Filosofia del Socialismo

 

 

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 5) La governabilità dello Stato (I)

Pubblicato il 16/08/2020

Lo Stato

Un punto vecchio e tuttavia da riscoprire come qualcosa di nuovissimo, e soprattutto di imprescindibile, sempre in vista di un nuovo pensiero per il XXI secolo, è la questione della governabilità dello Stato e del sistema degli Stati: per noi italiani, naturalmente, con particolare – seppure non esclusivo – riferimento allo Stato nostro proprio, basato sulla Costituzione della Repubblica democratica vigente dal 1° gennaio 1948.

Per intendere la questione è però necessario avere presenti talune tappe fondamentali di un lungo percorso, storico e ideale[1]. Il primo riferimento va alla forma-Stato stessa. Per molti studiosi è pacifico che si parli di Stato sin dalle origini della Storia, per così dire dall’Egitto dei faraoni in poi. Ad esempio Norberto Bobbio la pensava così, con tanti altri[2]. E, in effetti, il ritenere che non si possa parlare di Stato per una costruzione giuridica complessa ed efficace come quella di Roma antica, il cui diritto è ancor oggi studiato come riferimento fondamentale nelle facoltà di Giurisprudenza di tanti paesi del mondo, pare un’assurdità. Ma ci sono studiosi – che fanno particolare riferimento in generale ai teorici della ragion di stato e poi dello Stato-potenza e in particolare a teorici della politica come potere sovrano, come Carl Schmitt e come Gianfranco Miglio[3] – per i quali non è così. Lo Stato, per essi, è solo la forma-Stato che noi diciamo “Stato moderno”.

Naturalmente i “non addetti ai lavori” della Storia, o della Scienza politica, avranno subito l’impressione che queste siano distinzioni buone solo per i “professori” che vogliono spaccare il capello in quattro. La questione è un poco più seria, sol che si pensi a cos’è, per gli studiosi, più o meno unanimemente, lo Stato moderno, detto “tout court” lo Stato: il monopolio territoriale della forza (o se si preferisce della violenza, o del potere di coercizione) da parte di una sola autorità sovraordinata, esercitato “in nome della legge”, che infatti esso impone a tutti. Questa è la “personalità giuridica” dello Stato, che nessun altro deve e soprattutto può avere. Quest’autorità sovraordinata, che s’impone a tutti i cittadini con pretesa di essere la sola legittima, è la “sovranità”, che dello Stato è il tratto forte.

Già questo ci fa vedere tante cose. Ad esempio se sul territorio non c’è ancora, o non c’è più, un’autorità “super partes” – sovraordinata, corpo artificiale – capace di imporre la sua legge bon gré mal gré a tutti, perché la gente lì si fa “giustizia” da sola come le famiglie dei Montecchi e Capuleti in Romeo e Giulietta (1595 circa) di Shakespeare[4]; o se la “gente” questa “giustizia” la ricerca, e crede di ottenerla, rivolgendosi a gruppi privati invece che agli “sbirri” dello Stato”, e ciò sul territorio è accettato come normale, o comunque come inevitabile[5], ciò vuol dire che lì non c’è Stato, o che c’è crisi dello Stato, o c’è estinzione dello Stato, o necrosi di parti vitali dello Stato. Ma non è veramente statale neanche la situazione in cui il potere centrale operi calpestando le leggi stesse che si sia dato, o non garantendone l’applicazione (come al tempo delle famose “grida” di cui parlava l’avvocato Azzeccagarbugli nei Promessi sposi)[6], oppure violandole continuamente mentre sono in vigore, come nelle fasi più tragiche dei totalitarismi.

Possiamo ritenere che lo Stato, nel senso moderno (monopolio della forza territoriale in nome della legge) abbia attraversato diverse fasi, che possono anche dirsi forme di Stato perché si possono anche presentare simultaneamente, in diversi paesi di un continente o del mondo.

Lo Stato assolutista

Dapprima lo Stato “moderno” è assolutista, ossia incentra tutti i poteri fondamentali sul potere del re (o governante), cui la “sovranità” fa originariamente riferimento, com’è evidente. Al più il “sovrano” (o il vertice sovrano dello Stato quale sia l’autorità che lo impersona), può delegare funzioni di comando ad altri: ma sempre garantendosi che siano deleghe revocabili, e non poteri irrevocabili. Il dividere i poteri (da non confondere con gli “incarichi”), per gli assolutisti equivarrebbe allo squartamento dello Stato, a loro dire fonte di guerra civile e di barbarica anomia (sinché si verifichi), come spiegava il francese Jean Bodin in Sei libri dello Stato (1576) al culmine del conflitto tra cattolici e calvinisti (ugonotti) in Francia, e Thomas Hobbes, a ridosso della rivoluzione calvinista (“puritana”) in Inghilterra, nel Leviatano (1651). Chi vuole evitare la guerra civile o comunque la comune rovina dovrebbe, secondo l’assolutismo, non dividere affatto la sovranità dello Stato[7]. In pieno XX secolo lo pensava anche Carl Schmitt, hobbesiano come nessun altro, a lungo prenazista e nazista, convinto che la divisione, liberale, dei poteri avesse pressoché ammazzato la “sovranità” spezzandola, cioè tramortito lo Stato (assoluto) e il sistema degli Stati (assoluti), che prima del 1789, e per taluni versi sino al 1914, era fatto di Stati “sovrani”, che si erano riconosciuti come legittimi persino in tempo di guerra. Al culmine della dannosa divisione dei poteri (o divisione della sovranità), il mondo sarebbe precipitato nell’anomia; e le dittature moderne, d’ogni colore, da Lenin a Hitler, per Schmitt sarebbero state da considerare forme o prove di rinascita dello Stato (cioè dello Stato “assoluto”, o “vero” Stato).[8]

