Filosofia del Socialismo

Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e in Schelling

pubblicato il 14/04/2020

L’Illuminismo del XVIII secolo aveva voluto interpretare e riformare il mondo a misura della ragione umana: dal diritto all’economia, dalle scienze alla tecnica. In pratica in ogni campo.

Da Kant all’idealismo romantico

Il punto d’arrivo di tale cultura, in ambito filosofico, era stato Immanuel Kant, specie con la Critica della ragion pura (1781/1787). Da un lato Kant aveva portato alle estreme conseguenze l’idea della centralità dell’uomo, sostenendo che essendo stato ormai dimostrato, specie da David Hume – il quale a suo dire l’avrebbe “svegliato dal sonno dogmatico” – che persino il rapporto tra causa ed effetto in termini logici “oggettivi” non è necessario, ma abitudinario, bisognava ormai comprendere che la conoscenza che chiamiamo scientifica ha un valore puramente antropologico. Non si basa, insomma, sulla dipendenza del pensiero dalla realtà pensata o da pensare, ma su un processo opposto. Quel che chiamiamo vero non è altro che l’unificazione (“sintesi”) dei dati emergenti nella sensibilità e rielaborati dal puro pensiero, ma in quanto risulti valido per tutti noi in quanto raziocinanti. Questo comune intuire e ragionare a suo dire è reso possibile, nel nostro pensare, da funzioni a priori, che sono nell’esperienza e al di là dell’esperienza. Queste funzioni a priori del pensare non sono dipendenti dall’esperienza (sarebbero a posteriori), ma neppure sono separate totalmente dall’esperienza (sarebbero “trascendenti”, come Dio o l’anima per il monoteismo tradizionale); essendo nell’esperienza e al di là dell’esperienza “contemporaneamente”, le diceva “trascendentali”. Tali a priori, trascendentali, con cui sintetizziamo l’esperienza (formiamo il “vero”, le sintesi a priori), per Kant sono lo spazio (lo spazializzare razionale, come in geometria), il tempo (il potere tutto umano di porre i fenomeni in una successione logica, come in aritmetica o algebra), e, più di tutto, il pensiero stesso o “Io pensante” (poi detto comunemente “Io”, ma sempre come a priori intersoggettivo), con cui rielaboriamo i dati intuiti, matematizzando i rapporti tra cose che ci appaiono, come in fisica, con tutte le applicazioni ben note (sino ai giorni nostri). Grazie agli a priori sintetizziamo i dati, giungiamo a sintesi a priori, e perveniamo a quella scienza e tecnica con cui cambiamo il mondo. Non è dunque l’Io che gira intorno al mondo esterno, ma in noi è proprio il contrario: il mondo ruota attorno al pensiero, attorno all’Io a priori che ci accomuna, in termini di conoscenza (idealismo gnoseologico). Ma come sia il reale in sé, ad esempio spirituale o materiale, eterno o transitorio, fatto da Dio o dal caso, in termini di “pura ragione” per Kant non si può sapere: perché pensiamo “nel” pensiero, nell’Io: perciò il nostro pensiero lo dobbiamo dire “finito”, e usarlo dal punto di vista di un ragionare che vale per tutti, ma nei limiti, appunto “finiti”, dell’esperienza umana: sicché nella stessa morale dovremmo assumere come fine razionale l’intersoggettività, cioè il bene di ciascuno e di tutti (Critica della ragion pratica, del 1787). Il progetto, illuministico sembrava culminare nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese del 1789, in cui Kant vide sempre la forma realizzata della sua filosofia morale.

Più oltre, però, arrivò la dittatura rivoluzionaria dei giacobini e, su quell’onda, quella di Napoleone Bonaparte, che portò sì il suo innovativo Codice civile, in cui i cittadini erano finalmente uguali giuridicamente e protetti nei loro interessi privati (“borghesi”), dopo secoli di strapotere della nobiltà e dell’alto clero, ma a scapito di tutte le vecchie difese corporative precapitalistiche e, soprattutto, sulla punta delle baionette di una Grande Armata francese, che perseguiva innanzitutto interessi imperialistici della propria “Grande Nation”.

