti e dai proprietari fondiari ai produttori stessi.” La stessa posizione è poi sviluppata contro la richiesta dei sostenitori del socialista Lassalle, in Germania, nel 1875, della “istituzione di cooperative di produzione con l’aiuto dello Stato, sotto il controllo democratico del popolo lavoratore”: il che postulerebbe la possibilità del superamento del capitalismo senza un “processo di trasformazione rivoluzionaria della società”[23].

Per contro il cooperativismo era ampiamente teorizzato da Giuseppe Mazzini, come valida via per superare il contrasto stesso tra capitale e lavoro, specie in Dei doveri dell’uomo (1849/1860), in pagine di grande interesse.

Il punto chiave da comprendere è sempre la dialettica incentrata sul Negativo, cioè sulla negazione dell’esistente come via obbligata per cambiare la storia: una Storia intesa, su tale base, come guerra continua tra le classi, e non semplicemente come competizione sociale tra forze che ora si scompongono e contrappongono, e ora si ricompongono a un livello superiore, in base ad una superiore armonia tra loro da sempre latente: sicché – direi io (in ciò ben diversamente da Marx) – si slitta da un sistema sociale all’altro, in un continuum storico, in cui le rivoluzioni, come le guerre, ci possono essere come non essere, come proprio l’amata Inghilterra, in cui la nobiltà seppe imborghesirsi senza farsi cacciar via come in Francia, o nel XX secolo il Giappone passato dal feudalesimo al capitalismo o la Cina al cosiddetto comunismo (e poi al capitalismo privatistico all’ombra dello Stato “socialista” o comunista), dimostrano. Ma la visione polemologica, resa tanto più forte dall’ateistica negazione della fraternità anche tra confliggenti, portava a quella conclusione.

Tenendo poi conto del livello di libertà politica e sindacale dei lavoratori laddove la fondazione di uno Stato preteso loro – in realtà della burocrazia polizia ed esercito con bandiera rossa, o al massimo con intenzione di queste di operare “anche” per loro – è stata perseguita, ormai una conclusione sembra imporsi: non pare dubbio che l’altra via – della cogestione, dell’autogestione, delle varie forme di azionariato operaio e partecipazione agli utili, della cogestione con presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione, e soprattutto del cooperativismo, e nella democrazia liberale- sia risultata più vantaggiosa per i lavoratori. Nell’altro caso, statalista burocratico autoritario, i lavoratori sono stati, o sono, più poveri e anche molto meno liberi, persino di scioperare e di democratizzare economia e Stato a loro vantaggio.

Si può anche riconoscere che in paesi in cui, in mancanza di una lunga opera della borghesia privatistica non si riusciva a superare l’arretratezza, lo statalismo dittatoriale di sinistra, cosiddetto “socialista”, politicamente “comunista”, sia stato una via allo sviluppo, specie in Asia (e non dappertutto). Penso alla Cina, al Vietnam e “forse” alla parte asiatica dell’ex Unione Sovietica. Ma questo ha poco a che vedere con l’ideale socialista, ma semmai con i necessari processi di modernizzazione. In generale il capitalismo di Stato, o privatistico, all’ombra della dittatura del partito comunista non è stato e non è affatto un buon affare per i lavoratori, né in termini di liberté né di égalité né di fraternité. Perciò il nostalgismo, anche “di sinistra”, non ha senso, né rispetto al passato né tantomeno rispetto al presente-futuro. Bisogna superare sia il capitalismo privatistico che quello di stato, niente affatto migliore del primo. Ciò mi riconcilia molto col cooperativismo.

Sono convinto che proprio il cooperativismo sia il terreno su cui si gioca il superamento della falsa alternativa tra il liberismo (tutto mercato e niente Stato) e lo statalismo (il contrario), tenendo conto sia dei limiti di un mercato più o meno selvaggio, che ha sempre ignorato i bisogni della povera gente, che di uno statalismo in azione, negli ex paesi pretesi socialisti, ma anche qui: sempre poco produttivo; in cui è più facile “imboscarsi” lavorando poco e male (a meno che non si instauri il Terrore istituzionalizzato come faceva Stalin); statalismo spesso capace di divorare per decenni e decenni immense risorse a fondo perduto, che poi la società intera deve risarcire; e sempre burocratico; e soprattutto abbisognante sempre di uno Stato più o meno autoritario, se diventa egemonico e non semplicemente forza di complemento del capitalismo privatistico: modo d’essere che oltre a tutto in un’economia globalizzata funziona poco o niente. Nel mondo della globalizzazione non solo diventa impossibile il “socialismo in un solo paese”, cioè su base nazionale, ma difficilissimo da salvaguardare, benché lo si debba fare quanto si può persino il Welfare State, lo “stato sociale” cattolico e socialdemocratico. Perciò non è il caso di vezzeggiare il capitalismo di stato.

