“First Nations of Canada”. Le lotte dimenticate dei Nativi della Costa Ovest

Ci sono stato. Ho visto con i miei occhi a Port Moody, non lontano da Vancouver come gli indigeni di oggi, i “popoli nativi”, le “first nations” come le chiamano loro, si sono sapute organizzare realizzando un perfetto sistema di incastri che va a vantaggio dei “nativi” ma che permette di vivere, lavorare, muoversi anche ai “bianchi o neri o gialli” di varia origine, che costituiscono l’ossatura del Canada moderno. C’è tutto. C’è il medico con un accenno di treccina, tutti i negozi (ed anche un “mall”) con le merci locali a chilometro zero, ci sono prodotti di abbigliamento europei ma anche etnici. Ci sono librerie, fast food, ristoranti raffinati locali e internazionali, bar, cinema, fabbriche, scuole… sempre e comunque rigorosamente interetniche, con il percepibile piacere di mantenere la cultura degli avi e, se possibile, farla apprezzare ai foreigners (in genovese sarebbero “i foresti”). Anche il cibo è particolare e legato alla terra (più che al mare), con i suoi prodotti di stagione e con una invidiabile capacità di abbinare semplicità a combinazioni di gusti, aromi e colori.

C’è, infine, assolutamente da non perdere il piccolo negozio in legno, faccia al porticciolo, degli eredi di John Read, un artista Hidatsa da poco scomparso, grande autore di opere di varia natura sempre basati su disegni o strutture dei popoli della costa. Il castoro, l’aquila, il serpente, il lupo, l’orca…con lui rivivono e, se non potete andare a Port Moody, andate a vedere, per lo meno, il bel Museo civico a lui dedicato nel pieno centro di Vancouver.

Ma di che popoli stiamo trattando?

 

Qualche informazione non guasta.

Popolazioni di lingua athabaska (o Dene’); risiedevano lungo le coste delle isole e delle insenature del Canada nord-occidentale. Appartengono all’area culturale della costa del Nord pacifico, assieme al Tlingit, ai Bella-bella, ai Kwakiutl, ai Nootka, ai Bella- Coola, ai Salish, agli Hidatsa. Le popolazioni di questa area sono note per gli studi di Franz Boas (1),

Un’altra grande rappresentante della “sensibilità americana” rispetto alle culture dei popoli nativi del nord ovest pacifico è sicuramente Ruth Benedict (2). E’ considerata a buon diritto la fondatrice dell’antropologia accademica statunitense. E’ suo il famoso testo Patterns of Culture (1934) che cerca in tutti i modi di far conoscere e valorizzare usi e costumi dei nativi americani. La sua riedizione del 1958 (con prefazione di Margaret Mead) fu un successo sia editoriale, sia di costume. Contribuì a cambiare radicalmente l’idea dei nativi, a comprenderne la complessa cultura e iniziò un recupero / inclusione che ancora oggi sta dando i suoi frutti. Come osserva Zoë Burkholder in Franz Boas e Anti-Racist Education , pur essendo Boas a volte poco comprensibile per la sua prosa involuta, ciò che portò alla cultura americana (insieme alla Benedict) è fondamentale. L’accenno alla scarsa leggibilità di Boas (come di molti altri antropologi) sta nella formazione stessa di questi studiosi. Eclettica ma essenziale, molto approfondita e attenta ai dettagli e poco disponibile a voli pindarici o a considerazioni dall’ora del te’.

Come scrive Michel-Rolph Trouillot in Antropologia (3) con l’articolo intitolato “Savage Slot”, questa nuova scienza “ha ereditato un campo di significato che ha preceduto la sua formalizzazione” (Anthr. 2003. 9). Addirittura si è ripreso, in pieno XX secolo,  il mito del “buon selvaggio” di rousseauiana memoria. Un argomento tanto coinvolgente fino a rappresentare un “Occidente” in perenne dubbio sulle “possibilità di utopia” contro la “necessità di ordine”. Proprio come il selvaggio è un argomento metaforico a favore o contro l’utopia, così è l’utopia (e il selvaggio che racchiude) un argomento metaforico a favore o contro l’ordine, concepito come espressione di legittima universalità” .