Va ancora precisato che il monopolio della coercizione “in nome della legge” sarebbe una mera velleità se chi detiene la sovranità non poggiasse su un’ampia e articolata macchina del potere (macchina dello Stato), che è in sostanza il corpo dello Stato, di ogni Stato: fatto di burocrati poliziotti e militari di mestiere (ossia delle forze di repressione e amministrazione), una macchina che è così resistente da sopravvivere persino ai maggiori sconvolgimenti storici. I governi passano, e persino le forme di governo cambiano, ma quella macchina deve restare in piedi; o tutto “crollerebbe”.

La nascita dello Stato, a lungo assolutista, si è verificata dalla Spagna alla Russia, tra il XIV e il XVI secolo, in Stati grandi e piccoli: mentre in tanti paesi dell’Africa è ancora in corso, con le conseguenze note. Quelle che chiamiamo dittature, ad esempio del Medio Oriente o dell’Africa profonda, non sono altro che forme di assolutismo da Stato nascente; e la precarietà di tali regimi è connessa all’assenza o meglio estrema debolezza della “macchina” burocratico-poliziesca-amministrativa dello Stato che fa capo al potere sovrano.

Il processo della formazione dello Stato “moderno” (per molti “Stato vero e proprio”) si verifica in tempi diversi, tanto che in taluni paesi come Francia, Spagna e Inghilterra era in via di compimento già nel Basso Medioevo, mentre in altri si è manifestato dopo. Comunque tra 1400 e 1600 accade in gran parte del mondo del cosiddetto uomo bianco, dalla Russia alla Spagna. E, prescindendo da taluni paesi, in cui la crisi dello Stato dell’assolutismo arriva già nel XVII secolo, l’assolutismo dura sino alla Rivoluzione francese del 1789, che dà il colpo di grazia all’assolutismo stesso, anche se questo proverà a rinascere (ammodernato) dopo la caduta di Napoleone, tra il 1815 e il 1830: per defungere definitivamente nel 1848, salvo che in Russia (infatti considerata da Marx come la sentina della “reazione” mondiale, tanto che nel conflitto del 1878 tra russi e turchi Marx, in odio per l’autocrazia del Cremlino, “teneva” per i turchi[9]). Qui però trascuro di proposito il fenomeno delle dittature post-assolutiste, come il bonapartismo (o i bonapartismi) o anche come i fascismi o comunismi di stato, pur diversi, che sono un Giano bifronte (da un lato neoassolutista e dall’altro basato sul consenso persino “attivo” se non di tutto il popolo quantomeno di grandi masse, consenso e coinvolgimento che rende quantomeno improprio l’uso dello stesso termine di assolutismo).

Comunque l’assolutismo vero e proprio – dopo il 1789 freno allo sviluppo vuoi capitalistico e vuoi liberale – in precedenza ha svolto un compito storico importantissimo perché lo stesso capitalismo – prima mercantile e poi imprenditoriale e industriale, incentrato sulla borghesia oppure su una nobiltà fattasi anche imprenditrice (ossia “imborghesita”, come nella repubblica di Venezia o in Inghilterra) – sarebbe stato impossibile senza lo Stato come supporto o protagonista: un supporto, o protagonismo statale modernamente sempre indispensabile sia contro le resistenze, interne a ogni Stato, al sistema borghese, da parte di privilegiati della nobiltà e clero del “passato”, o da parte dei proletari, privati di ogni difesa corporativa e gettati a forza in un mondo nuovo, e sia contro il capitalismo di altri Stati concorrenti. Anche oggi il proletariato, in un tempo di tempestosa nuova rivoluzione industriale informatica e robotica, e nell’era della globalizzazione del mercato mondiale, si getta spesso a destra provando a resistere alla nuova fase del capitalismo appunto globalizzato: anche se come sempre la nuova rivoluzione economica e soprattutto tecnologica sarà più forte, travolgendo le difese che oggi non sono più dette corporative, ma sindacali. Il Welfare state, nato in Stati nazionali più o mano indipendenti nella politica economica, è purtroppo aggredito dal nuovo capitalismo.

