Filosofia del Socialismo

 

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 4) Liberazione ecologica (I)

pubblicato il 09/07/2020

Sono passati più di centosettant’anni dal Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848[1]. Da allora vi sono state crisi economiche e sociali di ogni genere, talora catastrofiche, e guerre devastanti, che però invece di abbattere il capitalismo lo hanno addirittura rafforzato. Il sistema sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla “libera” concorrenza delle merci sul mercato, e sul lavoro salariato, e sulla ricerca del maggior profitto nel minor tempo (capitalismo), ne è sempre uscito – dopo le tragedie – più forte di prima, come una fenice che risorgesse sempre nuova dalle ceneri. I regimi che avevano provato a sostituire il capitalismo (come quello della Russia sovietica), almeno dalla fine degli anni Venti del XX secolo a mio parere (e secondo la maggior parte degli storici sin dall’inizio degli anni Venti di quel tempo), si sono rivelati forme di mero capitalismo più o meno di stato governate in modo sempre dittatoriale dalla burocrazia di stato imperniata su un partito comunista che ne era ed è sempre, in tal genere di regimi, il nucleo d’acciaio: forme sostituite, in caso di crisi profonda o crollo, dal più puro e spesso marcio capitalismo privatistico, spesso sotto regimi più o meno nazionalisti di destra, tendenti all’autoritarismo sebbene non apertamente dittatoriali.

Non cercherò di motivare ulteriormente le ragioni di tutto ciò, ma a me sembra palmare che abbia fatto difetto in primo luogo la coscienza socialista. Se dopo la Rivoluzione russa bolscevica dell’ottobre-novembre 1917 non c’è mai stata una rivoluzione proletaria in Occidente è perché la coscienza socialista diffusa, alla base come ai vertici, non era bastevole a farla. Se tutte le socialdemocrazie riformiste del mondo, attraverso le lotte sindacali e le riforme, hanno sì svolto opera socialmente meritevole, ma rafforzando e allungando la vita del capitalismo, evidentemente è perché erano e sono sincronizzate col sistema sociale dominante, anche semplicemente come antitesi “interna”, nella loro coscienza profonda. Se tutte le volte in cui il capitalismo privatistico è stato soppiantato – dopo una fase tumultuosa di messa in crisi del vecchio potere – non già dal proletariato tramite liberi consigli elettivi, ma da una burocrazia autoritaria, ideologicamente comunista, e ciò è accaduto in ogni tempo e in tutti i continenti, tanto che è ormai ovvio che in caso di “conquista del potere” tornerebbe ad accadere, è evidente che o al proletariato andava bene così, o nella sua coscienza diffusa esso non aveva e non ha anticorpi per impedirlo, di nuovo per un deficit della coscienza di voler realizzare un assetto fondato sulla giustizia e libertà, post-capitalista (pur “vagheggiato” oscuramente dai lavoratori). E se il capitalismo autoritario di stato non solo non ha potuto essere democratizzato, ma è entrato in crisi ed è imploso non appena si sia provato a democratizzarlo, ciò rafforza ulteriormente la tesi di un deficit di coscienza socialista diffusa, tanto alla base quanto ai vertici della piramide sociale. Perciò quando cadde il comunismo da Berlino a Vladivostock, tra il 1989 e il 1991, nel mio piccolo io scrissi una riflessione intitolata La fine del materialismo: nel senso di fine del materialismo storico, o materialismo che faceva dipendere la coscienza sociale dalle condizioni economico sociali invece di fare il contrario[2]. La conclusione dottrinaria che ne traggo è semplice, ma a mio parere stringente: o la nuova coscienza politico-sociale viene prima dell’avvento al potere che mira al post-capitalismo, o dopo non arriverà affatto. Tanto più che il potere non migliora mai la coscienza di chi ce l’abbia, ma semmai la peggiora, seminando così sfiducia sul “nuovo mondo” in costruzione anche nella base sociale. In buona sostanza, come aveva compreso ogni idealismo, la coscienza non segue, ma precede il mutamento storico (nel caso in questione l’avvento di una civiltà non più dominata dalla borghesia, privata e per la verità anche di stato: cioè l’avvento di un effettivo post-capitalismo). Al più il mutamento della coscienza e dell’essere sociale debbono avvenire in modo simultaneo, ma la chiave di volta è e sarà sempre quel che avviene, o non avviene, certo per ragioni profonde, nella coscienza. Ma il porre la coscienza come necessario punto di partenza e d’arrivo del divenire ha molte conseguenze d’ogni genere, dalla filosofia alla religione e dall’economia alla politica, e sul loro intreccio.