Ciò raffreddò non tutti, ma moltissimi entusiasmi dei vecchi riformatori illuministi o post-illuministi, comunque filofrancesi, e mutò il clima culturale, dando luogo alla cultura del Romanticismo, nella fase dell’espansionismo napoleonico e tanto più dopo la caduta definitiva dell’”Imperatore” (1815), quando soprattutto per quindici anni il mondo provò – nella misura limitata in cui era possibile – a tornare all’assetto clerico-nobiliare travolto dal 1789 in poi. Perciò sin dalla fine del XVIII secolo la pura ragionevolezza umana, che nell’insieme aveva accettato di operare nei limiti del mondo contingente (“finito”), non bastò più. Emerse, nella nuova atmosfera culturale, detta Romanticismo, la totale rivalutazione della dimensione delle grandi passioni, e pure del mistero e dell’irrazionale, a scapito dei limiti posti in passato dalla ragione (o da una ragione più o meno paga del mondo finito). Si diffuse la “struggente nostalgia dell’infinito”. La dimensione della fede religiosa fu rivalutata, non solo da parte di chi sognava ritorni impossibili a un Medioevo devoto e corporativo, eroico e cavalleresco, idealizzato, ma anche in forma traslata, come “sogno di una cosa” (Marx), lotta per il paradiso in terra, idea della vita beata, libera e solidale, che dal giacobinismo di sinistra giunse alla sinistra repubblicana, radicale e poi socialista e comunista, sino al 1848 (e oltre). Anche il patriottismo liberale, opposto all’imperialismo in specie asburgico e zarista, era impregnato di tali atmosfere romantiche.

Ma in filosofia, sin dalle origini del Romanticismo, sin dalla fine del XVIII secolo, si doveva necessariamente ripartire da Kant, filosofo che – per me al pari di Hegel – grandeggia come i maggiori dei filosofi antichi; ma la centralità dell’Io – a priori, trascendentale, intersoggettivo – fu dilatata. Il pensante – a priori, trascendentale, unificatore dei dati in forme comuni, fondamento di ogni vero ormai inteso come sintesi a priori – considerandosi infinito (o infinitizzante) non ammise più la realtà di un non-pensiero “altro dal pensiero”, “altro dall’Io”, inconoscibile, noumeno, ma si ritenne “Assoluto” immanente nell’umano (Dio nell’Io). L’idealismo divenne sinonimo di infinità, quantomeno latente, del pensante[1].

L’assolutizzazione e infinitizzazione dell’Io nell’idealismo soggettivo di Fichte

Cominciò Johann Gottlieb Fichte, assumendo l’”Io pensante a priori” in tutti noi come antropologica tensione all’infinito. Quanto non sia a tutti comune, “per tutti”, conforme all’ideale intrinseco dell’Io, per Fichte potrebbe esistere solo come Non-Io per l’Io, e “quindi” come Non-Io dell’Io, posto dall’Io per superare costantemente sé stesso. L’ostacolo, il Non-Io, sarebbe una dura necessità per un continuo autosuperamento, cioè per la realizzazione di sé. L’Io potrebbe mai uscire dall’infinità solo latente, ossia infinitizzare l’esperienza viva, rendere ideale-morale il mondo, senza misurarsi con la materialità del mondo stesso, che sempre deve essere vinta e sempre risorge? Senza sconfiggere di continuo il Non-Io, potremmo mai diventare umani nella pienezza della nostra umanità (cioè universalmente umani)?

Perciò per Fichte il punto chiave, la scienza filosofica vera, che sovrasta ogni scienza o sapere particolare, come una sorta di scienza delle scienze, o scienza prima (come Dottrina della scienza, per dirlo col titolo della sua opera fondamentale), era la stessa comprensione dell’infinità dell’Io. Conseguentemente affermava: “La filosofia deve cominciare dall’incondizionato (…). Per me il più alto principio della filosofia è l’Io puro, assoluto, cioè l’Io in quanto solo Io, non solo determinato attraverso oggetti, ma posto dalla libertà. L’alfa, l’omega di ogni filosofia, è la libertà.”[2] C’è sì un Non-Io, ma noi siamo liberi proprio perché non lo siamo: perché possiamo non esserlo; possiamo superarlo, se abbiamo la forza interiore, il “carattere”, per farlo. Senza il Non-Io, l’infinità dell’Io resterebbe inespressa, come se non ci fosse: come un assurdo creatore che non crei. In ultima istanza il vero male per Fichte era l’inerzia, l’ignavia, la neghittosità dell’Io. Siamo in un’atmosfera spirituale che può ricordarci il “Fatti non foste a viver come bruti”, oppure la condanna degli ignavi, in Dante, o “l’odio gli indifferenti” di Gramsci.[3]