Al tempo di Boas e Benedict, le discussioni sugli popoli diversi da noi (per riprendere il titolo del famoso libro di Beattie) erano già in corso da centinaia di anni. “Ora come prima, il selvaggio è solo la prova all’interno di un dibattito, la cui importanza non solo supera la sua comprensione ma la sua stessa esistenza. Proprio come l’ utopia stessa può essere offerta come una promessa o una pericolosa illusione, il selvaggio può essere nobile, saggio, barbaro, vittima o aggressore, a seconda del dibattito e degli obiettivi degli interlocutori “

Anche Boas e Benedict entrarono in un mondo profondamente trasformato, non solo dai popoli in costante interazione, contatto e scambio, ma dagli effetti diretti e indiretti di diverse centinaia di anni di colonizzazione.

Le idee eurocentriche prima sviluppatesi e continuamente rinnovate a partire  dal Rinascimento, la prima ondata di colonialismo, l’Illuminismo e la pratica della schiavitù delle piantagioni nelle Americhe, avevano provocato serie reazioni ai tempi della seconda ondata di “colonialismo”. In sostanza, cominciava ad affiorare un certo indistinto “senso di colpa” che pero’, anch’esso, andava -.secondo la Benedict – relativizzato.

Come è noto ai tempi di Boas e di Benedict, il colonialismo era già alla sua seconda ondata. La maggior parte dei popoli era  stata profondamente modificata dagli interventi /incontri precedenti, anche se, a volte,  solo come effetto derivante dalla colonizzazione diretta.

Inoltre, le idee degli altri erano di fatto disprezzate e etichettate come “assenza di logica” e  “negazione dei dati reali”. “La colonizzazione divenne una missione e il selvaggio divenne, a sua stessa insaputa,  assenza e negazione” (Trouillot 2003).

Il “selvaggio” poteva essere spiegato attraverso il determinismo ambientale o geografico, molto di moda , ai tempi. Oppure come determinismo razziale,orire, presente in rafforzato di recente dall’idea che ogni razza trovava un suo posto ben preciso nella gerarchia evolutiva. Boas e Benedict speravano che il concetto di cultura avrebbe contrastato queste forme di determinismo. Speranze che cozzavano con una realtà dura a m modo radicato per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX.

E’ stata proprio Ruth Benedict nel suo  Race, Environment, and the Concept of Culture a mettere in discussione una serie di banalità e di “si dice”.

Infatti il messaggio principale di Patterns of Culture è – de facto –  l’importanza primaria attribuita al comportamento appreso durante l’esistenza umana. In contrasto con le nozioni prevalenti di determinismo razziale o biologico, di comportamenti esclusivamente legati all’ambiente fisico circostante,  Ruth Benedict affermava che la cultura di ogni popolo è commisurata alla sua posizione geografica, alla sua storia, alle sue credenze. Le basi di quella che andrà ad affermarsi come “antropologia culturale”.

Il primo capitolo di  “The Science of Custom” è molto chiaro sotto questo punto di vista: “Nessun uomo guarda mai il mondo con occhi incontaminati. Lo vede composto da un insieme definito di costumi, istituzioni e modi di pensare. Anche nelle sue indagini filosofiche non può andare oltre questi stereotipi; i suoi stessi concetti di vero e di falso faranno ancora riferimento alle sue particolari usanze tradizionali”.  John Dewey ha detto con la massima chiarezza che la parte interpretata dall’abitudine nel plasmare il comportamento dell’individuo, è come la differenza fra quella che può essere la complessità di un intero vocabolario ed il parco lessicale  di un bambino di dieci anni.

