Filosofia del Socialismo

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 5) La governabilità dello Stato (III)

pubblicato il 09/09/2020

I maggiori protagonisti del PSI e del PCI dopo il 1960 non riuscirono a comprendere che l’Italia non era più il Paese prevalentemente agricolo e scarsamente democratico, “capitalisticamente arretrato”, in cui aveva potuto nascere e durare per decenni il fascismo. Non riuscirono a comprendere che – almeno nelle zone da sempre egemoni nel Paese, con particolare riferimento alla Valle Padana, e più in generale a tutta l’Italia del nord e del centro – si era ormai in pieno neocapitalismo europeo, anche in termini politici e ideali, oltre che economici. E comunque per fare il fascismo in Europa, in Italia e in Germania, c’erano voluti, direttamente alle spalle, sconvolgimenti epocali come la Grande Guerra e come la crisi del 1929. Senza di essi Mussolini e Hitler sarebbero stati una nota a pié di pagina, Di conseguenza i rischi di dittatura in Italia erano ormai molto limitati, se non nulli. La democrazia, intorno al 1960 era ormai un valore forte, o quantomeno destinato a diventare sempre più forte, persino puntellato ulteriormente da quello che era detto “miracolo economico”, per la grande maggioranza degli italiani. Anche se poteva ancora esserci una minoranza, diciamo del 10%, che da destra o da sinistra sognava la conquista violenta del potere, e che voleva la dittatura o nera o rossa, il 90% aveva già altro sentire. E se, oltre a ciò, ma pure correlativamente, si fosse minimamente compreso, non come formuletta di propaganda, il discorso di Gramsci sull’”egemonia”[1], si sarebbe potuto capire in anticipo che gli antagonisti estremi, con la loro violenza odiatrice o omicida nei confronti degli avversari specularmente opposti, non persuadevano e non avrebbero mai più potuto persuadere – tanto più durevolmente – grandi masse di persone, ma solo seminare lutti e rovine: per gli altri e pure per loro stessi. La grande maggioranza dei cittadini sapeva che in democrazia si stava meglio, e si era meno oppressi, e c’era più benessere, e se si avevano imprese si facevano migliori affari col resto del mondo. Dal 1900 al 1945, e in parte pure per un bel po’ di anni dopo, non era stato affatto così, né a livello dei rapporti tra forze politiche e sociali e neanche a livello della cultura alta come diffusa (o lo era stato assai meno). In Italia sin dagli anni Sessanta, o almeno dalla metà di essi, era così per la grandissima maggioranza, anche per i comunisti italiani, quantunque filosovietici (purché quel “paradiso” se ne stesse ben lontano dal nostro Bel Paese).

Alla vigilia del centrosinistra organico di fine 1963 venne fuori, è vero, un generale dei carabinieri considerato “golpista” (Giovanni de Lorenzo). E taluni accusarono il Presidente della Repubblica del tempo, il democristiano moderato Antonio Segni, di essere connivente con questo generale monarchico con velleità golpiste, mai neppure tentate, ma a quanto pare ipotizzate nero su bianco, e non certo per fare della “letteratura”. Poi a Segni sarebbe venuto un colpo apoplettico, secondo alcuni tra “color che sanno” al culmine di un drammatico confronto con Saragat, che l’avrebbe minacciato di accusarlo di “alto tradimento” di fronte al Parlamento, a quel che mi venne raccontato allora (fosse ciò vero, esagerato o falso). Nenni si affrettò ad accettare il governo con Aldo Moro, già segretario della DC al tempo di Tambroni, e ora traghettatore della stessa verso l’alleanza col PSI, dicendo di sì alla rottura con i comunisti ovunque, persino nel governo locale delle zone più rosse. Aldo Moro era stato scelto dai dorotei, corrente risultata maggioritaria nella DC, in quanto era sì un convinto riformista cristiano, sin da quando era un professorino alla Costituente, ma sempre “con giudizio”; inoltre era anche un cloroformizzatore formidabile delle posizioni di sinistra, senza l’impeto “allora” riformista di Fanfani (che poco prima, con l’appoggio esterno del PSI, aveva realizzato la scuola media unica e nazionalizzato l’energia elettrica: il che però avrebbe fatto perdere alla DC due milioni di voti moderati nelle elezioni politiche del ’63, mentre pure il PSI perdeva, per ragioni opposte, ossia per aver troppo aperto alla DC contro il PCI, “solo” mezzo milione di voti, a favore del PCI, che era il solo grande partito ad essere andato avanti in quella tornata[2]). Nenni, in quel fine 1963 in cui accettò l’alleanza storica con la DC alle condizioni dell’ala moderata della stessa, parlò di “un rumore di sciabole”, che l’aveva deciso ad accettare[3]. Quello che però Nenni non comprese era che quello sciabolare non era la prosecuzione della “trama nera” reazionaria che in Italia sarebbe venuta da un’arretratezza secolare (evocata dal capo del PCI nel Discorso su Giolitti del 1950 come una costante storica nazionale), ma l’estremo rigurgito della reazione, il suo colpo di coda: una reazione ormai velleitaria, espressa dal suo capo – questo generale monarchico con la caramella all’occhio, incaricato di dirigere tutti i servizi segreti dello Stato (del SIFAR) dal 1955 al 1962 – persino utile ai moderati come Moro stesso per vincere le ultime ritrosie di sinistra dei socialisti. Infatti de Lorenzo non fu nemmeno processato, ma eletto parlamentare nelle liste del Movimento Sociale Italiano.