Viva il capitalismo dunque? – Niente affatto. Il capitalismo non diventa una bella cosa perché ha vinto (come moltissimi sembrano pensare). Tutte le storture che il socialismo o comunismo hanno denunciato per centosettant’anni erano vere. Anzi, a mio parere la realtà del capitalismo di oggi è persino più negativa di com’era stata rappresentata dal socialismo comunismo e marxismo, anche se le vie tentate per cambiare sistema sociale o civiltà sono fallite come una sorta di cura Di Bella per la cura del tumore maligno. La ricerca e sperimentazione sociale-politica, per ciò, debbono seguitare, perché il male sociale e morale che si voleva superare con quelle cure inefficaci o illusorie, e talora nocive, è sempre lì. Ma per farlo – come proprio il marxismo ci ha insegnato nella sua critica delle rivoluzioni del passato – ora è giocoforza partire da quello che è stato con evidenza il punto debole che ha frenato le rivoluzioni e riforme “socialiste” o “comuniste”, oppure che le ha fatte degenerare: la coscienza di chi avrebbe dovuto cambiare il mondo, mentre invece era ed è prigioniero della mentalità della vecchia civiltà, tanto che capitalismo privatistico e capitalismo di stato, anche nei rari periodi in cui il secondo è parso avere il vento in poppa, sono stati al più concorrenti a livello del volume di produzione delle merci, piuttosto che alternativi l’uno all’altro.

Si potrebbe però anche ritenere che la nostra negazione del capitalismo sia ormai una mera pretesa etica, o addirittura moralistica, propria di chi si ostini a negare qualcosa che oggettivamente potrebbe non solo essere accettato tra molti distinguo e in mancanza di meglio (com’è sacrosanto), ma ormai abbracciato tout court come “buono”: perché “il mondo va così” e non ha senso abbaiare alla luna. Ma il capitalismo resta invivibile non solo per ragioni soggettive, ma in sé stesso; risulta insomma invivibile “oggettivamente”, come si sarebbe detto “una volta”, nei tempi lunghi della storia.

Ciò, a mio parere, è legato a due ragioni di fondo: una concerne il modello di sviluppo dominante, basato sullo “sviluppo illimitato”; l’altra concerne la questione della governabilità dello Stato anche democratico, e più in generale del sistema degli Stati, nell’era della globalizzazione. Della seconda questione mi occuperò in seguito. Per ora mi concentrerò sulla prima, concernente lo sviluppo detto illimitato. Esso mette in primo piano l’economia mondiale come organismo bulimico in modo sempre più grave. Il capitalismo contemporaneo può anche essere visto come una magnifica Ferrari che vada avanti nel modo più celere, ma con i freni gravemente usurati o addirittura rotti. In sostanza il capitalismo è un sistema ampiamente fuori controllo, sia a livello economico che come sistema degli Stati, a causa di uno sviluppo “sfrenato”. La cosa si confronta, in molti autori – da Heidegger a Severino – con quella della tecnica, che da serva dell’uomo ne è diventata padrona[3]. Ma io – pur tenendo molto d’occhio la questione del mondo della tecnica fuori controllo – preferisco seguitare a parlare di capitalismo, perché è la fame di profitto che spinge avanti la tecnica espansiva sino all’apocalisse now.