Invece il cooperativismo, anche con prestiti garantiti a tassi minimi da parte dello Stato, sembra essere un’ottima soluzione per il futuro. Una società in cui: tutti siano partecipi del capitale dell’impresa; in quote però più o meno uguali; cointeressati, partecipi agli utili; non dipendenti se non da sé stessi, potrebbe proprio essere il socialismo del futuro: niente padroni, ma anche niente Stato padrone. Per me il non avere un padrone, né privato né di Stato, resta il primo ideale del Socialismo. Della proprietà in sé, dal notaio, non potrebbe importarmene di meno.

Ma una tal società richiede la fraternité come valore forte e primario: richiede la solidarietà, nel contesto religioso, morale, o quantomeno psicologico-empatico di cui si è detto.

Questo bisogno di forte umanizzazione e liberazione del lavoro, che proietta in esso anche il desiderio di bene comune, rinvia pure alla liberazione ecologica, che è il quarto punto che vorrei riprendere e approfondire.

di Franco Livorsi

  1. F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo (1866), tr. di A. Polledro, Einaudi, Torino, 1947; L’idiota (1869), tr. e cura di G. Pacini, Feltrinelli, Milano, 1998; I fratelli Karamazov (1878/1880), tr. di N. Cicoglini e P. cotta, Mondadori, Milano, 1994. Si confronti con: L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, 1993. Si veda pure: F. LIVORSI, Archetipi del padre in “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in: AA.VV., “Il Padre. Parola, Silenzio, Trasformazione. Atti dell’XI convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica”, Vivarium, Milano, 2002, pp. 45-72.
  2. C. de MONTESQUEU, Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), a cura di M. Mori, Einaudi, Torino, 1980; Lo spirito delle leggi (1748), a cura di R. Derathé con Prefazione di G. Macchi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1989, due volumi
  3. M. ROBESPIERRE, I principi della democrazia, a cura di A. M. Battista, Padova, CEDAM, 1997; La rivoluzione giacobina, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, 1984; M. A, CATTANEO, Libertà e virtù nel pensiero politico di Robespierre, Cisalpino, Milano, 1968 e infine 1986. Mario Cattaneo e Anna Maria Battista, ridimensionando una tradizione di studi che connetteva il giacobinismo a Rousseau, legano Robespierre a Montesquieu, il quale sul modello dell’antica Roma aveva sostenuto che lo spirito, o mentalità collettiva, che regge la Repubblica, che altrimenti sarebbe destinata a mutarsi in dispotismo (come nell’Impero romano), è la “virtù” del cittadino. Per il versante neo-religioso di Robespierre si veda: H. GUILLEMIN, Robespierre politico e mistico (1987), Garzanti, 1989.
  4. K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia. Ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1844), Editori Riuniti, 1969.
  5. G. MAZZINI, Dei doveri dell’uomo, in: Scritti politici, a cura di T. Grandi e A, Comba, UTET, Torino, 1972, pp. 837-943 Si confronti con: AA.VV., Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, Introduzione e cura di F. Livorsi, Giuffré, Milano, 2001, pp. 89-117; F. LIVORSI, Il pensiero politico e religioso di Giuseppe Mazzini, in: L. M. BASSANI – S. B. GALLI – F. LIVORSI, Da Platone a Rawls, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 315-328. Si confronti con: S. MASTELLONE, Il progetto politico di Mazzini (Italia-Europa), Olschki, Firenze, 1994; Giuseppe Mazzini e i democratici, a cura e con Introduzione di F. Della Peruta, Ricciardi, Milano-Napoli, 1994.
  6. M. K, GANDHI, Teoria e pratica della non-violenza, con Introduzione di G. Pontara, Einaudi, Torino, 1973. Ma si veda: A, CAPITINI, Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, 1950; Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Fondazione A, Capitini, Perugia, 1998.
  7. F. MEHRING, Vita di Marx (1918), Editori Riuniti, 1966; K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), Introduzione e cura di E. Mezzomonti Cantimori, Einaudi, 1962.
  8. Si veda il testo, integrale, edito postumo nel 1927, in: K. MARX, Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963.