Il punto chiave è il capire che in Italia c’era ormai il neocapitalismo, italiano ed europeo, su cui l’Istituto Gramsci, che allora non era prevalentemente commemorativo di Gramsci e del PCI dei vecchi tempi, ma il cervellone della sinistra, intorno al ’62-63 fece importanti convegni.[4] Ma nonostante gli apporti più avanzati, i comunisti e i socialisti – almeno nelle loro componenti di gran lunga più rappresentative – restavano fermi alle analisi del 1944/1950 sul capitalismo italiano sempre arretrato e sulla reazione nera sempre all’uscio, e sull’unione sacra per ciò necessaria contro “la reazione”, ritenuta sempre dietro l’angolo. La tendenza era rafforzata da taluni eventi che parevano confermare tale erronea lettura. In Grecia ci fu il golpe militarista dei colonnelli (durato dal 1967 al 1974); e anni dopo il Fronte Popolare vittorioso di Salvatore Allende in Cile, al governo, fu travolto dalla sanguinaria dittatura nera del generale Augusto Pinochet (dall’11 settembre 1973 al marzo 1990). Da ciò il segretario del PCI, Enrico Berlinguer – credo dopo alcune oscillazioni sulla linea da tenere – nel settembre-ottobre 1973 trasse la conseguenza della totale validità della linea dell’unità di tutti i democratici contro la reazione, e della democrazia fondata non sull’alternativa alla DC ma sull’alleanza con essa, proponendo il “compromesso storico” tra comunisti socialisti e cattolici, aperto a tutti i democratici: un compromesso (tra aree socio-politiche diverse), ma di lunga durata (storico), ritenuto via democratica al socialismo, da prepararsi tramite governi di unità nazionale (perché in Cile si sarebbe visto che fine faceva la sola unità della sinistra, socialcomunista, cioè il fronte popolare anche democraticamente vittorioso).[5]

Nonostante il grande fascino che Berlinguer, come leader effettivamente d’alto profilo morale, esercitava su tutti i comunisti e su gran parte della sinistra, e persino su molti avversari, la sua proposta – pur approvata, come sempre pressoché da tutti nel PCI – suscitava molte perplessità a sinistra. Dopo anni di contestazione operaia e studentesca; dopo l’autunno caldo del 1969; dopo un’ascesa ininterrotta della sinistra e dei grandi sindacati dal 1948; e comunque, manifestamente, dal luglio 1960 in poi: un 1960 a partire dal quale la sinistra politica sindacale e persino culturale era avanzata per tredici anni consecutivi; dopo anni di polemiche con i socialisti succubi della DC (col Nenni “rosso antico” e tutti gli altri), l’idea che lo sbocco politico potesse essere un governo senza confini (se non contro i fascisti), imperniato sull’alleanza con la DC, fu poco compresa da tutti coloro che non fossero dirigenti o attivisti del PCI, e oltre a tutto di stretta osservanza. La storia era cambiata, ma i Nenni, i De Martino come Berlinguer la interpretavano sempre come se incombesse il capitalismo reazionario: il fascismo (che tra l’altro al suo tempo non era stato solo capitalismo retrogrado e reazionario, ma un tentativo di espandere il capitalismo attraverso l’autoritarismo politico e l’imperialismo militare, fallito – specie sul secondo terreno – per ottime ragioni).

Oltre a tutto Berlinguer faceva cadere persino l’ultima foglia di fico o rivoluzionaria, o per la democrazia dell’alternativa socialista e democratica, del “gramsci-togliattismo”: la teoria dei blocchi storici in alternativa che si rafforzano spostando nel proprio campo forze affini dell’altro (sinistra da una parte e destra dall’altra), mettendo in alternativa un polo apertamente riformatore ed uno conservatore moderato, cioè procedendo verso l’alternativa democratica (o di sinistra oppure di destra). Infatti – pare sotto l’influsso del “cattocomunista” Franco Rodano[6] – Berlinguer non postulava alcuna rottura della stessa DC, ma anzi un rapporto soprattutto duale tra PCI e DC.

Allora queste cose mi appassionavano, ma non sono mai riuscito a capire – se non in termini di limitatezza della visione politica – come si potesse pensare che il PSI, da sempre o protagonista o comunque decisivo per la sinistra che volesse governare, avrebbe potuto accettare un ruolo del genere, di mero terzo incomodo o fratello minore o subalterno tra PCI e DC (che lo faceva non più risolutivo per fare maggioranza come nel frontismo, e lo rendeva vaso di coccio tra i vasi di ferro della DC e del PCI), se non voleva scomparire confluendo nel PCI come aveva fatto il PSIUP nel 1972. Il ruolo di “socio di minoranza” tra i tre era stato sì accettato dal segretario del PSI tra 1969 e 1976, Francesco De Martino, convinto di dover superare, in senso neosocialista, la divisione dei comunisti dai socialisti del 1921 cominciando con l’aprir loro la maggioranza di governo, e facendo persino a freddo una crisi di governo nel dicembre 1975 per ottenerlo; ma così nelle elezioni del giugno 1976 mentre il Partito Socialista – che nel 1946 per la Costituente aveva avuto un po’ più voti del PCI – scendeva sotto il 10% (9,64%, perdendo il 4%), il PCI balzava così avanti (34,37%, con quasi 5% in più, preso al PSI), che prima di quelle elezioni politiche temeva persino di mettere in crisi il sistema superando la DC (che poi ottenne il 38,71%). Perciò il PSI costrinse De Martino a dimettersi. Allora diventò segretario del PSI., inizialmente sottovalutato, Bettino Craxi[7], socialista autonomista milanese già molto legato a Nenni, ma in odore di antico anticomunismo. Era però asceso col sostegno della sinistra lombardiana. Dapprima Craxi cercò, ancora al congresso di Torino della primavera del 1978, il dialogo col PCI. Propose al PCI, che dal 1976 sosteneva un monocolore democristiano “verso la solidarietà nazionale” presieduto da un tipino come Andreotti, di sostenere un possibile governo Craxi, il quale in tal caso si sarebbe apertamente proposto come premier a nome di tutta la sinistra, smettendo così di essere schiacciato tra PCI e DC, assumendo almeno la direzione nel rapporto DC, PCI e PSI. Fu respinto, e così spostato via via su posizioni sempre più visceralmente anticomuniste.

Oltre a tutto il contesto era reso ulteriormente tragico dal terrorismo. Dapprima c’era stato un terrorismo nero, che tramite lo spaventoso e criminale stragismo[8] voleva fermare un’alternativa socialcomunista cui, come sempre, credeva molto più della sinistra stessa. In perfetto parallelismo, ma un paio d’anni dopo, nacque un terrorismo rosso, già verso il 1971-1972, che negli anni si articolò in due componenti: una (“Brigate Rosse”), nata prima, che pur essendo di una spaventosa inconsistenza ideal-politica, faceva, a livello di Bignami di marxismo-leninismo, la stessa analisi sul capitalismo e sulla fase storico politica fatta dal PCI, traendone però opposte conseguenze (ossia ricavando dall’idea del “pericolo Pinochet” in salsa italiana, l’alternativa secca tra fascismo e comunismo, reazione o rivoluzione). Del resto alcuni protagonisti erano vicini a Pietro Secchia e, come lui, avevano ritenuto la Resistenza una rivoluzione o semirivoluzione mancata, anche a causa del preteso opportunismo di Togliatti, che aveva optato per l’unità con la DC.[9] (Il risultato straordinario della Costituzione e della continua avanzata politica e sindacale della sinistra, per questi tipi non veniva dalla strategia togliattiana, ma dal movimento rivoluzionario di popolo).

