Filosofia del Socialismo

I misteri della dialettica in Marx: dal sogno religioso e idealistico della “vita beata” all’idea materialistica della rivoluzione per la società senza classi e senza Stato

Pubblicato 15/01/2020

Sappiamo che Marx – nel saggio Critica della filosofia del diritto. Introduzione (1844) – voleva superare i sogni di vita beata nell’al di là (detti “oppio del popolo”) in vista di una lotta per una vita beata nell’al di qua. Sappiamo pure che l’ala contestatrice dell’idealismo (la cosiddetta “sinistra hegeliana”) – da cui Marx e Engels filosoficamente e umanamente provenivano – aveva messo da parte l’idea di Hegel di un Uno, o Logos, infinito ed eterno, immanente nella mente umana, che esprimendosi sempre come essere nel divenire genera in sé il conflitto tra gli opposti e il suo superamento, verso sintesi sempre più avanzate (dialettica idealistica, basata sull’Idea, ossia sulle istanze della mente, sempre in cammino). I giovani hegeliani, e tra essi Marx e Engels (anche dopo che li aveva ripudiati), avevano rinunciato al Logos infinito, eterno e immanente che circola nei tre momenti della tesi antitesi e sintesi, mettendolo da parte come una fumisteria cristiana; ma avevano mantenuto l’idea di un ritmo costante del divenire basato appunto sulla relazione dialettica tra tesi antitesi e sintesi (ma soprattutto sull’antitesi). Quella dialettica, a tre termini, fondata su affermazione – negazione e negazione della negazione, era applicata soprattutto alla storia[1]. Su tali basi Marx compì ben presto due decisivi passi ulteriori.

Dapprima egli seguì il materialismo – ancora segnato dall’idealismo della matrice – di Ludwig Feuerbach: un materialismo che sostituiva, e quasi surrogava, l’Idea dell’Assoluto presente a priori in noi – propria di Hegel – con quella di “specie umana” che vive la vita di ciascuno di noi dall’interno. Il nostro essere nel profondo “specie”, anche come individui, avrebbe pure la conseguenza di accomunarci nel profondo come esseri umani, tramite un sentire appassionato che ci unirebbe a tutti e al tutto rendendoci quasi comunisti per natura (“se fossimo” secondo natura). Lo saremmo – spiegò presto Marx abbeverandosi sia all’economia classica inglese che al socialismo libertario francese – se la maledetta divisione in classi – nel capitalismo specialmente tra borghesi e proletari – non alienasse la nostra coscienza profonda (Manoscritti economico-filosofici del 1844).

Ben presto Marx – scoperta la classe operaia “comunista” (protocomunista) di Parigi, che faceva già capolino in una bellissima pagina dei Manoscritti citati del 1844 – passò da una nozione di specie umana, universalistica, intersoggettiva, che ci farebbe – nella nostra vera natura – solidali (“comunisti” in senso etimologico), all’idea della primarietà assoluta della situazione, o contesto, o “essere sociale”, o rapporti economico sociali, costituenti la “struttura” della realtà: struttura di fatto identica alla nozione hegeliana, e generalmente moderna, di “società civile”, entro cui si confrontano – in continua lotta senza quartiere, ora latente ed ora aperta – le classi produttive: nel nostro sistema il capitale e il lavoro salariato; i borghesi e i proletari; gli sfruttatori del lavoro dipendente e gli sfruttati dipendenti; i dominatori dello Stato e i dominati dallo Stato. Lo Stato era sempre inteso come longa manus, o “arma”, di coloro che siano dominanti nell’economia reale, nella “struttura”, nella “società civile” latamente intesa, come Marx e Engels ritennero soprattutto dal 1845-1846 in poi, chiamando la loro visione materialismo storico.[2] L’idea di fondo era che se la società – il mondo in cui si produce e si vive, cioè la struttura – avesse superato la divisione in classi che la connota da migliaia di anni (e di cui il capitalismo, con la sua opposizione irriducibile tra borghesi e proletari, è considerato l’ultima formazione economico sociale divisa in classi), l’umanità nuova e solidale, uno per tutti e tutti per uno, in cui tutto è di tutti, si affermerebbe come al tempo del tribalismo comunista: però non in un irrepetibile – e destinato a perire pure dove esista ancora – mondo arcaico e tribale, ma al più alto livello di sviluppo. In alternativa ci sarebbe l’imbarbarimento sempre più grave, la “comune rovina delle classi in lotta” (come Marx e Engels dicevano già nel Manifesto del partito comunista del 1848[3], certo pensando alla fine del mondo antico). Il ritmo tesi antitesi sintesi in questa visione permaneva, ma come modo di andare avanti della società umana. La svolta si coglie benissimo, allo stato aurorale, nelle Tesi su Feuerbach di Marx del 1845. Lì si ha pure il superamento di Feuerbach. Risulta dal testo.

