Filosofia del Socialismo

Karl Marx e la religione come “oppio dei popoli”

Pubblicato 28/12/2019

Provo a riflettere su una decisiva pagina di Marx in cui compare la famosa apostrofe sulla religione come oppio dei popoli, compresa nel suo saggio del 1844 Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844)[1]. Ritengo importante dire due parole preliminari sul contesto storico e filosofico, in funzione della comprensione del testo in oggetto.

Prima c’era stato l’Illuminismo, e più in generale il XVIII secolo: con la sua costante tensione a illuminare il reale con la ragione e soprattutto a razionalizzarlo; col suo rifiuto dei dogmi, e con la messa in discussione radicale di ogni rivelazione e dello stesso cristianesimo, in nessun periodo anteriore mai avvenuta in tale forma radicale e su così vasta scala; con la valorizzazione della scienza unita alla tecnica sin dalla famosa Enciclopedia delle scienze, delle arti e della tecnica curata da D’Alembert e soprattutto da Diderot (1751/1765, in 17 volumi); con la prima rivoluzione industriale inglese e poi europea e, last but not least, con la Rivoluzione francese del 1789 e degli anni successivi. Poi era arrivato Napoleone, che aveva portato, sulla punta delle baionette della sua Armata Nazionale, l’idea dell’uguaglianza giuridica tra i cittadini, propria della Gran Rivoluzione, e il proprio Codice civile moderno, privatistico e borghese, dappertutto, sino a Mosca, sia pure con tratto autoritario e intento imperialistico. Quindi nel 1815 Napoleone era stato definitivamente sconfitto ed era iniziata l’epoca della Restaurazione, in cui si erano alternate forti pulsioni reazionarie, con velleità russa e austriaca di tornare, tramite Santa Alleanza controrivoluzionaria tra i re cristiani, all’alleanza tra trono e altare – alias tra assolutismo e cristianesimo – anteriore al 1789, ed una linea più ragionevole (prevalsa), tendente al compromesso – pure nel seguire la via della difesa degli antichi troni “legittimi” – con le nuove tendenze borghesi, capitalistiche e via via liberali. Queste ultime si espressero specie dal 1830 in poi in Francia e in Inghilterra, e dal 1848 si espansero – sincronizzate con i movimenti di liberazione ed unificazione nazionale dei popoli oppressi dagli imperi stranieri austriaco e russo – dappertutto.

Un grande filosofo, a mio parere del livello dell’antico Platone, tra l’età di Napoleone e della Restaurazione tentò una sorta di sintesi tra rivoluzione e conservazione: era il tedesco Hegel. Il Dio trascendente e personale dell’antica tradizione ebraica e cristiana, anche per lui non era più proponibile come tale; ma egli Lo recuperava in chiave prevalentemente immanentistica[2], identificando Dio con la mente infinita (Logos), detta sempre in cammino, dell’umanità: una mente infinita in noi (e che anzi “è tutti noi”), che giunge a soluzioni, o sintesi, che poi disfa e rifà, sempre in avanti, mossa dalla propria potenza sintetizzatrice infinita pensante e volente (dialettica, teoria della sintesi degli opposti come base del divenire: tesi antitesi e sintesi, eccetera). Questo Dio – mente in noi, e anzi nostra mente antropologicamente – sarebbe pure quello cristiano; ma solo come divino nell’umano e umano nel divino, che sarebbero un tutt’uno, come in Hegel emerge dalla Fenomenologia dello spirito del 1807 all’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1816/1830)[3]. Da tali premesse derivava una continua istanza di armonia e ordine in forme sempre più avanzate e interdipendenti, che sul piano “oggettivo”, fuori di noi, s’incarnerebbe nella Forma-Stato, cui il singolo afferirebbe sempre, bon gré mal gré: sicché si può dire che il deposito del bene di tutti e di ciascuno, intersoggettivo – e non solo personale come nella moralità – sia lo Stato: da vedere, di conseguenza, come fine e mezzo per ciascuno, ossia come eticità, alias come bene comune in atto: uno Stato – quale sia per ciascuno di noi – cui secondo Hegel sarebbe bene obbedire sempre, restando ad esso fedeli anche nelle tempeste della Storia, almeno sin quando si possa farlo, ossia quasi sempre, se non addirittura sempre. Dati i tempi, e la sua mentalità (specie nell’età della Restaurazione), per Hegel tutto ciò sarebbe stato vivo ed operante nello Stato prussiano, che potremmo dire fosse, per lui, compiutamente conservatore e riformista al tempo stesso. Famiglia e società civile (mondo del lavoro, economia) sarebbero da vedere “nello” Stato, che le protegge, ma anche integra, come proprie ramificazioni interne (e se non lo fa “non è uno Stato”[4]). Questo era poi il succo della sua opera “politica” fondamentale: Lineamenti di filosofia del diritto (1821)[5].