Comunque in termini storici è sempre arduo stabilire se sin dall’inizio dello Stato moderno sia stato lo Stato a “fare il gioco del Capitale” o se sia stato il Capitale a fare il gioco dello Stato (tanto “i due” – Stato e Capitale – sono sempre stati “culo e camicia”, sotto tutte le bandiere: azzurre o nere o rosse). Ma mentre su un piano filosofico generale e di filosofia della storia il tema se sia in primo luogo l’economia a fare lo Stato, o se sia lo Stato a fare di più l’economia, è appassionante[10], sul piano della storia fattuale non conta niente: è come stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina. “Simul stabunt et simul cadent”, “staranno e cadranno insieme”, come Marx aveva compreso più di tutti nella relazione tra Stato moderno o macchina, da lui detto “borghese”, e capitalismo. Quando c’è lo Stato – come monopolio del potere costrittivo-amministrativo da parte di una macchina burocratico-amministrativa, tramite chi la domini in nome della legge, e talora “senza legge” – c’è il capitalismo, e viceversa. Se poi a intascare il profitto sia la borghesia privata o la borghesia di Stato (burocrazia-polizia-esercito di professione), è una cosa che interessa il notaio, e non certo chi guardi laicamente le cose o vada a lavorare: almeno dopo le “illusioni perdute” sull’”uovo” o sulla “gallina”, sullo Stato o sul Capitale (che “simul stant”).

Nel XVII secolo l’assolutismo entra in crisi in Inghilterra, prima sotto i colpi della rivoluzione calvinista puritana e, una quarantina d’anni dopo, tramite la “gloriosa rivoluzione” parlamentare del 1689, che assegna al parlamento il potere di votare ogni legge che comporti spesa, pur lasciando al re il potere esecutivo e entro certi limiti giudiziario. Era il segno di una borghesia che non aveva più tanto bisogno del potere regio assoluto per dominare, e lo voleva limitare oppure abolire (troppe tasse inique, troppi privilegi di nobili e prelati fannulloni, e troppo soffocamento delle libere opinioni).

Dopo di che si apre un secolo, il XVIII, di tentata grandiosa autoriforma dell’assolutismo, in nome di una razionalizzazione del reale in ogni campo (Illuminismo, connesso sia alla rivoluzione scientifica del XVII secolo che a quella tecnologica, in Inghilterra già industriale, della seconda metà del XVIII secolo). É l’assolutismo “illuminato”[11], che da un lato vuole ridurre fortemente i privilegi più sfacciati di nobili e clero, e dall’altro dividere il potere giudiziario da quello esecutivo-legislativo, che resta in mano al re. Tutta l’area ex asburgica italiana, il Lombardo-Veneto, è così avanti sul resto, anche oggi, a causa delle riforme di Maria Teresa d’Austria e di suo figlio Giuseppe II, e più in generale del “riformismo dall’alto” asburgico, che aveva a cuore quei territori, che molto rendevano, e per ciò li ammodernava (oltre a spremerli economicamente, “naturalmente”). Cattaneo l’ha dimostrato bene sin dal 1844, in Notizie naturali e civili su la Lombardia.[12] La Milano di Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria – il nonno di Alessandro Manzoni – ha tale timbro, e di lì, dal famoso libro di Beccaria, parte l’abolizione della tortura, e il connesso principio della “presunzione d’innocenza”, per cui l’accusato va considerato innocente sino a prova contraria (e non “fatto cantare” torturandolo: perché l’onere di provare i crimini spetta all’accusa), sicché il preteso reo resta innocente sino a prova contraria, sino alla sentenza; e la pena di morte, almeno in tempo di pace, va abolita perché barbara e inefficace (il che allora persuase tanta parte dell’Europa)[13]. Al proposito ricordo benissimo, in conversari a casa sua in via Sacchi a Torino, del 1993/1994, la costernazione di Norberto Bobbio, parlando degli arresti con prolungata carcerazione preventiva per far parlare accusati di Tangentopoli, che gli pareva “una cosa gravissima” proprio perché minava il “principio d’innocenza”.

Lo Stato liberale

Comunque con il colpo mortale inferto all’assolutismo con la “gloriosa rivoluzione” inglese del 1689 si hanno le prime prove dello Stato del liberalismo, la cui prima grande teorizzazione, il Secondo trattato sul governo (1689) di John Locke[14], è parallela alla “gloriosa rivoluzione” inglese. Il libro Locke l’aveva scritto prima, ma questo dimostra solo che le grandi idee anticipano la prassi, per me acclarando l’idealismo storico. La parola “liberalismo” non esisteva ancora (nascerà solo all’inizio del XIX secolo, al tempo di Napoleone, contro i “liberales”, contestatori del potere dell’imperatore in Spagna o contro gli intellettuali costituzionali), ma sin dal 1689 l’idea, anche senza il nome, c’era. Sorgeva in ambito detto contrattualista: tra coloro che, per altro con radici sin dal Medioevo, distinguevano il “diritto” (jus) “di natura”, che ciascuno di noi avrebbe nativamente, dal piano della legge. (Le ultime propaggini di questo diritto di natura sono le battaglie dei cattolici contro l’aborto o l’eutanasia, che in nome del diritto “naturale”, o naturale-sacro, alla vita, pretendono che lo Stato non lo neghi in nessun caso). In sostanza lo Stato “libero” per Locke non fondava i diritti, ma era chiamato a salvaguardarli. Il diritto vero era prepolitico e il politico doveva esserne il custode, o essere cacciato via (avendo rotto il patto violando il diritto naturale). E questo diritto naturale prepolitico per Locke era la proprietà privata, di cui lo stesso diritto alla vita sarebbe aspetto fondante (proprietà del proprio corpo).