Tesi IV: “Feuerbach prende le mosse dal fatto che la religione rende l’uomo estraneo a sé stesso e sdoppia il mondo in un mondo religioso immaginario, e in un mondo reale. Il suo lavoro consiste nel dissolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Egli non si accorge che compiuto questo lavoro, la cosa principale rimane ancora da fare. Il fatto stesso che la base mondana si distacca da sé stessa e si stabilisce nelle nuvole come regno indipendente non si può spiegare se non colla dissoluzione interna e colla contraddizione di questa base mondana con sé stessa. Questa deve pertanto essere compresa prima di tutto nella sua contraddizione e poi, attraverso la rimozione della contraddizione, rivoluzionata praticamente.”

Qui si sente ancora il ritmo della dialettica di Hegel sin dalle sue scaturigini: Essere, Nulla e Divenire[4]. L’Essere diventa però, laicamente, non più e non già il Logos o l’Idea (Hegel) o il genere umano (Feuerbach, e Marx sino al 1844), ma la società determinata, capitalistica (tesi). In essa va enfatizzato il momento della nientificazione, alias della negazione e dissoluzione, o rivoluzione (antitesi), in vista della società senza classi e senza Stato, alias “comunista” (sintesi).

Marx prosegue, alla tesi VI: “Feuerbach risolve l’essere religioso nell’essere umano. Ma l’essere umano non è un’astrazione immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l’insieme dei rapporti sociali.”[5] Conseguenza: l’uomo è un essere sociale, ha in sé stesso la società come un microcosmo, ma con tutte le sociali lacerazioni di essa, che sono pure presenti negli attori sociali collettivi, pur tra loro contrapposti. Perciò i problemi dell’uomo si risolvono solo superando i contrasti laceranti della società in un assetto senza classi e senza Stato. Tale conseguenza è tratta alla tesi VIII: “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana e nella comprensione di questa attività.”[6]

Qui, per proseguire nella comprensione quanto più profonda possibile del discorso marxiano, dobbiamo andare all’idea più matura di dialettica del Marx del Capitale. La pagina decisiva sulla dialettica è scritta da Marx nel Poscritto alla seconda edizione (la prima era uscita a Amburgo nel 1867) del primo libro del Capitale (1873). Debbo confessare che per almeno una ventina d’anni questa è stata la mia pagina preferita di Marx (e a tutt’oggi la ritengo la più emblematica). Contestualizziamola brevemente (innanzitutto). Marx, nel Poscritto che qui ci preme, si schermì dal rilievo sul suo hegelismo latente (fatto da un recensore di Pietroburgo), ma lo confermò su un punto, decisivo per lui e per la sinistra hegeliana: l’assoluta centralità dell’antitesi nel divenire umano. Osservò infatti: “Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli, sotto il nome di Idea, trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo[7] del reale, mentre il reale non è che il fenomeno esterno del processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini.

Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa. Quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo Spinoza: come un “cane morto”[8]. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era proprio.”

Ma è a questo punto che vengono i passaggi decisivi: “La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico.”