Poco dopo la morte di Hegel, che era stato considerato – come e più di Goethe – un faro per tutta la Germania, e pure per la filosofia europea, la luce di quella filosofia idealistica[6] prese a conoscere black out sempre più grandi e gravi. I seguaci di Hegel, pochi anni dopo la sua morte (1831) – prendendo le denominazioni con cui ci si era a suo tempo opposti nel parlamento francese – si divisero in una “destra” (cristiana e conservatrice, o in senso prussiano o anche prussiano “costituzionale”), e in una “sinistra” (sempre più anticristiana, liberale radicale e infine, con Feuerbach e soprattutto Marx e Engels, materialista e comunista, e dal 1845 post-hegeliana). La “sinistra” insisteva soprattutto sull’implicito ateismo di una filosofia che, come l’hegeliana, identificava dio col pensiero, e sull’approccio implicitamente rivoluzionario di un pensiero come quello (hegeliano), in cui la “negazione”, l’”antitesi”, era – secondo essa – la forza dinamica stessa di ogni divenire.

L’attacco della sinistra hegeliana era rivolto soprattutto contro la filosofia religiosa (in generale, e nell’interpretazione di Hegel), sia perché l’alleanza tra trono e altare era propria dell’ala reazionaria russo-austriaca della Restaurazione, e sia perché dissolvendo l’ordine armonico che reggerebbe il mondo (il Logos immanente di Hegel, l’Uomo in Dio e Dio nell’uomo, che ci vede comunque infiniti alla prima radice), la rivoluzione sarebbe stata ancora “da fare” (come questi geniali giovani “contestatori” anelavano, fosse per essi liberale, democratica o persino socialista e per taluno anarchica). Il Regno di Dio, nel senso del paradiso, o grande armonia, non sarebbe già alla fonte della mente e dopo la morte (come ancora per Hegel), ma “da fare”. Solo l’azione per il futuro “armonico” avrebbe potuto vincere le infamie del passato e, quel che era peggio, del presente. Del resto va ben ricordato che si era – senza che quegli intellettuali potessero sapere quanto fosse attuale il loro lavorio “critico critico” – a pochissimi anni dal 1848 europeo (come noi da giovani prima del “Sessantotto”, ma nel caso del 1848 dieci o cento volte di più, in Europa: un 1848 che quella “contestazione” filosofica contribuiva a preparare). Questo tratto della sinistra hegeliana si coglie benissimo in tutti i principali testi della tendenza, proposti da Löwith in una preziosa antologia (oltre che in una sua opera fondamentale).[7]

Ora il testo che ci interessa di Marx sta in tale contesto: nell’estrema sinistra hegeliana, che era diventata materialista con Feuerbach (dal 1841) e stava diventando anche post-hegeliana, storico-materialista e comunista con Marx (e il suo amico Friedrich Engels). Ultima osservazione propedeutica: l’Introduzione alla Critica della Filosofia del diritto di Hegel, del giovane Marx del 1844 (era nato nel 1818), che qui ci interessa, era la premessa al libro, in cui Marx si studiava di confutare i richiamati Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel del 1821: Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Il libro di Marx comparve postumo solo nel 1927[8].

Va anche ricordato che nel 1844 la Rivoluzione francese era una vicenda di cinquantacinque anni prima, Napoleone di trent’anni prima e Hegel di poco più di un decennio prima. Se uno dei tanti “vecchi” del nostro tempo come me, o dei tanti uomini e donne di “mezza età”, si trasferisce mentalmente al suo mondo di altrettanti anni prima, il carattere non astratto, ma concreto, dei discorsi marxiani in questione verrà subito compreso meglio.

Ma ecco tutta la prima parte del testo marxiano sulla religione che ci interessa. A questo punto basterà qualche breve annotazione per comprenderlo abbastanza a fondo:

“Per la Germania la critica della religione nelle sue linee fondamentali è tracciata, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica.

(…) L’uomo che, cercando un superuomo nella realtà fantastica del cielo, non ha trovato che l’immagine riflessa di sé stesso, non avrà più la tendenza a trovare soltanto l’immagine apparente di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà.