Oltre a tutto la critica marxista del capitalismo, pur debole nell’elaborazione dell’alternativa, in termini di descrizione del reale era spesso geniale. Il fenomeno dello sviluppo illimitato del capitalismo era già stato notato da Marx nel Capitale (I, 1867), in riferimento alla formula fondamentale della circolazione delle merci prodotte, che nelle economia non capitalistiche era MDM (Merce Denaro Merce, che ridistribuiva la stessa ricchezza, ovviamente a vantaggio di una minoranza privilegiata), mentre la formula di circolazione delle merci nel capitalismo è DMD’ (investire denaro per acquisire merci, forza lavoro compresa, per ottenere più denaro): in cui il “più denaro” è quel piccolo esponente quasi invisibile nella seconda D; siccome il denaro è solitamente un simbolo di ricchezze vere, il “più denaro” sta per più ricchezza prodotta sempre di più.[4]

Ma una ricchezza in continua crescita, per quanto interrotta dalle crisi, e anche da immani distruzioni di forze produttive durante le guerre (poi da rifare), significa un’espansione senza limiti (quel che l’ecologismo chiama “sviluppo illimitato”). Ora su ciò c’è una decisiva elaborazione, centrale nell’ecologismo, dell’economista rumeno Nicholae Georgescu-Roegen, in Legge dell’entropia e sviluppo economico (1971), che applica il secondo principio della termodinamica, sulla dispersione dell’energia, all’economia. Secondo lui i cicli economici nel capitalismo non sono circolari, come per l’economia classica da Smith e Ricardo a Marx stesso, ma aperti: nel senso che si basano su energie non rinnovabili, che si scaricano sull’ambiente accumulandosi, rovinandolo continuamente “di più”: “così – come ha scritto l’economista Mercedes Bresso – un pezzo di carbone una volta bruciato non potrà mai diventare nuovamente combustibile, un metallo arrugginito avrà perso irrimediabilmente le caratteristiche del materiale originario. Ciò significa che in un sistema finito come quello terrestre, il prelievo e l’utilizzo di risorse non rinnovabili accrescono irreversibilmente l’entropia interna del sistema stesso.”[5] I mari pieni di plastica o le tracce d’inquinamento al polo nord, e naturalmente il fenomeno del buco dell’ozono, sono effetti di ciò. Il fenomeno ha a che fare con il dato, “di origine prevalentemente antropica”, dell’”aumento delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, che si osserva a partire dalla rivoluzione industriale”, cioè dalle origini del capitalismo moderno: “fenomeno che fa crescere l’effetto serra, cioè la capacità dell’atmosfera di trattenere calore, e che è prodotta dalla deforestazione e dal consumo sempre maggiore di combustibili fossili”.[6] In pratica la sottile calotta d’ozono che avvolge la terra proteggendola dai raggi ultravioletti del sole si assottiglia o buca e così il calore in terra cresce, come in una pentola d’acqua sempre sul fuoco, anche tenuto al minimo.

Quindi il problema di un sistema post-capitalistico, che impedisca la distruttività per lo meno riparando di continuo i guai da noi prodotti sull’habitat, esiste, e naturalmente deve motivare tutti; ed ha a che fare con la mente di tutti, ma soprattutto sarebbe importantissimo – come questione da risolvere – per le forze a vocazione rivoluzionaria o riformatrice. Oltre a tutto l’economia ecologica è un settore che può pure essere molto valido e redditizio (così da cercare di riparare quel che si è distrutto), tanto che metterlo al primo posto, o ai primi posti, non sarebbe certo “insensato”.

Ma il punto politico chiave per affrontare guai colossali del genere – come lo era stato per Marx e compagni dalla metà degli anni Quaranta del XIX secolo – è quello di superare le fesserie, o difficoltà, o aporie su cui erano fallite le forze omologhe del passato (nel loro caso quelle repubblicane radicali e idealistiche; nel nostro quelle marxiste, comuniste e anche socialdemocratiche). Non dobbiamo dimenticare il molto che hanno fatto. Ma dobbiamo anche smettere di farne la “ribollita”, alla lunga immangiabile nella storia: quando non sia più – per proseguire in questa metafora culinaria – la ribollita originale, rispetto a Marx e compagni, di Antonio Labriola e di Rodolfo Mondolfo, o di Lenin o di Gramsci, o di Lukàcs o persino Ernst Bloch, ma la ribollita della ribollita della ribollita, che ove venga propinata ancora è persino controrivoluzionaria, oltre che immangiabile, e infatti è sempre meno gradita ai suoi antichi “compagni” consumatori.