In Hegel la coscienza universale, per lui infinita, a tutti comune, cioè intersoggettiva – da lui presupposta – avanza giungendo a un risultato, annullandolo e giungendo a un altro risultato, e così via. Per contro il soggetto semoventesi è ora, per Marx, dal 1845 in poi, soltanto la società umana: la “società civile”, la società in cui si lavora, si produce, si lotta e si vive in ciascun periodo. Questa “società civile” vede di volta in volta, e anzi di continuo, contendenti collettivi (classi polarmente opposte) che si negano, sono in guerra perpetua reciprocamente ora latente e ora aperta, in vista del fine in loro immanente (che nel mondo moderno per i borghesi è l’ottenere sempre più denaro, e per i proletari un assetto in cui siano abolite le differenze tra le classi: in cui, cioè, si giunga ad una società senza classi). La dialettica sarebbe la società (tesi) in cui sfruttatori e sfruttati sono in lotta continua (antitesi), in vista di una sintesi, che, nel caso degli sfruttati moderni, che vendono in forma di salario la loro forza lavorativa, potrebbe essere solo una società senza sfruttamento né autoritarismo, cioè senza classi, e per ciò anche senza Stato (la sola che meriterebbe il nome di “comunismo”). La dialettica è il divenire attraverso gli opposti, in ogni ambito, ma per Marx vale prima di tutto nella storia sociale.

Perciò nel Poscritto del 1873 alla seconda edizione del primo libro del Capitale Marx seguita: “Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente.” Sembrava cioè dimostrare che quello che esiste è universalmente necessario: è un “reale” intrinsecamente razionale; è frutto della ragione assoluta, o Logos, che domina il mondo, ed è per ciò bene in sé e per sé (per Hegel). Ma – ecco il punto chiave di Marx, che pongo in corsivo -: “Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza”.

La dialettica s’incentra dunque sul vedere l’esistente come morituro, prossimo a dissolversi: sempre sul punto di venire annullato, nientificato, superato. Ma siccome il passaggio non va da una coscienza universale a un’altra coscienza universale, bensì da una modalità di società a un’altra modalità di società, pure il rapporto tra la forza materiale e le idee s’inverte. L’azione fa il pensiero o, come avrebbe detto Goethe, “in principio era l’azione”[9]. A questo punto torniamo brevemente alle Tesi su Feuerbach. Lì Marx, che aveva già scoperto la centralità rivoluzionaria del proletariato, e il socialismo che ai movimenti del proletariato sempre si connetteva, polemizza con quello che era contemporaneamente un grande socialista utopista e un grande riformista, l’inglese Robert Owen. Questi aveva un approccio sulla democrazia industriale che può ricordare quello di Dewey per la scuola attiva. Dewey faceva esperimenti di scuola “attiva”, incentrata sulla centralità del lavoro libero e creativo dello scolaro, pensando che quel metodo avrebbe poi potuto diffondersi a livello sociale per la sua intrinseca bontà, con la forza dell’esempio.[10] Owen, che era un industriale riformatore – esattamente come poi Adriano Olivetti col suo comunitarismo a partire da Ivrea e dal suo territorio dopo la seconda guerra mondiale[11] – voleva fondare fabbriche modello (come New Lanarck, in Scozia, all’inizio deò XIX secolo), quanto più possibile sane, serene e con sevizi sociali annessi, pensando che per la forza stessa dell’esempio si sarebbero diffuse. Contro di ciò – a torto, a ragione, o in parte a torto e in parte a ragione (di ciò si può discutere) – Marx su ciò genialmente osservava: “La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione, e che pertanto uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l’ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato.”

Detto rozzamente, anche se ci fossero educatori che vanno controcorrente, come nel bel film L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, le idee dominanti rifletterebbero sempre quelle di chi sia socialmente dominante (le idee controcorrente resterebbero come una rondine che non fa primavera). Ma allora – potrà pensare più d’uno – non se ne esce mai: eppure si può ben dire, anche del mondo collettivo, “eppur si muove”, la società cambia (e spesso in meglio). Marx risponde: sì, essa cambia; ma non perché sia già emersa una nuova coscienza, bensì perché il diffuso disagio ha portato all’abbattimento della vecchia società, e “poi” a una nuova coscienza, conforme alla società nuova (al più si può dire che l’ampio diffondersi di nuove idee, non ancora dominanti, sia indizio del crollo imminente della vecchia società, come le profonde crepe nei muri annunciano il crollo dell’edificio, ma non certo la nuova casa). Infatti la stessa III Tesi prosegue così: “La coincidenza del variare dell’ambiente e dell’attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria.” E solo a questo punto siamo in grado di intendere la famosissima ultima, XI, Tesi: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.”[12]