Il fondamento della critica religiosa è: l’uomo fa la religione e non la religione l’uomo. Infatti la religione è la consapevolezza e la coscienza dell’uomo che non ha ancora acquisito o ha di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, isolato dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società.”

Qui c’è il primo e più importante distacco dall’idealismo, o mentalismo assoluto, di Hegel. Non solo non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, come per il Saggio sull’intelletto umano (1690) di John Locke, ma non c’è nulla che prima non sia stato nella vita collettiva, sociale. Il “mondo dell’uomo” – lo Stato, la società – per Marx ci vive dall’interno. Marx, dopo aver detto “mondo dell’uomo”, lo dice “lo Stato, la società”, ponendo ancora “hegelianamente” prima lo Stato e poi la “società civile” (o mondo dell’economia), dando al già nascente materialismo storico una torsione ancora politica, mentre quella maturata soprattutto dal 1845 in poi sarà sempre incentrata sulla “società civile”, cioè sull’economia come “struttura” in divenire della storia.

“Questo Stato, questa società, producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, proprio perché essi sono un mondo capovolto.”

La religione si basa sul paradiso armonico cui si dovrebbe accedere dopo la morte, perché da questa parte non c’è paradiso vero. Consola inoltre chi sta male, e quindi svolge un ruolo “ideologico”, nel senso del futuro Mannheim, ossia di pensiero funzionale al potere[9]. Insegnerebbe infatti ad accettare come un dato ineliminabile il male nel mondo, frutto di qualcosa di maligno che ci accompagna dalle origini (sin da Adamo ed Eva, nel mito ebraico e cristiano).

“La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo completamento solenne, la sua fondamentale ragione di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una vera realtà. La lotta contro la religione è quindi, indirettamente, la lotta contro quel mondo del quale la religione è l’aroma spirituale.

La miseria religiosa esprime tanto la miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale.”

Da un lato è realmente miserabile credere in un’ideologia che dice che la miseria reale è propria di un mondo colpevole; ma dicendoci questo la religione ci dice anche che il mondo com’è non va, che è urgente accedere a “un altro mondo” perché nel nostro al posto del paradiso c’è appunto la miseria reale.

“La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo.”

Marx conosceva sicuramente il romanzo autobiografico dell’inglese Thomas de Quincey Confessioni di un mangiatore d’oppio (1821/1822) e, oltre a tutto, viveva in un tempo in cui i lavoratori, spesso abbrutiti dalla fatica, nel fine settimana facevano appunto esperienza dell’oppio, come si vede ancora in Martin Eden di London (1909), in un tempo in cui il suo uso era totalmente libero. Qui sta a significare che le visioni paradisiache che l’oppio dà equivalgono alle speranze vane nel paradiso, e hanno lo stesso significato di evasione artificiale dalla realtà.

“La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.”

A questo punto emergono alcuni altri passaggi decisivi:

“La critica non ha strappato i fiori immaginari della catena perché l’uomo continui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo.”

Qui ad esempio c’è una differenza di fondo rispetto a quel che dirà poi Sartre ne La nausea (1938) e in L’essere e il nulla (1943), in cui la coscienza che Dio non esiste e il paradiso nemmeno segnano lo svelamento del carattere tragico della vita in se stessa, da cui non si potrebbe mai uscire, per quanto possiamo ricercare situazioni di fuggevole gioia e persino di spontanea forte solidarietà tra oppressi (poi oggetto della sartriana Critica della ragion dialettica)[10]. Marx, per contro, qui ci dice chiaramente che non si vuol togliere la fede nel “Dio in noi” e nel paradiso per lasciare l’uomo cosciente del nulla, disilluso, disincantato e disperato, ma per indurlo a cogliere “il fiore vivo”, ossia la vita bella al di là dei sogni “oppiacei” della religione: l’armonia realizzata da farsi, non tanto diversa dal paradiso in terra. Infatti qui egli seguita così:

“La critica della religione disinganna l’uomo, affinché egli consideri, plasmi e raffiguri la sua realtà come un uomo disincantato, divenuto ragionevole, perché egli si muova intorno a sé stesso e quindi intorno al suo vero sole. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove attorno all’uomo fino a che questi non si muove attorno a sé stesso.

È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di ristabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.”