Al confronto l’elaborazione del grande pensatore sociopolitico dell’Illuminismo, Montesquieu, appare più mossa. Da un lato, in polemica con l’assolutismo (che egli chiamava “dispotismo”) riscopriva e idealizzava il potere diretto del popolo sovrano, come nella Repubblica romana antica, aggiornando – in Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734) – l’apologia che già ne aveva fatto Machiavelli in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513/1521 ma 1531) e vedendo la virtù morale-politica come base della potenza della Roma antica, “repubblicana”; dall’altro faceva, nel decisivo Spirito delle leggi (1748), un discorso post-contrattualista, che non opponeva più diritto naturale e diritto politico, ma voleva distinguere, da scienziato sociale – tanto che Raymond Aron lo considererà lo scopritore della sociologia politica[15] – le forme di governo, quali fossero: per lui corrispondenti a tre forme di mentalità collettiva rispetto al potere sovrano. Se prevale lo spirito collettivo (la “virtù” dei cittadini) si ha l’autogoverno, la “repubblica”. Se prevale la “paura” nei confronti del governo si ha il “dispotismo”. Se prevale l’orgoglio di ceto, quale sia il ceto, ma ovviamente come nei nobili, cioè “l’onore” (il sentimento del farsi onore, l’orgoglio di quel che si sia), e quindi anche una certa propensione alla “moderazione”, al compromesso permanente tra le parti, si ha la “vera” monarchia, che poggia appunto sul senso dell’onore in una società di ceti, e soprattutto nell’élite del potere.

Ma per evitare il dispotismo – che può sempre emergere se i cittadini della libera repubblica diventano corrotti, oppure se il governo delle minoranze cetuali finisce nelle mani di un padrone che faccia paura – per Montesquieu c’era un solo rimedio: la divisione tra i tre poteri fondamentali dello Stato, molto più precisa che in Locke, anche se il modello guardava espressamente alla costituzione inglese.[16] E infatti lì Montesquieu scriveva: “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura [istituzione centrale di governo] il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca [potere esecutivo] o lo stesso senato [sempre potere esecutivo, come nell’élite governante a Venezia] facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo [magistratura con potere su chi opera in parlamento, più o meno come in Italia dopo il 1994], il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore [diverrebbe arbitro della vita parlamentare]. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore [imporsi all’esecutivo, o esserlo]. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati.”[17]

Dopo l’Illuminismo e dopo l’assolutismo illuminato, come si sa esplode la Rivoluzione francese, repubblicana, democratica e più oltre culminata nella dittatura prima rivoluzionaria (Robespierre) e poi riformista borghese (Napoleone), che subito coniuga insieme nuovi rapporti privatistici o borghesi (Codice civile) e imperialismo espansionistico. Nel frattempo la cultura, a partire dalla Germania, tendeva all’infinitizzazione dell’uomo e della natura, alla rivalutazione delle grandi passioni a lato o persino al di là della ragione, e anche a un senso forte della nazione (Romanticismo).

Poi Napoleone crolla e, dopo una fase ora estrema (Russia e Austria) e ora moderata (Inghilterra e Francia) di Restaurazione, emerge su scala multinazionale lo Stato ulteriore sia all’assolutismo regio che al dispotismo riformista borghese (napoleonico). (Naturalmente semplifico tutto, indicando solo i passaggi).