I terroristi ponevano in alternativa fascismo (immaginario) e rivoluzione “socialista” (immaginaria): come se un pugno di pretesi rivoluzionari “rossi” (o, all’opposto, “neri”) potesse “prendere il potere” in un Paese neocapitalista e democratico di sessanta milioni di abitanti senza avere con sé il consenso chiaro e verificabile, anche nel voto, di dieci milioni di persone se non del 51%, com’era stato vero persino nelle rivoluzioni della Russia e della Cina, per non parlare delle “rivoluzioni” dei fascismi. Il mito dei pochi ma buoni, alimentato o dalla Cuba di Fidel Castro (a sinistra) o dalla Grecia dei colonnelli (a destra), provocava inutili e sanguinose lotte, come se tutta l’Italia fosse come l’Aspromonte o la Gallura.

C’era poi un secondo terrorismo di sinistra, propaggine estrema dell’operaismo (“Prima linea”, residuo della sinistra operaia dei picchetti di Lotta Continua, con connivenze con gruppi non terroristi, ma illegalisti e spesso violenti, di “Potere operaio” e di “Autonomia operaia”). Questo secondo terrorismo – suggestionato vuoi dall’estremismo delle lotte operaie più “calde”, e vuoi dalle guerriglie dell’America Latina – pensava che l’antagonismo senza limiti, anche a base di squadrismo contro le gerarchie aziendali, o contro i “padroni”, e tramite omicidi mirati contro di loro e loro pretesi manutengoli, avrebbe portato alla rivoluzione.[10] Sottovalutava anch’esso, pur essendo di maggior spessore ideologico del primo gruppo, sia l’ovvia reazione dello Stato “borghese” che l’ovvia aggregazione, per reazione, di un movimento politico di massa di parte moderata, culminata nella marcia dei 40.000 a Torino del 14 ottobre 1980 e nella sconfitta della lotta di 35 giorni alla FIAT.

Com’è noto le BR rapirono Aldo Moro e lo assassinarono, dopo due mesi di prigionia, il 9 maggio 1978[11].

Anche di fronte al terrorismo, il PCI si attenne alla classica lettura del capitalismo come fascistoide e retrogrado di cui si è detto, accusando tutti i terroristi di essere dei fascisti, dei provocatori e degli agenti delle forze più oscuramente liberticide. Naturalmente tutti i movimenti terroristi sono infiltrati. E nel torbido c’è sempre qualcuno che pesca, o sogna “l’ultima raffica”, si tratti di generali di carabinieri o di servizi segreti deviati oppure anche di logge massoniche deviate, come la famosa Propaganda 2 di Licio Gelli. Ma solo quelli che trasformano i complotti in forze motrici della storia, in genere perché non l’hanno capita, potevano e possono porre tali cose, che speziano il piatto della storia stessa, con quel che la storia mette in tavola. In qualunque periodo e su qualunque versante. La visione dei terroristi come veri fascisti, o agenti consapevoli o inconsapevoli di forze occulte, negava che nel terrorismo che si diceva rosso ci fosse un nesso con le ali più estreme della sinistra e della contestazione. Trovatesi senza alcun filtro di partito, dopo la fine del PSIUP (1972), e poco oltre del Partito di Unità Proletaria (sorto dalla fusione, nel 1974, tra una minoranza estrema dell’ex PSIUP e il “Manifesto”), e persino di Democrazia Proletaria (ultima creatura, nata nel 1975, del “sinistrismo” di Vittorio Foa); detestando la DC e il compromesso storico; odiando il fascismo, identificato tutto quanto con lo stragismo, la galassia terrorista e violenta di sinistra, nelle sue punte estreme, fece quel che fece.

Il terrorismo “rosso” era una microfrazione della sinistra (anche ammettendo che un 5% dei proletari più disagiati – o anche della popolazione intera – insieme ad alcune centinaia di “arrabbiati” di “buona famiglia” che in tali frangenti non mancano mai, simpatizzasse con esso); ma l’inefficienza cronica dello Stato italiano e soprattutto la spregiudicatezza, il cinismo e l’intima criminalità di politicanti di governo, specie “moderati”, da quattro soldi, e di spioni senza scrupoli dei servizi segreti italiani e anche americani deviati (o di loro propaggini “deviate” massoniche), fecero durare il terrorismo, e di destra e di sinistra, per circa un decennio, rendendo possibili per parecchi anni atroci e stupidi atti di violenza omicida, o di squadrismo preteso di sinistra. Il “lungo Sessantotto” italiano, che sarebbe durato sino al 1978 (ad esempio secondo Toni Negri[12]), in realtà era solo figlio del carattere cronicamente inefficiente, e insieme cinico e disonesto in talune componenti non secondarie, dello Stato italiano, che avendo voluto pescare nel torbido dell’eversione, prima nera e poi rossa, specie a scopi di sputtanamento elettorale del PCI, lasciò crescere l’eversione di piccole bande a un punto tale da doverla poi combattere – tramite leggi speciali che favorivano la delazione in cambio di generosi sconti di pena ai “pentiti”, oppure infliggevano lunghi periodi di carcere a destra e a manca – sparando cannonate contro quattro gatti rossi e neri, così facilmente sbaragliati, ma solo dopo lutti e rovine che avrebbero potuto essere, almeno in grandissima parte, evitati, se fossero stati fermati invece che “usati”.