Ora l’ambientalismo – tanto sul versante “scientifico pratico” (o preteso tale) come su quello filosofico morale o filosofico-religioso, e infine politico – al proposito può dare indicazioni importanti per passare oltre le aporie del passato. Ma ha le radici atte a sostenere e a far fruttificare la sua pianta e frutteto?

Infatti non c’è alcuna grande tendenza della storia che non abbia un grande passato, tanto che si potrebbe sostenere che chi ha un futuro ha anche un passato. Anche il socialismo aveva un grande passato, che taluno come Vilfredo Pareto ritrovava in tutte le forme di comunismo da Platone a Marx; e comunque il comunismo moderno è quantomeno l’erede del Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau (1754) e del giacobinismo di sinistra della congiura degli uguali di Babeuf (e d’altro, su cui qui non torno)[7].

Ora l’ambientalismo ha alle spalle, coscientemente, la grande cultura, tendenzialmente panteistica, dei romantici: Goethe, innanzitutto, che era anche uno scienziato; e più ancora il suo grande amico, importantissimo botanico ed esploratore, Alexander von Humboldt, autore di Cosmos. Saggio di una descrizione fisica del mondo (1846/1862), opera ampiamente discussa anche da Carlo Cattaneo sul “Politecnico”. Goethe, esploratore della natura e paleontologo appassionato (fece anche la scoperta di un osso mascellare nel corpo umano), i cui scritti “scientifici” occupano quindici volumi dell’Opera omnia, in totale e motivato contrasto con il neo-meccanicismo di Newton considerava la Natura come un tutto vivente energetico. Era pure l’approccio del suo grande amico Alexander von Humboldt, il quale a proposito dei lunghi viaggi in un’America latina ancora largamente – in termini botanici e zoologici – inesplorata, da lui compiuti tra il 1807 e il 1834, poteva dire: “Fossi io nella foresta amazzonica o sulle alture delle Ande, ho sempre avuto coscienza del fatto che un solo soffio, da un polo all’altro, insufflava una sola e medesima vita alle rocce, alle piante, agli animali e al petto dell’uomo.”[8] Ora quest’approccio energetico spirituale è ben presente pure nel volontarismo vitalistico di Schopenhauer e Nietzsche, ma permea anche tutta la filosofia della natura di tutto l’idealismo romantico tedesco, con particolare riferimento a Schelling (non a caso ripreso espressamente dalla filosofia ecologista del nostro tempo, specie da Hösle)[9].

L’approccio “romantico” ai problemi della natura si riscontra pure nel capolavoro del poeta e naturalista americano Henry David Thoreau, specie nel suo autobiografico Walden, o la vita nei boschi (1854). Anche l’elaborazione di Henri Bergson, specie in: L’evoluzione creatrice (1907), era volta a delineare un evoluzionismo dell’energia spirituale (“slancio vitale”) in alternativa all’evoluzionismo allora famosissimo di Spencer, che l’aveva giovanilmente entusiasmato. È anche curioso il fatto che lo stesso rapporto di forte dissenso, ma tra persone che da entrambe le parti avevano – beate loro – tutti gli strumenti culturali per intendersi, avuto da Goethe e Humboldt con le teorie di Newton (da loro argomentatamente, anche se in modo non convincente, rifiutate) fu presente in Bergson nei confronti di Einstein, con cui si misurò pure vis à vis nel College de France di Parigi il 6 aprile 1922 a proposito della teoria del tempo, in testi che ora si possono studiare anche in italiano.[10] Queste posizioni bergsoniane ebbero poi una grande eco nella vasta opera di geologo e paleontologo, e però anche e simultaneamente teologo e gesuita, Pierre Teilhard de Chardin, che dovette subire l’ostracismo della chiesa cattolica sino alla morte, esiliato in Cina e senza poter pubblicare quasi nulla in vita, come sospetto di panteismo: salvo essere rivalutato da molti credenti dopo il concilio Vaticano II.[11]