A questo punto, su un piano non solo a isole (Olanda, Inghilterra), ma continentale, nasce il pensiero politico (in senso proprio) e lo Stato di tipo liberale. Il massimo esponente del liberalismo moderno è stato Benjamin Constant. Il solo valore del liberalismo è la liberté, intesa innanzitutto come libertà degli individui in quanto singoli. Constant, nel saggio La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1818), riprendeva la famosa querelle, viva tra i letterati sino al XVII secolo (e in parte al XVIII) sulla superiorità o meno dei modelli d’arte o letteratura degli antichi oppure dei moderni, applicandola alla politica. Sosteneva che gli antichi, quando i loro assetti erano stati liberi, avevano inteso la libertà come “partecipazione” dei cittadini “liberi” alle decisioni collettive, in ogni ambito (libertà di essere coinvolti in tutte le decisioni d’interesse comune, democrazia diretta). La loro era stata la libertà dell’uomo pubblico, appunto partecipativa. Per contro la “libertà dei moderni” non è già libertà nello Stato, ma “dallo Stato” (“libertà da”, per cui sono sempre libero “da qualcosa” e “da qualcuno”, e se no, no; sono sempre libero se non dipendo; sono libero – in una parola – non come uomo pubblico, ma come uomo privato). L’uomo della libertà partecipativa era (è) in realtà schiavo degli orientamenti collettivi, spesso ciechi e dogmatici, mentre per Constant io sono libero se nessuno mi determina (“non determinazione”), nella sfera della mia proprietà e delle mie opinioni, religiose e non. Altrimenti si cadrebbe o ricadrebbe nell’assolutismo dello Stato, sia esso uno Stato ultrademocratico o apertamente dispotico. Perciò considerava i democratici repubblicani, seguaci di Rousseau come di Robespierre (ma certo sarebbe valso pure per Hegel e soprattutto Marx se li avesse conosciuti o potuto conoscere), come degli antichisti politici, che volevano far rivivere un mondo del cittadino collettivo (antico), in realtà molto meno libero, oltre che morto e sepolto. Ma per evitare l’assolutismo non bastava esaltare la proprietà privata (liberisticamente), ma era necessario dividere la sovranità dello Stato: era indispensabile la divisione dei poteri, spiegava nel fondamentale Cours de politique constitutionelle (1837). Più la divisione dei poteri è vasta, più si sarebbe liberi. Infatti elaborava un modello istituzionale in cui la sovranità non era divisa solo in tre (legislativo, esecutivo e giudiziario), ma di più: potere di conservazione (re); potere legislativo, bicamerale, frutto di suffragio ristretto, con una Camera elettiva (dei deputati) ed una ereditaria (senato), alimentata da possibili nuovi nobili nominati dal re; e potere dei giudici.[18] Lo Stato era inteso come esplicita longa manus dei proprietari (borghese in senso stretto). Tutti i cittadini erano ritenuti uguali davanti alla legge e liberi nelle opinioni, ma c’erano cittadini in senso passivo (tutti), cittadini elettori (paganti tasse) e cittadini elettori ed eleggibili (quelli che pagavano più tasse). Lo Stato era di chi lo alimentava finanziariamente, borghese in senso stretto, censitario (come una specie di società per azioni, in cui chi più paga più ha potere). Sarà così anche nell’Italia liberale, in cui nel 1861 votavano in seicentomila su 22 milioni, e dal 1882 in due milioni su 28 milioni e solo dal 1913 si voterà a suffragio universale (maschile).

Il liberalismo, in sostanza è un assetto che mette al primo posto la “libertà” (degli individui), in specie di proprietà e d’opinione, basata politicamente sulla più totale divisione e bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato.

Lo Stato liberale democratico

Lo Stato liberale – oltre ad essere sinonimo di libertà di proprietà e di libertà d’opinione, è dunque sinonimo di divisione e bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato (e non di democrazia). Tuttavia la storia ulteriore dimostrò che la divisione dei poteri, senza la quale il governo ingoia ogni libertà, non può sopravvivere senza democrazia, senza suffragio universale. Insomma, s’impone la democrazia liberale, a dispetto del liberalismo classico. Il primo a studiare a fondo, in una chiave che oggi si direbbe da sociologo della cultura e da politologo oltre che da osservatore appassionato, il rapporto di possibile – anche se non facile – legame tra liberalismo e democrazia è stato il liberale francese Alexis de Tocqueville, nella grande opera La democrazia in America (1835/1840). Egli fu il primo a comprendere che la democrazia, già in atto in America, sarebbe arrivata ovunque; che essa, piacesse o meno, era un futuro ineluttabile, tanto che persino gli antidemocratici avrebbero fatto il suo gioco, senza volerlo, dopo la loro inevitabile sconfitta (ritrovandosela sempre più forte di prima, come avessero fatto il suo gioco). L’individualismo liberale nord-americano, che non credeva che la libertà e le riforme fossero concessioni statali, bensì frutto di iniziativa dal basso (dei singoli), dimostrava che liberalismo e democrazia – libero mercato, libere opinioni e autogoverno – erano conciliabili (come “libertà dallo Stato” e libertà nello Stato”); ma evidenziava pure un grande pericolo di schiacciamento del singolo da parte dell’opinione pubblica, o prevalente, intorno a lui. Quella sarebbe stata comunque l’opzione del futuro. Tocqueville accettò quindi la rivoluzione democratico repubblicana del 1848 in Francia, diventando pure ministro degli esteri (anche nel tempo buio della repressione della Repubblica romana, nel 1849, per far piacere al papa e accattivarsi, come governo liberal-conservatore, il consenso dei cattolici francesi). Si appartò poi, critico, quando Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di Napoleone, da presidente elettivo si fece “Imperatore” dei francesi, inaugurando la serie delle dittature conservatrici sanzionate da plebisciti, che nel nuovo secolo si sarebbe poi riproposta come fascismo, in forme nuove[19]. Su ciò resta sempre da rileggere il bel libro scritto a caldo da Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852)[20].

Comunque la lezione del 1848 europeo, per il tema che m’interessa qui, fu che il liberalismo poteva durare, e sarebbe durato, solo come “democrazia liberale”, capace di tenere insieme la rappresentanza del popolo, tramite suffragio universale e alcune riforme “sociali”, e divisione-bilanciamento dei tre poteri dello Stato; e che ove ciò non fosse stato fatto, o non fosse stato possibile, avrebbero ormai vinto non già forme riciclate del vecchio assolutismo monarchico, ma forme di dispotismo di tipo nuovo, con basi di massa e alimentate da un nazionalismo aggressivo (oppure la dittatura “rossa”). Il reazionario spagnolo Juan Donoso Cortès, nel suo Discorso sulla dittatura (1849), in cui contrapponeva non più assolutismo legittimista e rivoluzione, ma “dittatura della spada” (di destra) e del pugnale (di sinistra), l’aveva già compreso e teorizzato, come ben dimostrerà nel XX secolo un grande politologo filonazista suo estimatore, Carl Schmitt[21].