Anche in seguito Fichte, respingendo l’accusa di ateismo (per il suo inglobare Dio nell’Io), notava: “Io mi trovo libero da ogni influsso del mondo sensibile, assolutamente attivo in me stesso e per mezzo mio, al di sopra quindi di tutte le cose sensibili. Ma questa libertà non è indeterminata; essa ha il suo fine: solo che non lo riceve dall’esterno, ma invece se lo pone da sé. Io stesso e il mio fine necessario siamo il soprasensibile. Non posso dubitare di questa libertà e di questa vocazione di essa, senza rinunciare a me stesso.”[4] In sostanza per Fichte il divino scaturiva dall’autonomia dell’Io rispetto al mondo circostante, e doveva essere così per ogni uomo che scoprisse la sua vera umanità, cioè la propria spiritualità, che nell’infinità immanente lo univa a tutti gli spiriti infinitizzanti, umani, suoi simili. Delineava persino uno Stato ideale ritenuto possibile, collettivista e autarchico (Lo Stato commerciale chiuso, 1800)[5], che potrebbe fare la felicità dei sovranisti “sociali” se per assurdo si prendessero la briga di leggerlo.

Il filosofo, che secondo molti contemporanei aveva un’autentica dimensione profetica, era sostanzialmente fautore di una vera rivoluzione morale, ben al di là della morale individualistica e intimistica, benché altrettanto spirituale, del maestro Kant. La storia stessa potrebbe essere modificata solo da individui che invece di cedere alla contingenza, alla materialità, all’egoismo (al Non-Io), siano capaci di trasmettere il loro empito morale intersoggettivo al mondo storico. Solo così potrebbero fare, invece che subire, la storia. Perciò quando Napoleone invase la Germania, nella Berlino occupata, sotto lo schermo di un ciclo di lezioni di filosofia dell’educazione tenute all’Università, Fichte incitava i giovani tedeschi a prendere coscienza di sé per liberarsi, e per affermarsi come patria libera e unita, ossia come “nazione tedesca”. (Anche se così poneva alcuni presupposti del nazionalismo, per quanto il suo discorso mirasse sempre all’universalmente umano, senza una briciola di etnocentrismo). Lo faceva pure con talune parole straordinarie su cui vorrei soffermarmi, e che quando io le lessi e commentai a lezione nell’Università di Torino, nel mio corso di “Storia del pensiero politico contemporaneo”, indussero una ragazza, su cui potrei pure aggiungere qualcosa, a dirmi con gratitudine che quelle due pagine di Fichte le avevano cambiato la vita. Lì, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807), Fichte infatti affermava: “In questi miei discorsi non mi stancai mai d’inculcarvi che nulla vi può aiutare; che solo voi lo potete – né mi stancherò di ripetervelo fino alla fine. Ben possono la pioggia e la rugiada, gli anni di abbondanza e quelli di carestia dipendere da una forza a noi sconosciuta e da noi incontrollabile; ma le epoche umane come i rapporti umani son gli uomini che li foggiano, e nessuna forza all’infuori di essi.” C’è insomma un Non-Io, o può esservi – sia esso reale o posto dal nostro immaginario – ma l’Io, se è cosciente di sé, se diventa quello che è, se è se stesso, non ne dipende: “Solo – diceva – quando essi son tutti ciechi e ignoranti cadono in balia di questa forza nascosta e misteriosa” (il Non-Io); “ma dipende da loro di non essere ciechi e ignoranti. Certo l’essere oggi più o meno disgraziati” – il che voleva dire oppressi da un imperialismo straniero – “può dipendere in parte da quella misteriosa forza; ma ancor più dall’intelligenza e dal buon volere di coloro a cui siamo sottoposti” (ossia dal prevalere di altri Io, su Io germanici non ancora coscienti di sé). “Ma – aggiungeva – che noi torniamo a essere fortunati questo dipende unicamente da noi, né certo mai più le nostre sorti si rialzeranno se noi non ci procuriamo da noi tale felicità.” Stigmatizzava lo spirito di rassegnazione allo stato di fatto proprio dei vecchi, i quali sottolineavano, come sempre, il carattere effimero degli entusiasmi giovanili dicendo sostanzialmente ai figli desiderosi di lottare: “Ma spenta che sia questa fiamma giovanile della vostra fantasia, quando abbiate constatato l’universale egoismo e la pigrizia e l’ignavia, quando avrete gustato anche voi quanto sia dolce e comodo seguire la via battuta, vi passerà il ghiribizzo di voler essere più saggi e virtuosi degli altri”. Fichte commentava: “son gli anni maturi che li han resi calmi e addomesticati come li vedete ora. Non stento a crederlo; nella mia esperienza, pur non tanto lunga, ho visto anch’io giovani che in principio avevan destato superbe speranze, acconciarsi alla benintenzionata aspettazione degli uomini attempati. Ma voi, o giovani, non dovete continuare a far così; come, se no, potrebbe mai sorgere una migliore generazione? Cadrà il fiore della vostra giovinezza, la fiamma della vostra fantasia si smorzerà non trovando più in sé il suo alimento; ma oggi tenetela preziosa questa fiamma, intensificatela colla limpidezza del pensiero, rendetevi padroni dell’arte di pensare e riceverete in più la miglior dote dell’uomo: il carattere. Da questo chiaro pensiero scaturirà per voi la sorgente dell’eterna giovinezza; invecchi pure il corpo e le ginocchia vacillino; in perenne rinnovata freschezza lo spirito tornerà a generare sé stesso, e il vostro carattere rimarrà fermo e senza esitazioni.”[6]