Quando Moro fu rapito il PCI scelse la linea della fermezza: non si doveva aprire trattativa alcuna – non solo “sopra banco”, come per me era ovvio per “lo Stato”, ma neanche “sottobanco”, e però intensamente – per salvare Moro: per non “legittimare” le BR come un anti-stato. I messaggi disperati di Moro, che poco dopo Sciascia avrebbe assai finemente commentati come “veri”[13], sarebbero stati da considerare missive scritte dai suoi potenziali assassini. Craxi invece propose di trattare per salvare Moro, quale fosse la forma: per salvare lo statista, che tra l’altro era da sempre “il grande tessitore”, neo-cavourriano e neo-giolittiano, rispetto alla sinistra. Su ciò concordava con Craxi persino Riccardo Lombardi, in un’intervista su “Mondoperaio”. Ma tutte le altre forze erano per la “linea della fermezza”. Non è qui il luogo né il caso di scegliere su chi avesse ragione o torto. (Pensai, allora con reticenza di cui mi dispiaccio, e oggi penso ancora più nettamente, intanto che lo Stato nasce per salvaguardare la vita dei cittadini, tanto più innocenti, dagli assassini potenziali; e che, anche tenendo conto del suo ruolo storico, si sarebbe dovuto salvare Moro a ogni costo; e insieme, o subito dopo, reprimere senza sconti il terrorismo). Ma la limitatezza del PCI non fu tanto nel condividere o non condividere ciò: consistette – piuttosto – nel non essersi neanche interrogato, in almeno un testo autorevole, magari in una Direzione o relazione agli atti, su quel che avrebbe significato la morte di un uomo come Aldo Moro, protagonista di tante svolte, nella storia d’Italia: essendo Moro ben più importante persino del Matteotti ammazzato nel 1924, e la cui morte era stata preludio di dittatura. Che ne sarebbe stato del compromesso storico stesso?

Questo era però duro da capire per una cultura pretesa storicistica, o forse semplicemente storicista, che da Engels e Plechanov a tanti altri, come Bordiga, ma anche come Gramsci, non aveva mai creduto nel ruolo della personalità, proprio in quanto personalità individuale, nella storia[14], considerandola al massimo come interprete di una necessità collettiva che la travalica sempre, sicchè morto un papa se ne fa un altro: personalità che da sola, certo, non può far nulla, ma che nel contesto socioculturale in cui operi – ossia tenendo insieme massimamente conto di quel che accade tra le masse o forze di riferimento, organizzate come disorganizzate – conta sempre “parecchio”.

Questo allargò ancora il conflitto tra Berlinguer e Craxi. Il Craxi, per i suoi limiti culturali, da grande politico intuitivo ma senza spessore teorico, commise pure errori gravi di vacua provocazione, come quando firmò il cosiddetto “Vangelo socialista”, pare scritto da Luciano Pellicani: “vangelo” che era una pura elaborazione ultrareazionaria non solo sul leninismo, ma su tutto il marxismo, e su tutte le rivoluzioni, visti come un tutto totalitario e liberticida, né più né meno che in de Maistre o Julius Evola[15]: come se persino “Critica Sociale e tutto il PSI, sino a Filippo Turati stesso, o comunque a Claudio Treves o, più di tutti, al grande teorico marxista riformista Rodolfo Mondolfo, o a Nenni per oltre vent’anni, o a Rodolfo Morandi, o a Francesco De Martino, per non dire di Lelio Basso o Vittorio Foa, non fossero venuti e non fossero sempre stati segnati dal marxismo, per quanto reinterpretato democraticamente. Persino Saragat prese le distanze da quel “Vangelo socialista”. Probabilmente Craxi pensava di aver solo lanciato una sassata sui vetri di Botteghe Oscure, o dato un doloroso calcio a Berlinguer, “facendogliela pagare” per il mancato appoggio delle sue ambizioni da premier per conto della sinistra e in vista di ulteriori dialoghi; ma per i comunisti, e tanto più per quelli come Berlinguer – che avevano una visione etica e quasi provvidenziale del comunismo, in specie italiano, impensabile senza le ideologie comprese tra Marx Lenin Gramsci e Togliatti – la cosa suonò come conferma del carattere socialfascista di Craxi: tanto più che Craxi, d’intesa con Giuliano Amato, proponeva pure il semipresidenzialismo gollista in salsa mitterrandiana, come “Grande Riforma”. E in ciò a mio parere Craxi e Amato avevano del tutto ragione[16], e semmai non ebbero abbastanza coraggio nell’andare avanti speditamente su quel terreno, nell’incombente “notte della Repubblica”, che indicava l’urgenza di un cambio della – o almeno nella – forma di governo.

Fu una storia tragica, tanto che pochi anni dopo, l’11 giugno 1984, Berlinguer ne morì lui pure, colpito da ictus durante un comizio a Padova, tra la commozione di tutto il Paese: una commozione assolutamente giusta, ma per me non già per le idee che Berlinguer aveva sostenuto, che almeno dal mio punto di vista erano in gran parte erronee (persino la pretesa rottura, o “strappo”, con l’URSS, sacrosanta benché reticente, arrivò nel 1982, quando il compromesso storico era già fallito da tre anni). Berlinguer, però, era stato l’autobiografia di tutto quello di buono e di giusto, e di pulito e nobile, c’era e c’è nella nazione: una specie di eroe fichtiano, il vero fratello spirituale idealmente gemello del suo conterraneo Gramsci, uno che per quel che credeva si sarebbe fatto ammazzare in ogni momento, e che era sempre animato da un alto sentire etico-politico: un uomo sempre dall’alto pensare e fare in un Paese di cinici. Forse era tanto piaciuto a Togliatti, che non era affatto così (ma lo era stato il suo amico Gramsci), proprio per questo.

Poco oltre ci furono altri eventi che terremotarono tutto il quadro politico: il crollo del muro di Berlino nel 1989, che aprì una crisi del comunismo conclusasi col crollo dell’URSS nel 1991; l’attacco del potere giudiziario ai fenomeni di corruzione della prima Repubblica in Italia dal 1993; l’abrogazione generale dell’articolo della costituzione sull’immunità parlamentare, che non essendovi stata riforma dell’ordine giudiziario ha determinato un potere giudiziario spesso di veto, e discutibile, più forte del potere legislativo e esecutivo, da parte della magistratura, e che ha reso rischiosa ogni attività pubblica, ogni appalto importante, oltre a portare troppa politica nell’ordine giudiziario, “sindacalizzato”, pur restando l’ordine giudiziario il più morale del Paese; la nascita – per iniziativa dell’ultimo segretario del PCI, Achille Occhetto – non già dell’indispensabile e arcimatura unione socialista di tutta la sinistra (una specie di scissione di Livorno alla rovescia, come sarebbe stato sacrosanto, possibile e necessario, e certo un Togliatti non si sarebbe fatto scappare l’occasione di fare), ma del Partito Democratico della Sinistra, che s’illudeva di non essere né comunista né socialista, ma “altro” (immaginario); il referendum del 1993 che finalmente faceva prevalere il sistema maggioritario, con opzione in tal caso benemerita pure da parte di Occhetto; la legge elettorale conseguente, proposta da Sergio Mattarella, maggioritaria al 75%, ma a un turno (benché nulla di meglio sia stato fatto dopo, tanto che sarebbe sempre un eccellente punto di ripartenza); le elezioni politiche del 1994 in cui il PDS, proprio come milioni di comunisti e socialisti nel 1948 (ma “errare humanum est, perseverare diabolicum”), si sentiva la vittoria in tasca (con la sua “allegra macchina da guerra”, evocata allora da Occhetto), mentre prevalse un partito-azienda nato tre mesi prima, sulla base del centrodestra senza nemici a destra sconfitto nel 1960 quando fu rovesciato il governo Tambroni: in tal caso avendo come protagonista un nababbo già legatissimo a Craxi, Silvio Berlusconi (quasi che il craxismo cacciato da sinistra tornasse da destra). Il nuovo sistema, però, era imperfetto perché – essendo un maggioritario a un turno e non a due turni – spostava semplicemente a “prima delle elezioni” (per vincerle in sistema maggioritario) quel patteggiamento estenuante e esposto a ogni ricatto interno che dal 1948 al 1993 si era verificato in parlamento dopo ogni elezione (e sino all’elezione dopo).