Lo Stato democratico

Per molto tempo si ritenne che la democrazia liberale potesse essere surrogata tramite forme più avanzate, o dalla democrazia repubblicana o dalla democrazia incentrata sull’autogoverno dei proletari o dalla dittatura “proletaria”.

La prima posizione, che ha teso a conciliare democrazia diretta e democrazia rappresentativa, popolo sovrano e rappresentanza, ha avuto come padre nobile il Rousseau più maturo, del Contratto sociale (1762) e, più oltre, il repubblicanesimo, in Italia mazziniano. Leggendo le cose superficialmente il discorso del Rousseau maturo sembra ingenuo. Egli è il primo grande critico della “classica” libertà liberale, tanto da affermare che “Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente”[22];. A quella libertà, per lui del tutto insufficiente, oppone l’autogoverno popolare: la democrazia che oggi si direbbe referendaria, del cittadino collettivo che delibera le leggi in prima persona: un modello di “democrazia diretta” costruito tenendo insieme referendum popolari e autogoverno dei cittadini nelle libere città-stato degli antichi.

Ma leggendo un poco meglio si scopre che Rousseau rileggeva “semplicemente” in chiave democratica lo Stato dell’assolutista Bodin. Là la sovranità era tutta del sovrano, che poteva esercitarla in proprio oppure tramite poteri delegati, purché revocabili da lui in qualunque momento.

In pratica Bodin aveva stabilito una vera differenza tra sovranità e governo. La sovranità, per lui ovviamente indivisa e indivisibile, era del re, ma il re poteva formare il governo prendendo ministri suoi (governo regio) o nobili scelti (governo aristocratico) o di ogni ceto (governo democratico). Rousseau prendeva il modello di Bodin sostituendo al “sovrano”, titolare esclusivo della sovranità, il popolo (detto spesso “nazione”). La sovranità del popolo sovrano, detta “volontà generale”, sarebbe assoluta e indivisibile, scaturente sì da una maggioranza deliberante, ma valida subito per tutti, senza che la minoranza potesse organizzarsi (in “associazioni”) per diventare maggioranza, spezzando una sovranità che avrebbe dovuto restare una e indivisibile.

Il repubblicanesimo confermerà il roussoismo per molti aspetti. Il vero sovrano è il popolo (ecco la novità del repubblicanesimo democratico, non necessariamente “illiberale”, ma post-liberale: ulteriore all’”individuocentrismo”). Si badi, però, che questo discorso di Rousseau e del repubblicanesimo democratico è così poco astratto che coincide con il pensiero della nostra Costituzione, in cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso la sua rappresentanza. C’è però una differenza da Rousseau e dal successivo giacobinismo. Per essi il popolo era un’entità unitaria, tanto che Rousseau era contrario alle “associazioni politiche” (che noi chiamiamo “partiti”), prefigurando per lo Stato un assetto molto simile a quello che abbiamo conosciuto nei partiti comunisti e in particolare nel PCI e che lì si chiamava centralismo democratico. Il voto è libero, l’opinione del “compagno” (in Rousseau “cittadino”) era libera, ma erano vietate le correnti (i partiti in seno al popolo-uno). Per Rousseau c’è un solo decisore unitario: il popolo sovrano, che sanziona le leggi, che debbono essere poche, sempre sanzionate col suo voto diretto (in modo che diciamo referendario).

La democrazia dei partiti

Ma questo punto, contro le “associazioni”, fu già corretto da Tocqueville, che nella Democrazia in America vedeva come antidoto a una “volontà generale” (roussoiana, giacobina, repubblicana), diciamo pure “democratica”, che avrebbe schiacciato l’individuo obbligandolo a sentire-pensare come tutti, cioè conformisticamente, proprio le “associazioni” (là in America di ogni tipo; ma che in seguito saranno, tra XIX e XXI secolo, nella vecchia Europa, soprattutto i partiti e i sindacati). Il riferimento va alla democrazia liberale e repubblicana “dei partiti”.

Lo spostamento della sovranità dal sovrano (assolutismo) ai singoli individui “liberi” e “indipendenti” economicamente (liberalismo), o d’ogni condizione (democrazia liberale, poi evolutasi in democrazia come sovranità del “popolo” o “nazione”, sino alla democrazia dei partiti), “da noi” fu ripreso vuoi dal comunismo democratico italiano, e di matrice neoidealistica oltre che marxista, di Gramsci e Togliatti, e vuoi, soprattutto, da Lelio Basso (come leader dei socialisti alla Costituente e come ideologo marxista democratico della nostra Costituzione). Gramsci e soprattutto Togliatti, che al primo si rifaceva, vedevano i partiti come “articolazioni dello Stato”[23] : Stato dei partiti, che democratizzava il “socialista” Stato “del Partito”, “sovietico”[24].