Possiamo intendere la cosa sia in modo spiccio (ma non falso) e sia in modo un po’ più elaborato (ugualmente vero). Nel primo senso si propone il superamento stesso della filosofia, e quasi l’antifilosofia. Non si è distanti dal Che Guevara il quale diceva che “il primo dovere del rivoluzionario è fare la rivoluzione”, o anche da un certo attivismo rivoluzionario. Al proposito c’è un bel mito greco antico reinterpretato, quando era anziano, dal primo leader storico del PCI, Amadeo Bordiga. Egli ricordava Minerva (o Atena). Era la dea della sapienza, appassionatamente amica di Ulisse (nell’Odissea di Omero) e poi dea di Atene. Minerva era spesso rappresentata con una civetta (o nottola) ai piedi. E Hegel nelle sue lezioni di filosofia della storia aveva detto che “la nottola di Minerva appare solo sul far della sera”[13]: cioè il senso profondo e necessario degli avvenimenti si coglie solo alla fine. Ora Bordiga, pensando alla coscienza sociale che arriva (“arriverebbe”) sempre dopo il crollo di un sistema e mai prima (non come la civetta sul far della sera, ma come l’alba dopo la notte), ricordava il mito greco antico della nascita di Minerva. Zeus aveva avuto un atroce mal di testa. Allora aveva ordinato al “dio operaio”, Vulcano, di rompergli la testa con una tremenda martellata (tanto le ferite degli dèi guarivano presto). Vulcano, pur riluttante, gli aveva rotto la testa con una grande martellata, e di lì era saltata fuori Minerva, già del tutto armata, ossia “la divina sapienza”. (Insomma, prima si fa la rivoluzione e poi arriva la coscienza nuova, l’umanità nuova, e così via)[14]. Questo ha però molto, moltissimo, a che fare con la dialettica della sinistra hegeliana e di Marx, che affida alla dissoluzione della “datità”, alla nientificazione della realtà costituita (come nell’essere-nulla-divenire di Hegel), i destini del cambiamento. Qui la memoria corre a una pagina bellissima e famosissima del 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852) di Marx, ossia sulla presa del potere semidittatoriale da parte del futuro Napoleone III. La richiamo insieme ad una piccola annotazione che dovrebbe interessare non poco gli studiosi della storia del pensiero politico, perché qui credo di poter indicare un nesso significativo, che in un uomo coltissimo e lettore onnivoro come Marx non poteva essere casuale.

Il primo riferimento va ai Ragguagli del Parnaso (1607/1613) del pensatore controriformista e teorico della ragion di stato Traiano Boccalini. Al tribunale del monte Parnaso, di cui il dio Apollo era lì re, si sottoponevano a processo diversi uomini rappresentativi dell’epoca moderna. Fu scovato e processato anche Machiavelli, all’epoca considerato quasi diabolico per le idee espresse nel Principe (1513, ma 1532). Machiavelli si difese dicendo che “gli scritti miei altro non contengono che quei precetti politici e quelle regole di Stato che ho cavato dalle azioni de prencipi”. Che senso avrebbe avuto imputare a lui “l’arrabbiata e disperata politica scritta da me”, ritenendo invece “sacrosanti” i “prencipi”, autori delle scelleratezze? Perché far passare il semplice rivelatore dei fatti criminali di tanta politica per il solo e vero “ribaldo” e “ateista”? – Sembrava sulle prime incontestabile, ma infine i giudici lo condannarono ugualmente al rogo perché svelando il vero alle “pecore” le trasformava in lupi. Essi sostennero “che era un voler porre il mondo tutto in combustione il tentare di far maliziosi i semplici e far vedere lume a quelle talpe le quali con grandissima circonspezione la madre natura avea create cieche.”[15]

Ora Marx, nel citato Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1853), prendendo atto del lungo processo rivoluzionario in Francia che dopo le vicissitudini rivoluzionarie del 1789, ma anche dei primi mesi del 1848 era alla fine arrivato al golpe di Luigi Filippo, che però per lui anticipava nuove rotture rivoluzionarie (come parve poi la Comune di Parigi del 1871), scriveva: “ La Francia sembra dunque sia sfuggita al dispotismo di una classe soltanto per ricadere sotto il dispotismo di un individuo, e precisamente sotto l’autorità di un individuo privo di autorità[16]. La lotta sembra dunque essersi calmata perché tutte le classi, egualmente impotenti e mute, si inginocchino davanti ai calci dei fucili.

Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. (…) Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l’unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!”[17]

Ecco quindi tornare la talpa di Boccalini, ma non più per sottolineare con qualche arroganza – da uomini aperti solo alla “ragione dello Stato” – la fatale e utile cecità da talpe dei semplici cittadini, da tenere assolutamente all’oscuro degli “arcana imperii” (i segreti del potere), ma dalla parte della talpa. Questa però è valorizzata per un lavoro di scavo che farà crollare l’ordine capitalistico sovrastante. Inoltre la “talpa” è identificata con la Rivoluzione, vista come il segreto della storia, tanto quando essa Rivoluzione fa la democrazia a suffragio universale dominata dalla borghesia (Francia del febbraio 1848) quanto quando fa la dittatura di Napoleone III; la Rivoluzione farebbe così per poi travolgere, più oltre, gli opposti. Se per Hegel il soggetto della storia era il Logos, lo spirito infinito ed eterno dell’umanità che “si svolge” in tesi antitesi e sintesi, qui il soggetto della storia è la Rivoluzione stessa: a dimostrazione di una visione – emergente della sinistra hegeliana e durata sempre anche nel pieno del materialismo rivoluzionario – in cui proprio l’antitesi, il Nulla dell’Essere, la dissoluzione del reale, la Negazione, è la forza motrice del mutamento (se non addirittura l’essere della storia, che è la realtà, che si disfa, il Nulla dell’Essere, se non addirittura il Nulla come matrice dell’Essere). Naturalmente la “vecchia talpa” è anche il proletariato, ritenuto antagonista per il suo stesso essere profondo nel capitalismo. Come si vedrà.

L’impostazione, che vede la negazione della realtà costituita come il filo rosso della dialettica della storia, ci spiega poi una cosa che di primo acchito colpisce molto: come mai Marx, che ha scritto non meno di diecimila pagine (o forse quindicimila) nella sua vita, dopo il 1845[18] ne abbia scritto una cinquantina soltanto, diciamo non più di un centinaio mettendo insieme tutti i “pezzi” in proposito di tipo dottrinario, di teoria dello Stato e addirittura di teoria della transizione al socialismo. Il fatto è che per lui la chiave di volta era il Grande No, il gran rifiuto, il momento dell’antitesi (se non addirittura il reale dissolventesi, come se tesi e antitesi fossero quasi un tutt’uno). Quest’antitesi per Marx era il proletariato stesso, latentemente o espressamente contro il capitalismo per la sua condizione imprescindibile. Ma era vero?

La “sintesi” sarebbe stata, insomma, la conseguenza dell’antitesi, e basta. Eliminato quel che andava eliminato, il mondo nuovo sarebbe seguito. Il cosiddetto “bene” sarebbe scaturito dall’abolire il cosiddetto “male”: dalla decostruzione e non dalla costruzione. Sarebbe accaduto in forme che sarebbe stato vano voler prefigurare, aprendo quella che Marx chiamava sarcasticamente “l’osteria dell’avvenire”. Ma era proprio così? E nel caso in cui tale impostazione fosse stata erronea, su cosa avrebbe potuto o dovuto poggiare il movimento di trasformazione della realtà, che effettivamente era ed è da cambiare perché con tutto lo sfruttamento e autoritarismo che la permeavano e permeano la “realtà” non andava e non va?