C’è però anche un ecologismo, direi biocentrico (biologico-centrico) o anche economico puro, che pretende di poggiare non tanto su un movimento “neoromantico” di conversione della gente quanto su una nuova scienza, che del resto abbiamo visto in Georgescu-Roegen. L’approccio scientifico è “varato”, nel nostro tempo, come acquisizione con vasta eco, da una vasta ricerca commissionata dal Club di Roma, in contesto neocapitalistico, al MIT (Institute Technology of Massachusetts), edita nel 1972 col titolo I limiti dello sviluppo, coordinata dallo studioso della dinamica dei sistemi economici, dell’Università di Boston, Dennis Meadows, che segnalò l’urgenza di addivenire ad una crescita zero tanto sul terreno demografico che economico. L’ottica non era ancora “verde”, tanto che gli autori – all’opposto degli ecologisti successivi – caldeggiavano ancora l’energia nucleare, considerata rinnovabile, per far fronte all’esaurirsi, che allora pareva fatale, di materie prime, oltre a tutto non rinnovabili, come il petrolio.[12]

Comunque stava cominciando a nascere un ecologismo che voleva essere tanto scientifico quanto pragmatico. La figura più importante, teoricamente, della tendenza – senza dimenticare però l’economista Nicholae Georgescu-Roegen di cui si è detto – sembra essere il biologo newyorkese Barry Commoner, di idee socialiste ambientaliste, che nel 1981 fu tra i possibili vicepresidenti di parte democratica degli Stati Uniti (poi vinse il repubblicano liberista Reagan). Commoner è autore di un famoso libro: Il cerchio da chiudere (1971), cerchio che per lui è il capitalismo, che per le ragioni già viste in Georgescu-Roegen si basa su energie non rinnovabili che il pianeta non è in grado di smaltire e che produrranno una devastazione crescente: sinché tornando alle energie rinnovabili come sole, vento e acqua non ripristineremo i cicli chiusi, in cui il mondo utilizzato dall’economia torna più o meno com’era prima della sua utilizzazione, come accadeva anteriormente all’industrializzazione, che è stata il punto di partenza della produzione “illimitata”.

Su ciò Commoner stabiliva le sue leggi dell’ecologia, ossia necessarie a chiudere il cerchio interrompendo la crescente alterazione dell’ambiente, detta foriera di catastrofi: “La prima legge dell’ecologia: ogni cosa è connessa con qualsiasi altra.” Ossia c’è interdipendenza tra tutti gli aspetti della realtà (interdipendenza degli esseri nell’essere, che tra l’altro è centrale in tutta la cultura orientale, induista o buddhista o taoista). “La seconda legge dell’ecologia: ogni cosa deve finire da qualche parte. Si tratta di una riaffermazione alla buona di una legge fondamentale della fisica, secondo la quale la materia è indistruttibile. Applicata all’ecologia la legge sottolinea che in natura non esiste lo ‘spreco’. In ogni sistema naturale, ciò che viene eliminato da un organismo, come rifiuto, viene utilizzato da un altro come cibo. (…) La terza legge dell’ecologia: la natura è l’unica a sapere il fatto suo.” Non si altera profondamente senza danno. “La quarta legge dell’ecologia: non si distribuiscono pasti gratuiti.” Insomma, quel che si prende va restituito: l’ambiente vegetale e animale distrutto deve potersi subito riformare. Dall’analisi Commoner ricavava conseguenze catastrofiche se non si fosse cambiato strada al più presto.[13] La leva dello sviluppo ecologico avrebbe dovuto essere, insomma, la coscienza della catastrofe incombente.