Lelio Basso, comunque, fu colui che fece inserire nella Costituzione il principio, assente nelle altre costituzioni liberaldemocratiche, sui partiti: il famoso articolo 49, per cui “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” Tornava su questi temi nel 1958, quando il “miracolo economico” da un lato e il superamento dello stalinismo dall’altro sembravano rendere possibile una politica di alternativa democratica di sinistra, che pareva aprire una prateria all’iniziativa riformatrice dei socialisti. Egli allora scriveva l’importante libro Il principe senza scettro (1958), sostenendo che “La Costituzione italiana vuole che il popolo eserciti effettivamente il potere sovrano e deve quindi tener conto dell’intima varietà e differenziazione del popolo stesso: da ciò una molteplicità di modi e forme di partecipazione destinate a realizzare un maggior grado di diffusione del potere, il carattere permanente di questa partecipazione popolare, che fa sì che la vita politica non si esaurisca nell’ambito parlamentare, la necessità di una presenza attiva dell’opposizione come momento essenziale del potere sovrano, infine la necessità che la pubblica amministrazione, essendo al servizio del sovrano, cioè del popolo intero e non del governo (perché del ‘popolo’ è la ‘sovranità’ secondo la nostra Costituzione), sia assolutamente imparziale di fronte a tutti i cittadini e nel conflitto permanente delle idee e delle correnti politiche”[25]. Basso spiegava che proprio tramite i partiti il popolo sovrano può esercitare il potere non solo formando col suo voto ogni cinque anni il parlamento, ma facendo politica tutti i giorni, se al cittadino aggradi, tramite il partito in cui si riconosca. Era anche uno dei punti chiave dei suoi interventi nel convegno su Stato e Costituzione realizzato da Comune di Alessandria e ISSOCO nel 1975.[26]

Questa stessa tendenza in casa comunista ha riscontro soprattutto nelle posizioni di Pietro Ingrao, che a mio parere è stato il vero continuatore di Togliatti, ma senza gli scheletri nell’armadio dello stalinismo, che c’erano nel suo maestro: in pratica Ingrao voleva spingere al massimo l’idea presente anche nella Costituzione, ma non senza contraddizioni, della democrazia partecipativa chiamata a bilanciare quella puramente parlamentare e rappresentativa, come si vede nel suo maggior libro, Masse e potere. Crisi e terza via (1977).[27]

Quest’impostazione costituzionale progressista, marxista democratica e di sinistra, sin dalla Costituente del 1946/1947 convergente con il cristianesimo democratico di sinistra (da Dossetti a Moro), ebbe molte conseguenze: talune assolutamente benedette, talune disdicevoli e talune tali da mostrarne il punto debole di fondo teorico e soprattutto politico-istituzionale.

La conseguenza benedetta fu il Welfare State che ci ritroviamo, dai tanti diritti della persona, via via ampliati, al sistema pensionistico e sanitario, frutto di un amalgama tra i grandi sindacati e tra i grandi partiti di massa, governanti o convergenti in momenti decisivi in parlamento: in un quadro associativo a lungo molto forte che resse dal 1946 al 1993: finché il crollo del comunismo da un lato e la crisi di Tangentopoli dall’altro non fecero saltare tutto quell’assetto: in pratica la Repubblica dei partiti, nata dalla Resistenza, che era stata essa stessa una coalizione tra liberi partiti (nel CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale). Iniziava la crisi della democrazia in Italia.

di Franco Livorsi

(Segue)