Sulla questione della razza, o sulle idee del determinismo biologico, Benedict è essenziale e precisa: “Non un elemento della sua organizzazione sociale tribale, della sua lingua, delle sue religiose locali è presente nelle sue cellule germinali (del piccolo neonato). (…) La cultura non è un complesso trasmesso biologicamente “. Agli effetti pratici il messaggio principale di Patterns of Culture è l’importanza fondamentale del comportamento appreso nell’esistenza umana. Sulla questione di quanto il comportamento umano sia stato influenzato o determinato dall’ambiente fisico, Benedict è altrettanto perentoria: “Al massimo ci possono essere suggerimenti e suggestioni che, in qualche modo possono indirizzare il modo di comportarsi, e anche di pensare successivo, ma si tratta di dati secondari.

In breve, Benedict approva e rende popolare ciò che Michel-Rolph Trouillot definisce il “nucleo concettuale boasiano” dell’antropologia statunitense. E proprio Boas aveva fatto sue queste elucubrazioni frequentando  per anni – e poi documentando – quelloche era a suo dire “The lifein paradise”, vista la tranquillità, l’equilibrio e la saggia filosofia che caratterizzava tanto gli Hidatsa che i Kwakiutl. Ulteriore conferma del fatto che  il comportamento umano è modellato secondo sistemi e “abitudini” ben definite. Esistono all’interno di popolazioni antropologicamente studiate, ricorrenze sia nel pensiero che nel comportamento che non sono affate “innate” ma strutturalmente condizionate e che sono, a loro volta, strutturanti. Questi modelli sono appresi. Le abitudini e le consuetudini non possono essere legate a un mondo naturale all’interno o all’esterno del corpo umano, ma piuttosto all’interazione costante all’interno di specifici nuclei di viventi. E qui i riferimenti alle mammane intrise di sciamanesimo, ai vari “medecine man” o, per altro verso, agli “uomini guerrieri” venerati e riveriti come lo stesso capo in forza del loro valore sociale. La strutturazione, tanto nelle realtà più elementari, quanto in quelle più complesse,  avviene attraverso la trasmissione sociale e la codifica simbolica con un certo grado di coscienza umana. O, per riprendere una recente analisi dell’antropologo Alfred Louis Kroeber, mentore di Franz Boas e contemporaneo di Ruth Benedict: “ occorre descrivere la cultura come realtà “superorganica”. Secondo questa idea, i “risultati di civiltà” di qualsiasi gruppo di persone non venivano trasmessi biologicamente e potevano solo essere insegnati / imparati . Se siamo privati ​​del nostro accesso ai libri, ai racconti, alle storie delle vicende  umane, alle guide (di qualsiasi genere), agli insegnanti, non sapremo come costruire edifici, scrivere poesie, comporre musica…vivere in un “modo educato”.  Con tutto il relativismo del termine “educazione” all’interno di un certo contesto. Sempre Ruth Benedict “ci implora di uscire dal prisma della cultura bianca e del pensiero parrocchiale”. Un invito diretto – quindi – al relativismo culturale e al “rispetto” dell’altro che parte dalla conoscenza di se stessi e dei propri ambiti di vita. E sul termne “parrocchiale” si è molto discusso ed ha contribuito a rendere affascinante la Benedict negli anni roventi della contestazione.

D’altronde anche lei dà credito a un modello che tende a considerare ogni gruppo separato come una specie di laboratorio: con la vasta rete di interazioni che hanno diffuso le grandi civiltà (di stampo euro-americano) su enormi aree, le culture primitive sono ora l’unica fonte alla quale possiamo rivolgerci per capire meglio chi siamo oggi e come lo siamo diventati.