Pure molto interessante è la figura dell’economista neomarxista americano James O’Connor, che nel 1988 pubblicò il piccolo importante libro Capitalisme, Nature, Socialism, reso in italiano col titolo L’ecomarxismo (1994) con l’evidente intento di segnalare la nascita di un marxismo ecologico (laddove il marxismo ha sempre valorizzato l’espansione delle forze produttive, tanto da far apparire a taluni Marx come “filosofo della tecnica”[14] e da spingere il socialismo a proporsi, invano, come sistema più espansivo produttivamente). O’Connor rettificava Marx su un punto decisivo. Marx aveva visto ogni economia come un assetto bipolare caratterizzato dalla dialettica tra forza produttive (umane come materiali) e rapporti di produzione (relazioni tra i gruppi sociali, o classi, che partecipino alla produzione); ma ci sono anche – sottolineava O’Connor – le “condizioni di produzione”, che rendono l’economia tripolare: nel senso che andrebbe anche calcolato economicamente l’impatto che i primi due termini hanno sull’ambiente, che renderebbe urgente il superamento progressivo del capitalismo.

In quest’ambito va compresa anche l’elaborazione dell’economista francese Serge Latouche, teorico della cosiddetta “decrescita felice”, per cui si tratterebbe di passare da un’economia incentrata sull’utile ad una a sviluppo zero, basata sulla gioia reciproca del donare, in un contesto conviviale: diminuendo coscientemente lo sviluppo, in nome di una vita gaia.[15] La posizione ha attratto minoranze verdi contigue con l’estemismo anticapitalista e ostili alla globalizzazione economica, ma non sembra realistica.

di Franco Livorsi

(Segue)

 

  1. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti e con Introduzione di B. Bongiovanni, Einaudi, Torino, 1998.
  2. F. LIVORSI, La fine del materialismo, “Critica Sociale”, a. CI, n. 1, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25.
  3. Si confrontino: M. HEIDEGGER, Qual è l’essenza nascosta della tecnica, SugarCo, Milano, 1978; ID., Umanesimo e scienza nell’era atomica, a cura di A. Crescini, La scuola, Brescia, 1984 e E. SEVERINO, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1998.
  4. K. MARX, Il capitale (1867, I), a cura di D. Cantimori e con Predazione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1962.
  5. M. B. (Mercedes Bresso), Entropia, in: R. DELLA SETA e D. GUASTINI, “Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global”, Carocci, Roma, 2007. Si confronti con: M. BRESSO, Pensiero economico e ambiente, Loescher, Torino, 1993.
  6. R. D. S. (Roberto Della Seta), Cambiamenti climatici, in: R. DELLA SETA e D: GUASTINI, “Dizionario del pensiero ecologico”, cit., pp. 90-91.
  7. V. PARETO, I sistemi socialisti (1902), UTET, Torino, 1951.
  8. Rinvio a quanto detto e documentato anche su tali autori nel mio libro Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, pp. 163-190. La citazione da Alexander von Humboldt, tratta da: Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continente (1807/1834), è a p, 183.
  9. Per l’idealismo romantico rinvio alle molte cose qui scritte nei testi anteriori. Ma si veda pure, per Schelling e l’ambientalismo: V. HŐSLE, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1992.
  10. H. BERGSON, Durata e simultaneità (1922), a cura di F. Polidori, Cortina, Milano, 2004.
  11. Si veda: P. TEILHARD DE CHARDIN, La vita cosmica (1916), Il Saggiatore, Milano, 1970 e poi 1982; L’ambiente divino (1957), ivi, 1968, Si confronti col notevole teologo protestante J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione (2007), a cura di G. Francesconi et al., Queriniana, Brescia, 2000. Ma infine si veda: Papa FRANCESCO (Jorge Mario Bergoglio), Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, 18 giugno 2015, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 2015.
  12. I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group, Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, di D. H. Meadows et al., Prefazione di A. Peccei, Mondadori, Milano, 1972.
  13. B. COMMONER, Il cerchio da chiudere, 1971, Garzanti, 1972. Ho analizzato tale opera nel mio: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, pp. 225-238, in cui sono pure le citazioni qui richiamate.
  14. J. O’CONNOR, L’ecomarxismo (1988), Datanews, Roma, 1995. Si confronti, per il Marx teorico dell’espansione senza limiti della tecnica (secondo l’interprete), con: K. AXELOS, Marx pensatore della tecnica. Dall’alienazione dell’uomo alla conquista del mondo (1961), Sugar, Milano, 1963.
  15. S. LATOUCHE, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa (2004), Bollati Boringhieri, Torino, 2005; La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2009.

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