Qui si ha il meglio di Fichte, proteso a realizzare Dio nell’Io e – ma in realtà subordinatamente al primo momento – l’Io in Dio. Il punto dell’universalizzazione dell’Io, come il vero e primo Assoluto, resterà fermo in tutto l’idealismo romantico.

La Natura nello Spirito: l’idealismo di Schelling

Tuttavia per affermare l’infinità dell’Io Fichte sembrava ridurre tutto ciò che non è Io a parvenza, a sfondo o sogno o incubo, o Non-Io, dell’Io, quasi che il mondo non esistesse. Certo l’infinitizzazione dell’Io era ben accetta a tutti gli idealisti. Il vedere la sola sostanza di Spinoza – filosofo allora molto riscoperto e apprezzato da Herder come da Lessing e Goethe – non solo quale indeterminata “Natura come Dio”, e “Dio come Natura” (come aveva fatto lo stesso Spinoza), ma come la ben fondata dimensione mentale a priori, trascendentale, investigata da Kant, però infinitizzata, come faceva Fichte, era condiviso, dapprima anche tra i discepoli filosofi, come Schelling (e poi Hegel, dapprima legato a Schelling). Ma Schelling e i suoi amici, come emerse ben presto, non potevano vedere “il mondo”, la divina natura, o la stessa materia, o la vita animale, come Non-Io (come un che di parvente, privo di intrinseca spiritualità). Questo contrastava troppo con l’istanza romantico panteista, legata a Spinoza e vivissima intorno a Goethe, Schiller, Novalis e i romantici in genere.