Con ciò viene pure delineato il punto differenziale rispetto alla sinistra hegeliana sin lì prevalente: sarebbe inutile seguitare a incentrare l’attacco sulla fede cristiana, come fatto sin lì da David Friedrich Stauss e Bruno Bauer a Feuerbach stesso. Quel lavoro è stato, o sarebbe stato, ormai compiuto. Si dovrebbe, invece, cercare l’origine politica e sociale dell’alienazione umana, da cui è venuto lo stesso mondo capovolto della religione: criticando Hegel, ma nella sua filosofia politica (del diritto pubblico), e pure tutto il mondo politico e sociale alienato di cui sarebbe parte. A ciò soccorrerebbe la filosofia rivoluzionaria, che però, come dirà ben presto, potrà essere inverata solo tramite la prassi rivoluzionaria[11].

Il punto che però da anni m’inquieta è il seguente: “Se tale rovesciamento della prassi, ossia realizzazione dell’armonia che la storia ha perduto o mai trovato, risultasse impossibile, che cosa dovremo dedurne in tema di ‘paradiso’ da trovare? Non dovremo per caso percorrere la strada che da Hegel ha portato al crollo del comunismo – sia pure, ora, infinitamente arricchita da ciò che così si è capito in duecento anni e più – alla rovescia?”[12].

  1. K. MARX, Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: Annali franco-tedeschi, di A. Ruge e K. Marx, a cura di G. M. Bravo, con scritti di Ruge, Heine, Jacoby, Marx, Engels, Hess, Bernays, Herwegh, Bakunin, Feuerbach, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142.
  2. L’Assoluto “immanente”, ossia “presente”, dentro la stessa esperienza umana, viene opposto a “trascendente”, cioè all’essere o assoluto “al di là dell’esperienza”, come nei tre monoteismi intesi senza rettifiche di rilievo. La concezione immanentistica del divino apre sempre al panteismo, per il quale dio è il tutto, infinito, eterno e vivente. Il panteismo è opposto al teismo. La difficoltà del panteismo è quella di affermare la realtà del male, difficoltà presente pure nel teismo, che però può parlarne senza negarne la realtà profonda (per lo più attribuita a una colpa originaria commessa dall’uomo).
  3. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E, De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1933; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827 e infine 1830), a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1907.
  4. Si veda ad esempio il frammento di Hegel Libertà e destino, del 1799-1800, specie a p. 12 e sgg. In: G. W. F. HEGEL, Scritti politici, a cura di C. Cesa, Einaudi, Torino, 1974.
  5. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, Bari, 1987.
  6. In prima approssimazione si chiama “idealistica” ogni filosofia che veda la coscienza umana, la mente, il pensiero, come un che di assoluto, infinito, che ordina o è la quintessenza di tutta la realtà.
  7. K. LŌWITH, La sinistra hegeliana. Antologia di testi, Laterza, Bari, 1966. Si veda inoltre, e soprattutto, il classico, e ancor convincente, opus: K. LŌWITH , Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX (1949), Einaudi, Torino, 1949 e 1964. Ma si veda pure: H. LŰBBE, Gli hegeliani liberali (1962), Laterza, 1964. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 51-120. Si vedano pure: M. ROSSI, Marx e la dialettica hegeliana. I. La crisi del primo hegelismo tedesco, Editori Riuniti, Roma, 1963; C. CESA, Studi sulla sinistra hegeliana, Argalia, Urbino, 1972.
  8. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in: “Opere filosofiche giovanili”, trad. e note a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp.
  9. K. MANNHEIM, Ideologia e utopia (1929), Il Mulino, Bologna, 1957.
  10. J.-P. SARTRE, La nausea (1938), Einaudi, Torino, 1990, che io considero il suo libro più vero e bello; L’essere e il nulla, Saggio di ontologia fenomenologica (1943), Il Saggiatore, Milano, 1984. Più segnato dalla ricerca di soluzioni, pur precarie dato il nulla d’essere del mondo, è: Critica della ragion dialettica, I, 1960; e II, postumo, col sottotitolo: “L’intelligibilità della storia”, e Introduzione di P. R. Rovatti, Marinotti, Milano, 2006.
  11. K. MARX, Tesi su Feuerbach (1845), in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888), Rinascita, Roma, 1950.
  12. In caso, improbabile, e presumibilmente postumo, di pubblicazione, il titolo del libro sarà: Essere nell’essere. Parole e pensieri. I paragrafi andranno sempre riferiti all’anno di elaborazione del pezzo di volta in volta commentato, in tal caso mettendo “prima” quelli anteriori al 1844 e dopo quelli posteriori al 1844. Quando commenterò più testi di un autore, ovviamente anche i pezzi di quell’autore andranno posti in ordine cronologico.

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