  1. Su ciò rinvio particolarmente a: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008 e, dello stesso: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, ivi, 2003.
  2. N. BOBBIO, Stato, in: AA.VV., Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1981, pp. 453-513 e soprattutto 444-446.
  3. Per tutta questa problematica si veda: P. SCHIERA, Stato moderno, in: Dizionario politico, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, UTET, Torino, 1990, ma v. edizione TEA, Milano, 1990, pp. 1128-1134. Si veda inoltre: C. SCHMITT, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972.
  4. W. SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta (verso il 1594), con trad. di S. Quasimodo e testo a fronte, in: Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, Le tragedie, a cura di G. Melchiori, Meridiani Mondadori, 1976, pp. 1-261.
  5. A. MASTROPAOLO, Mafia, in: Dizionario politico, TEA, cit., pp. 596-597.
  6. A. MANZONI, I promessi sposi (1827), Introduzione di A. Moravia, Einaudi, 1961.
  7. J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), trad. it. a cura di M. Isnardi Parente nel I vol. e poi soprattutto di D. Quaglioni nei vol. II e III, UTET, Torino, 1988/1997.T. HOBBES, Il Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, Firenze, 1976.Rinvio pure a: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 101-104 e 115-120.
  8. C. SCHMITT, La dittatura (1921), Laterza, Roma-Bari, …; Le categorie del politico, cit.; Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum” (1950 e infine 1974), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1991. Su ciò sono da vedere soprattutto: P. P. PORTINARO, La crisi dello “jus publicum europaeum”. Saggio su Carl Schmitt, Comunità, Milano, 1982; C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996.
  9. K, MARX, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, Il saggiatore, Milano, 1960.
  10. Rinvio ad alcuni miei contributi in proposito, oltre che alle molte osservazioni in proposito nel presente testo: Note su struttura e sovrastrutture, “Il pensiero politico”, a. XIX, n. 3, 1987, pp. 395-400; Fine del materialismo, “Critica Sociale”, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25; “Essere sociale e coscienza nel materialismo storico di Marx”, “La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storico”, “Idee per una concezione psicologica della storia”, in: Coscienza e politica nella storia, cit., pp. 107-120; pp. 253-298.
  11. Su ciò si vedano soprattutto: G. RICUPERATI, Il pensiero politico degli illuministi, in: AA.VV., Storia delle idee politiche economiche e sociali, a cura di L. Firpo, UTET, 1975, II, pp. 245-402; V. FERRONE, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione, Laterza, 1989; M. BAZZOLI, Il pensiero politico dell’Assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
  12. C. CATTANEO, Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) – La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), a cura di F. Livorsi (primo testo) e R. Ghiringhelli (secondo testo), con Presentazione di E. A. Albertoni, Oscar Mondadori, Milano, 2001.
  13. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965.
  14. J. LOCKE, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, 1948. Si veda pure quanto ho scritto su Locke nel mio I concetti politici nella storia, cit., pp. 120-125.
  15. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Introduzione di G. Sasso, Premessa al testo e note di G. Inglese, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984, ma si confronti con: C.-L. de Secondat de MONTESQUIEU, Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), a cura di M. Mori, Einaudi, Torino, 1980. Per il riferimento a Montesquieu come primo grande sociologo si veda: R. ARON, Le tappe del pensiero sociologico. Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, Oscar Mondadori, Milano, 1976 e ora 1989.
  16. C.-L. de Secondat de MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi (1748), Prefazione di G. Macchi, Introduzione cronologia bibliografia e commento di R. Derathé, BUR, 1989, due volumi. Si veda la parte sulla divisione dei poteri al Libro XI, cap. VI, pp. 309-320. Si veda pure: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia, cit., pp. 140-143.
  17. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, cit., Libro XI, cap. Vi, cit., p. 310). Ho posto tra parentesi quadra i miei commenti di chiarimento o esemplificazione. Su ciò rinvio pure a: F. LIVORSI, Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 59-61.
  18. B. CONSTANT, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni (1818)a cura di G. Paoletti, seguito da: P. P. PORTINARO, Profilo del liberalismo, Einaudi, Torino, 2005.
  19. A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America (1835 e 1840), in: “Scritti politici”, a cura di N. Matteucci, UTET, Torino, 1968-1969, due voll. Si confronti con: N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Angeli, Milano, 1985. Si veda pure il cap. “La coscienza liberale e democratica nel XIX secolo. Da Constant a Cavour”, in: F. LIVORSI, Coscienza e politica nella storia, cit., pp. 9-50.
  20. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852),a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1964.
  21. J. F. DONOSO CORTÉS, Discorso sulla dittatura (1849), in: “Antologia degli scritti. Il potere cristiano,” a cura di L. Cipriani, Morcelliana, Brescia, 1965. C. SCHMITT, Donoso Cortès (1922/1944), Adelphi, Milano, 1996.
  22. J.-J. ROUSSEAU, Contratto sociale (1762), in: “Scritti politici”, a cura di P, Alatri, UTET, 1970. Si veda la critica alla democrazia rappresentativa inglese al Libro IV, cap. II, p. 802, e poi 811-814 e, in generale sul pensiero politico di Rousseau si veda pure: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia, cit., pp. 144-151.
  23. Su ciò si veda soprattutto: P. TOGLIATTI, Gramsci, a cura di E, Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1967, con particolare riferimento alla relazione del 1957 su Gramsci e il leninismo. Rinvio pure alle pagine su Gramsci e Togliatti nel mio Coscienza e politica nella storia, cit., pp. 228-248.
  24. Va però ormai dato per acquisito che dove la democrazia è “del partito”, di un solo Partito, anche operante nel nome del proletariato come nei paesi comunisti, di democrazia non ce n’è una briciola: non solo perché senza opposizione non c’è democrazia, ma anche perché in paesi del genere al potere è sempre stata la burocrazia, che si diceva o credeva comunista. Quel dispotismo “rosso” ha potuto anche dinamizzare, in aree molto arretrate semifeudali, l’economia, e persino dare una sorta di Welfare State alla “povera gente”, in genere minimale e al prezzo di molta violenza, ma non ha certo mai incarnato la “volontà generale” del popolo, o del proletariato.
  25. L. BASSO, Il principe senza scettro, Feltrinelli, Milano, 1958. V. soprattutto p. 180. L’opera è stata riedita nel 1998 con Prefazione di S. Rodotà. Si confronti con: F. LIVORSI, Antifascismo, Resistenza e Costituzione nell’esperienza politica di Lelio Basso, “quaderno” dell’Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Alessandria, a. II, n. 2, 1979, pp. 88-105. Tutto il numero della rivista raccoglieva le relazioni di un convegno organizzato dall’Istituto e dal Comune a Alessandria.
  26. Su ciò si veda in particolare: AA.VV., Stato e Costituzione. Atti del convegno dell’ISSOCO e del Comune di Alessandria, a cura di F. Livorsi, Marsilio, Venezia, 1977.
  27. Il libro fu pubblicato dagli Editori Riuniti.

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