Tuttavia era un grande progresso, anche se percependo la sconfitta alle successive elezioni, la destra, tramite il dentista riformatore dello Stato, Calderoli, nel dicembre 2005 riuscì a far passare una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza senza preferenza alcuna che costringeva ogni elettore a scegliere non un candidato, ma una lista bloccata: il che dava al capo-partito un ruolo assoluto nella scelta dei candidati (molto gradito ai segretari di ogni partito, che se ne avvalsero infatti in tre turni elettorali, il 2006, il 2008 e il 2013, sino all’assai tardiva bocciatura, nove anni dopo, di punti chiave della legge da parte della Corte Costituzionale, che non ritenne costituzionale che l’elettore non potesse esprimere neanche una preferenza e votare con premio di maggioranza). Erano tutti segni dello spirito del tempo, che dopo aver volato come le aquile nel 1943/1948, o come i falchetti sino al 1970, e con altri “uccelli” in seguito, ormai vola come le galline.

La crisi delle ideologie nel mondo della globalizzazione, nell’ultimo ventennio, è stata tale che nel 2007 è stato fondato, specie da Prodi, Bersani, Franceschini, e lanciato con entusiasmo da Walter Veltroni, un Partito Democratico che metteva insieme ex comunisti ed ex democristiani, realizzando così il partito del compromesso storico del vero maestro dell’ottimo Veltroni, che è stato Berlinguer: partito che unisce insieme quelli di matrice socialcomunista e cattolica (il sogno di Rodano che si avverava). Qui è proprio il caso di distinguere tra l’errante e l’errore. Il protagonista, Veltroni, era ed è un uomo intellettualmente e politicamente capace, e retto e serio come il suo vero maestro, Enrico Berlinguer (che infatti pare lo considerasse il suo delfino), ma l’idea di mettere insieme storie e culture così diverse non poteva funzionare. Veltroni aveva una visione di alternativa democratica vera e condivisibile, ma che tanto all’esterno che all’interno della propria area, scambiava, per me, la desiderabilità con la realtà. Per lui si trattava di porre a confronto due forze alternative, verso un bipartitismo finalmente “perfetto”: una incarnata da Forza Italia (berlusconiana) e l’altra dal PD in quanto partito di tutti i riformisti, laici e cattolici. Ma mentre Forza Italia si guardò bene dal fare a meno di tutta la galassia di destra, il PD fece a meno di quella “esterna” di sinistra, costringendo sì moltissimi di essa a votarlo “per non fare il gioco di Berlusconi”, ottenendo così un ottimo risultato (37%), ma consegnando in partenza – perché ovviamente molti restarono a sinistra per conto loro, o dispersero il voto – la palma della vittoria all’altra parte. Mentre invece una lezione fortissima degli eventi dovrebbe far capire a tutti i soggetti – come dalla destra, o destra-centro, è stato capito dal 1994, forse addirittura nel mondo – che ogni gruppo che non abbia le traveggole deve “riconoscere”, almeno nell’urna, e più in generale “nel fare politica”, tutta la galassia “progressista”, dalle componenti di sinistra più schiacciate sul centro a quelle più schiacciate sull’estrema sinistra, in una relazione “tra compagni”. Esattamente come “gli altri” fanno, a parti rovesciate, dal 1994.

Più oltre Veltroni, stanco delle contestazioni interne “post-comuniste” e forse della “politica politicante” in generale, si dimise, e il suo partito si trovò di nuovo orbato del forte leader che, in quest’epoca post-ideologica, per ragioni ben spiegate da Mauro Calise[17], pare sia una necessità storica: finché Matteo Renzi, ex popolare cattolico, ma dichiaratamente seguace di Tony Blair e di Obama, rappresentativo del genere di sinistra alla Craxi o Blair (fu lui a far aderire il PD al partito socialista europeo sin dal 2013, dopo sette anni di “dimenticanza”), non conquistò alle primarie il PD; s’insediò al governo per mille giorni su posizioni pragmatico sociali e di ampliamento dei diritti personali, e si propose come riformatore dello Stato. La proposta di riforma uscita dalla commissione parlamentare preposta non era priva di contraddizioni, ma era un gran passo in avanti. Non riusciva ad abolire l’inutile doppione del Senato rispetto alla Camera; e neppure a fare un Senato di sindaci come Renzi, che veniva lui stesso dall’esperienza di sindaco (di Firenze), avrebbe inizialmente voluto; e neppure a fare del Senato una pura e semplice Camera delle Regioni con compiti totalmente distinti dalla legislativa Camera dei deputati, ma fece una proposta di riforma costituzionale che riduceva di molto le vecchie competenze del Senato e lo escludeva dal voto di fiducia sui governi; riportava allo Stato competenze da semistato, date anni prima, assurdamente, da Franco Bassanini e compagni alle Regioni; aboliva l’inutile carrozzone del CNEL; inoltre prevedeva, per la Camera, con nuova legge elettorale (Italicum) un meccanismo a due turni in cui, se una singola lista non avesse preso almeno il 40% si sarebbe andati al secondo turno, cui avrebbero partecipato le due liste più votate nel primo turno; il vincitore avrebbe preso il 55% dei seggi (340 deputati su 630), blindando così la maggioranza (esponendo così al rischio – assurdo perché ovviamente la concentrazione dei diversi schieramenti per vincere avrebbe portato al 40% almeno, ma in teoria possibile – che un vincente con maggioranza relativa, anche non straordinaria, magari del 25%, dicevano gli avversari, potesse prendere il 55% dei seggi). Il meccanismo non era neppure semipresidenziale, ma configurava, senza teorizzarlo, un forte premierato.