  9. Per la religione oppio dei popoli rinvio sempre a: K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), in: Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Per la svolta che rende mutevole lo stesso uomo nel contesto storico-sociale: K. MARX, Tesi su Feuerbach (1845, ma 1886) in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), Rinascita, Roma, 1950.
  10. K. MARX. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1965, p. 205; K. MARX, “Poscritto alla seconda edizione” (1873), in: Il capitale (1867 e poi 1873), a cura di D. Cantimori e con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962, pp. 44-45.
  11. “Discorso di Bordiga”, in: Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, Livorno, 15/20 gennaio 1921, Edizioni Avanti!, Milano, 1962, pp. 271-296. Su ciò si veda pure: A. BORDIGA, Scritti scelti, a cura di F. Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975. Ma rinvio in particolare al mio libro: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori Riuniti, 1976.H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, 1967,
  12. Il riferimento decisivo naturalmente è sempre: A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. Ho approfondito ciò in molti testi, ma rinvio soprattutto a: “Liberazione sociale e liberazione della coscienza nella storia della socialdemocrazia e del comunismo”, nel mio libro: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, 2003, pp. 155-252,
  13. Il libro fondamentale di Mario TRONTI è Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966. L’influenza di Carl Schmitt è ben evidente ed esplicita nel suo piccolo libro Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977, ma anche in saggi specifici in: Il politico. Antologia di testi, Feltrinelli, 1979.
  14. L’opera è tradotta presso Laterza, Roma-Bari, 1975.
  15. C. SCHMITT, Donoso Cortés. Interpretato in una prospettiva pan-europea (1950), Adelphi, 1995. Donoso Cortés era un reazionario cattolico spagnolo, nostalgico dell’assolutismo come de Maistre, ma nel 1849, in un discorso sulla dittatura, l’accettava “da destra” come forma possibile, moderna, della Restaurazione del morto Stato assoluto. In ciò anticipava Schmitt.
  16. C. SCHMITT, Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972. Ma si veda soprattutto: C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996.
  17. L’aiuto smette di essere accidentale come la carità. E non umilia, come fa la carità, a torto o meno.
  18. La ricchezza smette di apparire arrogante e di suscitare invidia sociale perché ha pure doveri verso la corporazione, in cui stanno anche i lavoratori.
  19. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari, 1987: $ 253, pp. 192-193.
  20. Per una prima introduzione al tema si veda: L, INCISA, “Corporativismo”, in: Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, TEA-UTET, Milano, 1990, pp. 235-239.
  21. Su ciò si veda soprattutto: B. MUSSOLINI, Fascismo, in “Enciclopedia Italiana”, Treccani, Milano, 1932, vol. XIV, 1932, pp. 847-857. Il testo comprendeva una parte sul movimento ed una sulla dottrina. La parte sulla dottrina fu scritta dal filosofo Giovanni Gentile, anche se limata da Mussolini, che firmò tutto il testo.
  22. P.-J. PROUDHON, Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère, Paris, 1846, cui K. MARX replica con: Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria del signor Proudhon (1847), a cura di F. Rodano, Editori Riuniti, 1971. Ma si veda in particolare il passaggio di: K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., p. 217. Si veda pure: P.-J. PROUDHON, De la capacité politique de la classe ouvrière, Paris, 1865 (postumo). Rinvio pure al cap. “Socialismo libertario e socialismo riformista. Da Proudhon al liberalsocialismo”, nel mio libro Stato e libertà, Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 245-267.
  23. Si vedano i testi in: La Prima Internazionale. Storia documentaria, a cura di G. M. Bravo, Editori Riuniti, 1978, due volumi. Ma si veda pure: K. MARX – F. ENGELS, Il partito e l’Internazionale, a cura di P. Togliatti, Rinascita, Roma, 1951.

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