  1. K. MARX, Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: AA.VV., “Annali franco-tedeschi” (1844), a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Per i riferimenti alla dialettica in Hegel, si vedano soprattutto: G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito (1807), a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1960, due voll. ; Scienza della logica (1812), a cura di A. Moni, Laterza, Bari, 1924-1925 e ivi (Biblioteca Uiversale Laterza), 1978, tre volumi; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), a cura di B. Croce, ivi, 1907. Per un vero e proprio commento, oltre che interpretazione, dei testi di Hegel si veda: J. HYPPOLITE, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel (1946), a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2005; Logica ed esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel (1953/1961), ivi, 2017. Per la sinistra hegeliana, si veda: La sinistra hegeliana. Antologia di testi, a cura di K, Löwith, Laterza, 1966.
  2. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: “Opere filosofiche giovanili”. A cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963, pp. 145-278. Si veda alle pagg. 242-243 la testimonianza sugli operai comunisti di Parigi.
  3. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1962, p. , ove si dice che tutta la storia è storia di lotta di classi (ovviamente diverse di sistema in sistema), e che tale lotta è sempre finita o col trionfo di una classe sull’altra o, appunto, “con la comune rovina delle classi in lotta”. Si danno insomma anche contesti in cui perdono tutti. Ad esempio io temo molto che l’Italia del 2020 sia “così”.
  4. G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, cit.
  5. M. MARX, Tesi su Feuerbach (1845, ma 1886), in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), tr. di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1950, pp. 77-80.
  6. Ivi.
  7. Il Demiurgo è il dio che imitando il mondo perfetto delle idee eterne nel Timeo (intorno al 360 a.C.) di Platone, modella l’informe materia eterna fabbricando il mondo.
  8. L’illuminista tedesco ed ebreo Moses Mendelssohn intorno al 1783, in polemica con Lessing, svalutava radicalmente Spinoza per il suo panteismo.
  9. Lo afferma W. GOETHE nel Prologo del Faust (in: Faust Urfaust, 1773-1774 ma 1790 e 1826/1832, Introduzione di G. Mattenklott e Prefazione di E. Trünz, con testo tedesco a fronte e note di A. Casalegno, Garzanti, Milano, 1990), ben noto pure a Marx.
  10. J, DEWEY, Scuola e società (1899), a cura di F. Borruso, Edizioni Conoscenza, Milano, 2018; Democrazia e educazione (1916), a cura di G. Spadafora, Anicia, Roma, 2018.
  11. Robert Owen, importante esponente anche teorico del socialismo utopistico, ma pure cooperativistico, come industriale socialista fondò la fabbrica modello di New Lanark in Scozia all’inizio del XIX secolo. Adriano Olivetti, fondatore dell’Olivetti di Ivrea, perseguì un proposito e una prassi di democrazia industriale a Ivrea. Fondando pure il Movimento Comunità a Torino nel 1948.

  12. Punti III e XI delle Tesi su Feuerbach di Marx cit.

  13. G. W. F. HEGEL, Lezioni di filosofia della storia (1822/1831, ma postumo 1837 a cura di G. Lasson), a cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze, 194171955, tre volumi. L’affermazione cit. è nell’Introduzione di Hegel.
  14. A. BORDIGA, La “invarianza” storica del marxismo (7 settembre 1952), in: Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, Edizioni Il programma comunista, Ivrea, 1973, pp. 19-23, al punto 18 di tali tesi (ove compare mito e interpretazione). Si veda pure l’ora imprescindibile: Amadeo Bordiga 1889-1970, Bibliografia, a cura di A. Peregalli e S. Saggioro, Colibrì, Milano, 1995, p. 143 (per l’attribuzione). Rinvio pure a: F. LIVORSI, Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori Riuniti, Roma, 1976, da confrontare pure con il mio saggio: Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento”, Milano, a, LVII, n. 2/3, 2005, pp. 263-302.
  15. T. BOCCALINI, Ragguagli del Parnaso, a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1948, tre voll. , I, 89. Sottolineatura mia.
  16. “Autorità” era qui usato nel senso etimologico latino di “auctoritas”, che significa “autorevolezza”.
  17. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1964, pp. 204-205.
  18. I testi di Marx dopo il 1845 su tali temi si limitano più che altro ad alcune annotazioni contro il parlamentarismo fatte a caldo, rispetto ai drammatici eventi francesi, nel 1850 (a proposito del cretinismo parlamentare” e, su entrambi i versanti, ad alcuni appelli del 1870-1871, scritti come presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, di sostegno e apologia della Comune di Parigi come modello di governo o Stato operaio, e a tre o quattro pagine di critica al socialismo di stato lassalliano nel 1875. Sono testi essenziali, ma non certo confrontabili con la vastità e profondità del resto della sua opera.

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