Renzi aveva avuto accesso alla Presidenza del Consiglio – dopo essere stato eletto segretario del PD tramite primarie – scalzando Enrico Letta, senza essere neppure deputato. Aveva poi avuto un grande successo alle elezioni europee portando il suo PD al 40%, ma restava un “premier” non sanzionato dal voto popolare in un’elezione. Perciò – pare nel tentativo di legittimare la propria popolarità con un voto dei cittadini, e ritenendo che ciò avrebbe rafforzato comunque l’esito del referendum essendo lui il leader più popolare (40% alle europee) – fece l’errore madornale di personalizzare la campagna referendaria, concentrando così su di sé il fuoco di fila avversario, soprattutto interno. I suoi avversari, a partire da Bersani, dicevano che in materia referendaria non valeva disciplina di partito: il che alla Costituente avrebbe certo determinato un’omerica risata achea perché pur essendo stati consentiti “taluni” voti di coscienza a talune persone particolarmente autorevoli, i gruppi avevano operato dall’inizio alla fine come veri gruppi parlamentari. Il referendum detto “di Renzi” fu bocciato nel dicembre 2016 raccogliendo solo il 40% e Renzi, che con strana ingenuità aveva preannunciato le proprie dimissioni in caso di sconfitta, si dimise. Ma sei mesi dopo tornò in campo e rivinse alle primarie il suo Partito. Nel frattempo la Consulta aveva bocciato come incostituzionali anche alcuni punti della legge elettorale “Italicum” di Renzi, in quanto la “sua” legge elettorale Italicum non precisava il livello minimo, al secondo turno, per accedere al premio di maggioranza. Con ciò restava in campo, dopo i tagli della Consulta, un sistema proporzionale puro (detto Consultellum), pressoché identico a quella durato dal 1° gennaio 1948 al 1993, che il “renziano” Ettore Rosato corresse riducendo al 25% la quota di maggioritario (che Mattarella nella sua legge del 1993 aveva portato al 75%).

Se Renzi fosse stato un “leader storico” – e non semplicemente, come io credetti e credo, un abile politico con grandi intuizioni e ottime capacità di argomentare, ma anche di governare – avrebbe solo recepito i correttivi imposti dalla Consulta (precisando ad esempio che la lista vincente al secondo turno, per prendere il premio avrebbe dovuto ottenere almeno il 35%, oppure che il premio al vincitore sarebbe stato del 15 o magari 12%; e inoltre, partendo dal 40% ottenuto nel dicembre 2016, magari razionalizzando ulteriormente il progetto bocciato dagli italiani (ad esempio riproponendo l’abolizione pura e semplice del Senato) – avrebbe trasformato in programma di lotta e proposta della sua corrente o del suo partito il progetto bocciato, proponendosi di conquistare i consensi necessari negli anni successivi (prendere o lasciare).

Invece, in base a quel che il vecchio Lenin chiamava “codismo” (un guardare la “coda”, o anche – diceva quell’Ilic – “il sedere” delle masse), il renziano Ettore Rosato fece approvare il 3 novembre 2017 il cosiddetto “Rosatellum”, che fa votare un terzo dei seggi col sistema maggioritario puro di collegio e gli altri due terzi con sistema proporzionale puro.

Ma ormai siamo in un mondo post-ideologico, in cui anche le più grandi riforme diventano soggette a un relativismo assoluto ,detto “pensiero liquido”[18] forse perché liquida ogni “Idea” vera (condizione ora prevalente, ma che io ritengo da superare in avanti, con forme di pensiero “forte”, che ora certo latitano, ma “lavorano con metodo”, come la “vecchia talpa” della rivoluzione di Marx, anche se per ora non abbiamo scoperto il nuovo “indirizzo”: ma pure io, in tutta questa serie di riflessioni, lo cerco). Così, poco prima (il 7 novembre 2017), una minoranza di ex comunisti storici come Bersani e D’Alema, entrambi notevoli l’uno come ministro dello sviluppo economico e l’altro degli esteri, ma per me niente affatto tali, ma quasi l’opposto, come leader politici – una minoranza nata e cresciuta nutrendosi di centralismo democratico per una vita – dopo aver giocato un ruolo decisivo per far perdere il referendum al proprio partito, se n’era andata da esso (formando “Articolo uno – Movimento Democratico Progressista, poi Liberi e Uguali), naturalmente prendendo poi consensi irrisori. Ma pure Renzi, che al PD doveva tutto, trovatosi non più nel ruolo di leader, era uscito, il 18 settembre 2019, facendo il suo “partito”, “Italia Viva”, ugualmente incompreso e incomprensibile per il suo popolo, e dunque al 3% nei sondaggi pure lui, come LeU. In entrambi i casi ciò andava a dimostrazione del vecchio proverbio latino per cui “il diavolo rende pazzi quelli che vuole rovinare”[19].

Nell’ultima fase siamo arrivati al massimo del trasformismo politico nella storia d’Italia, tale da far apparire Agostino Depretis, fondatore della tendenza nel 1876, un purissimo idealista. Sembra persino morto il senso dello Stato. Un partito nato da una grande protesta etico costituzionale e da un grande bisogno di democrazia diretta, come il Movimento 5 Stelle, votato da un terzo degli italiani nelle elezioni politiche del 2018, in pochi anni ha tradito tutti i suoi punti di partenza, a partire dal “Vaffa” del suo profeta Beppe Grillo: prima alleandosi al potere con il movimento ormai della destra democratica populista di Matteo Salvini, e sostenendone la linea contro gli immigrati, anche tramite il premier individuato, Giuseppe Conte; poi – dopo che Salvini, da una spiaggia agostana (altra prova di “senso dello Stato” di questi tempi), ha messo in crisi il governo della Repubblica in cui era vicepresidente nonché ministro dell’interno – abbiamo visto lo stesso M5S allearsi con il partito detto sino al giorno prima il nemico numero uno, il PD, e cercare di far processare Salvini, riuscendovi, per atti in precedenza “coperti” senza neppure un battito di ciglia di dissenso, quando costui era alleato nel governo. Nel frattempo Conte – perfetto democristiano scelto dal M5S, sin lì afono e giustificatore rispetto a Salvini, anche nei momenti di blocco odioso di navi di disperati – si trasformava nell’anti-Salvini; lo bacchettava in un dibattito sulla fiducia come uno scolaretto, mandando in visibilio i suoi avversari, e diventava quasi un nuovo Prodi per il PD di Zingaretti, che sembra farsi egemonizzare, in senso gramsciano, pure da poveri diavoli pentastellati (pur avendo espresso ed esprimendo, a tutti i livelli, i governanti migliori, quantomeno tra quelli oggi in circolazione, non solo dell’ala progressista, ma della Repubblica “d’oggi”).