La posizione di nullificazione della natura, vista come teatro dell’Io, perciò fu ben presto criticata da Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, che poi all’Università di Jena sarebbe subentrato a Fichte alla morte del filosofo, di cui era stato discepolo. Hegel – anch’egli dapprincipio legato a Schelling, suo grande amico sin dagli anni di collegio a Tubinga – in seguito farà eco alle critiche di Schelling dicendo che Fichte aveva visto il mondo “da pazzo asceta”, che annulla il reale nella propria mente o spirito (nella Fenomenologia dello spirito, del 1807). In sostanza Schelling, sin dagli ultimi anni del XVIII secolo, accettava sì l’Io pensante infinitizzato di Fichte, ma non la visione della Natura come Non-Io. Fichte, per Schelling, aveva sì ragione nel reinterpretare il principio di identità di Aristotele “A = A” con la formula “Io = Io” (che stava a significare che il reale è il pensiero, che lo è, o in ultima analisi ne è la quintessenza); ma l’“Io = Io” andava posto in continuità con l’identità spinoziana tra Dio e la Natura, per cui “Io = Io” doveva significare pure “Natura = Io”, nel senso che la Natura non sarebbe da vedere, come mondo materiale, come l’anti-pensiero, come il non-trascendentale, come il Non-Io, ma – diceva Schelling – come “Io oggettivo” (l’Io corporeo: in senso che oggi diremmo psicosomatico, ma in tutto il corpo del cosmo). Se il mondo fuori dall’Io fosse il non-spirito, anche lo Spirito, o Io latentemente autocosciente, non potrebbe essere infinito, e forse neanche reale (gli mancherebbe appunto il suo corpo, il corpo del mondo). Il finito dovrebbe essere sì nell’infinito, nel trascendentale-mentale, come reale interno, ma anche esteriorizzato: finito “dell’infinito” e “nell’infinito”, “dell’Io” e “nell’Io”. Per poterlo affermare Schelling fa – anche prima di Schopenhauer, e con più precisione – la grande scoperta dell’inconscio, sostenendo che in noi, come esseri naturali, l’inconscio è sempre presente (nello Spirito non c’è solo autocoscienza pura, ma anche l’inconscio). Esso, anzi, può essere visto, persino in noi, come in tutta la natura, quale “preistoria della coscienza”. Perciò nel saggio Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), a proposito dell’intima relazione tra inconscio e coscienza in noi come in tutta la natura, Schelling osservava: “In noi ci sono due princìpi, uno incosciente, oscuro, ed uno cosciente. Il processo della nostra autoformazione – sia che cerchiamo di formarci nei riguardi della conoscenza e della scienza, o della moralità, o anche in maniera affatto indelimitata mediante la vita e nella vita – consiste sempre in ciò, che cerchiamo di innalzare alla coscienza ciò che vi è già in noi allo stato di incoscienza, di innalzare alla luce il momento oscuro innato: in una parola che cerchiamo di giungere alla luce. Lo stesso accade in Dio: l’oscurità in Lui precede, la luce si sprigiona dalla notte della sua essenza. Dio ha in sé gli stessi due principi che noi abbiamo in noi (…) tutta quanta la vita è propriamente soltanto un divenire sempre più altamente coscienti: i più si fermano soltanto al grado inferiore, e se anche si sforzano non arrivano per lo più alla chiarezza; e forse nessuno arriva in questa vita alla chiarezza assoluta – rimane sempre un resto oscuro (nessuno raggiunge la sommità del suo bene e l’abisso del suo male). Lo stesso vale per Dio. L’inizio della coscienza in lui è dato dal fatto che egli si separa da sé, oppone sé a sé stesso. Anche egli ha in sé un momento superiore ed uno inferiore.”[7] Qui emerge la nozione della continuità tra inconscio e conscio in noi e nella Natura, che pure è Dio, ma Lui pure inconscio-conscio; ma emerge pure il superamento della nozione agostiniana, e tanto presente nel cristianesimo, del male come “privatio boni” (mera privazione di bene, male senza radice ontologica), essendoci un abisso oscuro pure nel divino. I due piani, dell’inconscio e del conscio, sono indistinguibili, tanto che nell’opera più nota, il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), prima compiuta esposizione della sua vision, Schelling poteva osservare: “In ogni sorta di sapere è necessario il mutuo concorso di ambedue (del conscio, e di ciò che in sé stesso è inconscio); rimane dunque a chiarire questo concorso. Nello stesso fatto del sapere – in quanto io so – l’obiettivo e il subbiettivo sono così uniti, che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo; sono entrambi contemporanei ed un tutto unico.”[8]

Qui sembra superfluo notare le molte assonanze con il pensiero di Jung, forse connesse al legame forte tra Jung e Goethe, certo importante per Schelling: inconscio e conscio sarebbero due in uno e uno in due, complementari, nella psiche e nella natura, Afferiscono certo a un punto in cui s’identificano, che Jung, traendo idea e parola da Nietzsche, chiamerà Sé[9]. Ma persino questo Sé, qui, non è lontano.

I due piani – natura e spirito, inconscio e coscienza – sono identici. Su ciò si appunterà poi – per affermare non solo il primato, ma l’autonomia della coscienza – la nota critica di Hegel all’Assoluto di Schelling, che sarebbe come “la notte in cui tutte le vacche sono nere”, in quanto Schelling farebbe sparire tutte le specifità del reale in un Uno indifferenziato[10].