Siamo ora a un nuovo referendum in materia costituzionale, voluto soprattutto dal M5S (con legge dell’ottobre 2019 votata in modo plebiscitario dal parlamento e che modifica radicalmente tre articoli della Costituzione), consistente nel taglio di un buon numero di deputati e di senatori (da 630 a 400 alla Camera e da 315 a 260 in Senato), senza alcuna nuova legge elettorale applicativa né ridefinizione dei collegi e dei regolamenti parlamentari. (“La faranno, la faranno”, ma quando?). La questione, non normata da leggi e regolamenti, a mio parere è oggettivamente controversa. Comunque io resto un fautore della democrazia dell’alternativa e quindi del maggioritario, contrario al sistema elettorale proporzionale in modo assoluto. Ma certo se nasce, pure con una motivazione assolutamente ridicola (quella di risparmiare una briciola di soldi del bilancio dello Stato), un parlamento molto meno pletorico, sono contento. Ciò posto confesso che non so ancora come voterò. I pro e contro mi paiono ugualmente forti. Potrei anche starmene a casa, certo che quel che conta non sia il sì o no, ma quel che i vincitori faranno dopo in materia di legge elettorale e di definizione dei ruoli delle due camere.

Al termine di questa carrellata sulla governabilità dello Stato, e in particolare del nostro Stato, ribadisco la mia idea dell’urgenza di una riforma dello Stato che sani il “vulnus” che in materia c’è nella nostra Costituzione, e che ha portato: una repubblica dei partiti al di sopra dello Stato, specie nel trentennio 1963-1993, periodo pur fecondo di importantissime conquista sociali e civili; la connivenza tra opposti gruppi o sotto banco o “sopra banco”; il trasformismo continuo, invisibile o visibile o manifesto; la troppa corruzione e, di conseguenza, il dissesto della spesa pubblica. Il non tagliare tale nodo della governabilità neanche nell’epoca della globalizzazione ha determinato, alla fine, una vera decadenza dello Stato: e perciò danneggia molto la stessa economia.

Personalmente sarei favorevole: 1) a un assetto semipresidenziale “alla francese” (o almeno al premierato “all’inglese”); 2) al monocameralismo con abolizione del Senato (o a un Senato delle Regioni: e basta); 3) a un sistema maggioritario secco di collegio per il 100% dei deputati da eleggere, a due turni e collegio per collegio, così che da un lato si torni a far scegliere i rappresentanti dai cittadini come dovrebbe essere ovvio in democrazia e dall’altro si elevi, di molto, la qualità dei rappresentanti del popolo (qualità nell’ultima fase, in parlamenti di “nominati” con mera sanzione di liste da parte degli elettori, diventata incredibilmente bassa).

Tuttavia capisco bene che il discorso sulle preferenze personali è astratto. Perciò affermo semplicemente che ci vuole una riforma che garantisca governi di legislatura, con competenze annesse che consentano al potere esecutivo (governativo) di non essere dominus, ma neanche servus del potere legislativo e giudiziario, ma più o meno di pari forza. Ci sono tanti modi di ottenere ciò, ma uno andrebbe trovato; e il seguitare a non farlo fa estinguere sempre di più la Repubblica democratica, con “comune rovina delle classi in lotta”[20]. Tutto il lavoro in proposito – quale sarà o fosse o sia la via scelta – dovrebbe mirare senza tentennamenti ad una democrazia dell’alternativa che garantisca autorevoli governi di legislatura. Mi sembrano due esigenze fondamentali, senza le quali temo che non potrà più esserci progresso, ma solo regresso, e un regresso sempre più dannoso per lo sviluppo e per la stessa sopravvivenza della democrazia.

di Franco Livorsi

  1. L’egemonia per Gramsci è capacità di direzione basata sul consenso (non nel senso del 51%, ma di attitudine a far prevalere un’idea tra grandi masse attive di persone). La forza è la capacità di costrizione del potere (in specie statale). E la supremazia è sintesi tra egemonia e forza. Specie in Occidente per lui non c’è potere senza egemonia. Su ciò sono da vedere i Quaderni del carcere (1929/1935, ma 1948/1951), poi edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi.
  2. La DC nelle elezioni politiche del 1958 aveva il 42,35% dei voti (oltre dodici milioni di suffragi), e nel 1963 scendeva al 36,47% scendendo a poco più di dieci milioni. Il PCI guadagnava il 3% passando dal 22,68% al 25, 24%, mentre il PSI passava dal 14, 23% al 14,1%.

  3. Su ciò si veda: P. NENNI, Intervista sul socialismo italiano, a cura di G. Tamburrano, Laterza, 1976, e soprattutto: E. SANTARELLI, Nenni, UTET, 1989 (da me discusso nell’articolo: Pietro Nenni nella storia, “Quaderno” dell’Istituto storico della Resistenza in Alessandria, n. 5, 1989, pp. 105-114).
  4. Mi riferisco a due passaggi fondamentali, a mio parere, per la storia di quel tempo, anche per capire il pensiero in incubazione del successivo ’68-69: AA.VV., Tendenze del capitalismo italiano. Atti del convegno economico dell’Istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1962 (in cui però Giorgio Amendola insisteva sul carattere retrogrado del capitalismo italiano), e soprattutto: Tendenze del capitalismo europeo. Relazioni interventi conclusioni, a cura dell’Istituto Gramsci, Editori, Riuniti, 1966 (che contiene due contributi altamente significativi: B. TRENTIN, Tendenze attuali della lotta di classe e problemi del movimento sindacale di fronte agli sviluppi recenti del capitalismo europeo, pp. 162-205; L. BASSO, Le prospettive della sinistra europea, pp. 253-310).
  5. E. BERLINGUER, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, “Rinascita” (28 settembre e 12 ottobre 1973), e in: La questione comunista, a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, 1975, pp. 609-639.
  6. Sul fondatore del cattocomunismo, Franco RODANO si vedano qui soprattutto: Sulla politica dei comunisti, Boringhieri, Torino, 1975; Questione democristiana e compromesso storico, Editori Riuniti, Roma, 1977.
  7. A caldo il miglior ritratto di Craxi a me era parso: A, GHIRELLI, L’effetto Craxi, Rizzoli, Milano, 1982. La biografia più completa, seppure troppo schiacciata sul personaggio è: M. PINI, Craxi. Una vita, un’era politica, Mondadori, Milano, 2006. Più convincente su un piano storico, pur prossimo: S. COLARIZI et Al., La cruna dell’ago. Craxi, il Partito Socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2006. Ma ora è da vedere il fine, e malinconico e in fondo tragico, film-verità di GIANNI AMELIO, Hammamet, del 2020, interpretato da uno straordinario Pierfrancesco Favino.
  8. Tramite il panico si voleva creare una domanda di tipo autoritario. Perciò furono commessi vili attentati, come quello del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, quello contro un comizio della sinistra a Brescia il 28 maggio 1974 e le bombe alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Per un approfondimento si veda: G. GALLI, Storia del partito armato, Rizzoli, Milano, 1986, che enuncia la tesi di un terrorismo, nero e rosso, non fermato, ma strumentalizzato e a tratti manovrato da servizi segreti o parte deviata di essi, italiana e americana.

  9. Pietro Secchia era stato vicesegretario generale del PCI e responsabile dell’Organizzazione dal 1948 al 1955, poi molto ridimensionato dopo che il suo segretario, Giulio Seniga, era scomparso con una forte somma e documenti del PCI. La liquidazione voleva pure superare una posizione settaria, che voleva connettere sempre, sin dalla Resistenza, democrazia e rivoluzione di tipo sovietico. Su ciò sono da vedere: P. SECCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945, in “Annali” dell’Istituto Feltrinelli, XIII, 1971; Lotta antifascista e giovani generazioni, La città del sole, Napoli, 1973. Era da sempre su tali posizioni il genovese-novese Giambattista Lazagna, già vicecomandante della Divisione Cichero e commissario politico delle Brigate Garibaldi, autore del bel libro memorialistico Ponte rotto, Colibri, Milano, 1972, e che ideologicamente influenzò molto le prime Brigate Rosse nello stesso periodo, pur senza partecipare direttamente a trame terroristiche. Si vedano pure scritti del “capo fondatore” delle BR: R. CURCIO, A viso aperto, Mondadori, Milano, 1993.

  10. S. SEGIO, Miccia corta. Una storia di Prima Linea, Milieu editore, Milano, 2017. Questi ex terroristi credono di aver vissuto una situazione rivoluzionaria da cui sono usciti sconfitti, e non un’avventura in partenza destinata allo scacco e agli inutili omicidi.In materia va visto: G. BOCCA, Noi terroristi, Garzanti, Milano, 1985, che è interessante perché facendo parlare terroristi incarcerati cerca di intenderne anche la psicologia, con le capacità da vero scrittore che il grande giornalista aveva nel darne conto.
  11. Una notevole ricostruzione della tragedia di Moro di quei mesi è presente nel bel film di Marco BELLOCCHIO Buongiorno, notte (2003).
  12. Questo motivo ricorre molto nella fluviale, ma sempre interessante, anche per la storia culturale dell’estrema sinistra italiana ed europea dagli anni Sessanta a oggi, di Toni NEGRI: Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano, 2015; Galera ed esilio, ivi, 2017; Da Genova a domani, ivi, 2020.
  13. L. SCIASCIA, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo, 1978.
  14. Si ricordino le lettere sul materialismo storico del 1890 di Engels, Lettere sul materialismo storico, in: K. MARX – F. ENGELS, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1971, pp. 1239-1254, in cui si minimizza il ruolo della personalità, che quando il contesto economico sociale lo richiede, arriva sempre. Si confronti con: G. PLECHANOV, La funzione della personalità nella storia (1899), Rinascita, 1956, e altri. Ma persino A, GRAMSCI, nell’interessantissimo articolo “Capo” , in “L’Unità”, 6 novembre 1924, vedeva nel leader – lì Mussolini detto pseudocapo storico contro Lenin vero capo storco – il rappresentante di una storia che lo travalica, con perfetto hegelismo in forma di marxismo, che dava all’impersonalismo semplicemente un’allure idealistica invece che positivistica.
  15. Su Berlinguer si vedano: G. FIORI, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, 1988; C. VALENTINI, Enrico Berlinguer, Feltrinelli, Milano, 2014. Sono però opere di “identificazione”. Più equilibrato storiograficamente: F. BARBAGALLO, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma, 2006.

  16. G. AMATO, Una Repubblica da riformare, Il Mulino, Bologna, 1980. Ho condiviso non già l’insieme del riformismo, socialista, avendo sempre ritenuto necessaria l’unità e possibilmente l’unificazione tra comunisti e socialisti, ma l’idea di coniugare alla Mitterrand socialismo e presidenzialismo, riprendendo il semipresidenzialismo della Francia, come in: F. LIVORSI, Socialismo e presidenzialismo, “Critica Sociale”, a. IC, n. 7, luglio 1990, pp. 23-29; Unità socialista e repubblica presidenziale. Perché no?, “Il Ponte”, a. XLVII, n. 8/9, agosto-settembre 1991, pp. 102-121.
  17. M. CALISE, La democrazia del leader, Laterza, 2016. Il politologo non fa in proposito un’opzione ideologica, ma prende atto del fatto che nel mondo globalizzato, post-ideologico, la personalizzazione della politica, incentrata sul leader, è un dato di fatto.
  18. Z. BAUMAN, Modernità liquida (2000), Laterza, 2020.
  19. Il proverbio era precristiano e suonava: “Quos vult Iupiter perdere dementat prius” (“Chi Giove vuol perdere, prima lo fa uscire di senno”). Nel cristianesimo divenne appunto: “Quos Deus perdere vult dementat prius”.
  20. L’espressione fu usata da K. MARX – F. ENGELS all’inizio del Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1948, laddove dicevano che la lotta di casse, ritenuta presente con varie classi a confronto, in tutta la storia, era sempre finita o con la vittoria di una classe sull’altra o con la comune rovina delle classi in lotta.

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