Per la verità per Schelling si potrebbe cogliere, e non solo presupporre, l’identità tra Natura e Spirito, inconscio e coscienza, in un’esperienza ben specifica, che non annulla affatto le particolarità. Solo che non è un’esperienza “filosofica”. Accadrebbe – almeno secondo quel che opinava nel 1800 e dintorni – nell’arte, che ci fa vedere l’irrazionale e il razionale fusi, come lo sono nella vita tutta e anche in noi: sicché il vero organo che coglie la fusione tra infinito e finito, spirito e natura, ragionevolezza e irrazionalità, conscio e inconscio, sarebbe l’arte. E anche questa visione – che certo risentiva pure dei bellissimi saggi di Schiller del 1795 sull’educazione estetica, avrà un grande futuro: porta ad esempio all’idea di Heidegger che l’essere, in sé – e pure in cammino – possa essere colto da taluni poeti, come Hölderlin, visti come veri rivelatori del cammino dell’essere stesso.[11]

Ma anche l’impostazione sull’arte che rivela l’Assoluto nella sua indistinzione tra inconscio e coscienza, però nel suo manifestarsi concreto, non sarebbe piaciuta a Hegel, per il quale l’Assoluto non avrebbe potuto essere irrazionale. Ove ci fosse “irrazionale” nella natura o realtà esterna, l’Assoluto, lo Spirito, il Logos che pure siamo, lo sovrasterebbe sempre, assorbendolo come un che di interno alla coscienza, come un momento inferiore (pensava Hegel). Questa era una difficoltà effettiva nel sistema di Schelling. Egli – così come non aveva accettato di ridurre la Natura a Non-Io come aveva fatto Fichte – non poteva neppure vederla come sub-coscienza come avrebbe fatto Hegel. Ma per ciò Schelling, nell’operosa e però “devota” vecchiaia, finì per vedere l’idealismo, cioè la riduzione del reale al pensante, come filosofia “negativa”, che cioè, anche utilmente, afferma l’Assoluto solo “per negazione”: in vista di una nuova filosofia detta, dopo la morte di Hegel, “positiva”, puramente neospiritualistica, in cui l’Assoluto diventa di nuovo Dio in senso forte, che include noi come la natura entro se stesso; senza che però venisse mai meno, in Schelling, il carattere enigmatico, oscuro, e persino un po’ tenebroso di Dio stesso, che come radicale della realtà, nostra come naturale, deve includere anche l’irrazionale, l’inconscio. Così Schelling giunge a vedere la mitologia antica, in primis greca, non solo come il graduale farsi o scoprirsi uomo da parte del divino immanente (poi culminante in Cristo), come in Hegel, ma come il manifestarsi di Dio stesso all’uomo. Lo svelarsi di Dio – dopo un originario, ma troppo elementare, monoteismo – si esprimerebbe nei miti, visti – in modo simile a Jung e identico a Hillman – come vera e propria “rivelazione” dell’Assoluto in forma intuitiva, fantastica, mitica, e però impregnata del Creatore. Questa rivelazione, nel mondo antico velata dal mito, preluderebbe a quella, superiore, del Dio cristiano (che Schelling si guarda bene dal dire altrettanto mitologica dell’altra, come uno potrebbe fare oggi). Vedendo il mitizzare come svelamento dell’Uno, si potrebbe pure giungere non solo al mitizzare “d’anima” di Hillman, ma addirittura all’ultimo Heidegger per il quale “Ormai solo un dio potrà salvarci”, in relazione all’attesa di un nuovo mitologema post-cristiano dopo la “morte di Dio”, espressa dal filosofo Heidegger nel 1970 in un’intervista detta “testamento”, allo “Spiegel” pubblicata, per sua volontà, solo dopo la sua morte, sei anni dopo[12].

di Franco Livorsi

  1. Per un inquadramento convincente si veda: P. CASINI, Scienza, utopia e progresso. Profilo dell’Illuminismo, Laterza, Roma-Bari, 1994. Per il riferimento a Hume si veda: D. HUME, Trattato sulla natura umana (1739/1740), Laterza, Roma-Bari, 1982 (ivi pure “Opere”, 1971). Ma si vedano: I. KANT, Critica della ragion pura (1781/1787), tr. di G. Gentile e G. Lombardo Radice rivista da V. Mathieu, Laterza, Bari, 1959; Critica della ragion pratica (1787), tr. di F. Capra rivista da E. Garin, Laterza, 1974. Per il nesso tra Illuminismo e Rivoluzione francese si veda: F. DIAZ, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli. L’Europa tra illuminismo e rivoluzione, Il Mulino, Bologna, 1986. Ma il nesso è respinto da chi ha visto l’Illuminismo come cultura del solo assolutismo illuminato, affossata dalla Rivoluzione francese, specie dai giacobini in poi, anticipatori del comunismo, utopistico e totalitario, come: F. FURET, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, 1989; F. FURET – M. OZOUF, Dizionario critico della Rivoluzione francese, Bompiani, Milano, 1994, due volumi, opera comunque imprescindibile perché raccoglie saggi su tutti i nodi fondamentali dei maggiori studiosi dei singoli temi. Per il Romanticismo si veda il classico: R. HAYM, Il romanticismo tedesco (1870), Ricciardi, Milano-Napoli, 1965. Si confronti con: R. SAFRANSKI, Il Romanticismo, Longanesi, Milano, 2011. Per il nesso tra idealismo, patriottismo e liberalismo è sempre da rileggere: G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Laterza, 1925.
  2. Il passaggio, centrale in J. G. FICHTE Fondamenti della dottrina della scienza (1794 e infine 1812), a cura di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1945, è ripreso e approfondito da: G. SEMERARI, Introduzione a Schelling, Laterza, Bari, 1971, p. 32.
  3. Dante ALIGHIERI, nella Divina commedia, fa proferire l’apostrofe “Fatti non foste a vivere come bruti” a Ulisse, che esorta i compagni a superare il limite umano andando al di là delle colonne d’Ercole con la navicella, nel canto ventiseiesimo dell’Inferno. Ivi, al canto terzo, c’è la condanna degli ignavi. L’articolo di A. GRAMSCI Odio gli indifferenti comparve sul numero unico “La Città Futura”, pubblicato a Torino l’11 febbraio 1917.
  4. Traggo queste parole di Fichte dal cap. “Dio, uomo e mondo nella metafisica di Fichte”, in: K. LŐWITH Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Morano, Napoli, 1967, pp. 41-53 (riferimento a p. 43).
  5. J. G. FICHTE, Lo Stato secondo ragione o Lo Stato commerciale chiuso. Saggio di scienza del diritto e d’una politica del futuro (1800). Con una post-fazione di G. Gentile, La vita felice, Cinisello Balsamo, 2016.
  6. J. G. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca, a cura di B. Allason, UTET, Torino, 1972, pp. 258-259.
  7. Testo di Schelling cit. da G. SEMERARI, in op. cit., p. 159.
  8. F. W. J. SCHELLING, Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), a cura di G. Semerari, Laterza, Bari, 1965, p. 7.
  9. Si veda il grande commento, protrattosi in un seminario unico durato dal maggio 1934 al febbraio 1939, dedicato da C. G. JUNG al Così parlò Zarathustra di Nietzsche: testo pubblicato dapprima in inglese a cura di J. L. Jarrett e poi – col titolo Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto del 1934-39, con trad. e cura di A. Croce, da Bollati Boringhieri, a Torino, in quattro volumi per oltre 1500 pagine, tra il 2011 e il 2013. Il passo più importante, tra molti, è quello del 10 giugno 1936 riferito al cap. dello “Zarathustra” Degli sprezzatori del corpo, in cui si pronuncia proprio sul Sé scoperto da Nietzsche e posto da lui (Jung) al centro della teoria dell’inconscio collettivo, come punto alfa-omega di esso quale si manifesta nella mente umana (II, pp. 1050-1051). Rinvio pure a: F. LIVORSI, Dialogo tra Jung e Nietzsche sul problema dell’individuazione, “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, vol. 90, 2014, pp. 193-206; Il filosofo e il suo analista. Sei anni di seminari di Jung sul “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche, “l’Ombra”, Moretti & Vitali, n. 5, 2015, pp. 9-31;
  10. L’espressione fu utilizzata nella Prefazione in: G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1935, due voll.
  11. F. SCHILLER, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), Garzanti, Milano, 2007.M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin (1981), Adelphi, Milano, 1988.
  12. M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare (1970, ma 1976), a cura di A. Marini, Guanda, Parma, 1987.

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