Ecco perché ambiti di vita vera e reale come quelli dei territori di collina e montagna (estesissimi) del centro dell’ovest Canada, come pure le zone costiere non particolarmente abitate (anche queste su colline e montagne a picco sul Pacifico costellato di isole), costituiscono un laboratorio in cui possiamo studiare la diversità delle istituzioni umane nel loro evolversi e nelle modalità di relazione. E’ noto a tutti che con il loro isolamento, molte regioni primitive hanno avuto millenni di “tranquillità culturale” in cui elaborare caratteri e peculiarità specifiche.  Forniscono alla nostra indagine le informazioni riguardanti le motivazioni delle grandi variazioni nei “behaviour” umani, contestualmente ad un loro esame, essenziale per qualsiasi comprensione dei processi culturali. È l’unico laboratorio di forme sociali che abbiamo o avremo (si spera) a disposizione. Occasione di analisi su più livelli: quello realtà isolate molto conservative, quello degli indigeni perfettamente integrati e molto avanti nel processo di inclusione positiva, ma anche quello degli slums, dove gli stessi indigeni (oi loro discendenti) hanno perso qualsiasi tratto della cultura tradizionale, diventando però degli “apolidi sociali”. Benedict cerca di esaminarli tutti, cercando di metterne in evidenza punti di forza e debolezza.

Così facendo, però, l’antropologa si rese responsabile di una interpretazione “allargata” che portò qualche critico a vedere la sua opera come “accondiscendente verso  il colonialismo occidentale”  visto come catalizzatore di un processo ineluttabile che ha portato  “tutti i popoli erano stati forgiati attraverso l’interazione, il contatto e il commercio”. Comunque è grazie John Read, a Boas, alla Benedict, a Beattie e a molti altri che possiamo ancora entrare in contatto con una realtà “diversa”, ma vicina. Una realtà che possiamo anche”vivere” direttamente qui da noi.

Bolzano, 27 novembre – 8 dicembre 2018

Cause civili promosse dalle tribù native, scioperi della fame e raccolte di firme, nonché proteste di agricoltori e ambientalisti: contro la  costruzione di una nuova e ulteriore diga sul fiume Peace nel Nordest  della British Columbia si mobilita da anni un inedito spaccato di  società civile canadese, timido ma determinato e innovativo nelle  alleanze. Segnale di un risveglio della consapevolezza identitaria dei  First Nations, popoli indigeni stremati culturalmente da decenni di  rieducazione forzata nei collegi dove ai bambini andava estirpato il ricordo della lingua e le usanze native.

In quattro mesi in British Columbia, Canada occidentale, Paola Rosà e  Antonio Senter hanno raccolto decine di storie di resistenza che hanno per protagonisti i First Nations, i nativi canadesi. Contro lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, contro uno sviluppo  basato ancora sugli idrocarburi, contro la costruzione di oleodotti e  dighe, le tribù della Costa Pacifica si rialzano da decenni di  denigrazione e disprezzo cercando di proporre un modello alternativo di
sviluppo.

In tempi in cui gli effetti del cambiamento climatico sono una
drammatica realtà in tutto il mondo, le storie raccolte da Paola Rosà e  Antonio Senter testimoniano sì una rinascita dell’orgoglio indigeno ma  testimoniano anche la lotta concreta per la salvaguardia dell’ambiente e  dei suoi ecosistemi.

Una resistenza che lotta in tribunale e sul terreno, e che coinvolge gli  anziani delle tribù e i ragazzi, avvocati e attivisti, insegnanti e
pescatori, in una miriade di storie che per quattro mesi Paola Rosà e  Antonio Senter hanno raccolto e documentato viaggiando dalla valle del  Peace River alle coste del Pacifico, dal cantiere della mega diga che allagherà un’ottantina di chilometri di vallata all’isolotto dove si  riproducono milioni di salmoni, attraverso le montagne di Hazelton fino  ai totem di Alert Bay, dove le tribù della costa hanno trovato una nuova  alleanza contro una multinazionale norvegese autorizzata ad inquinare  l’Oceano Pacifico per allevare salmoni di razza atlantica.

Giovedì 29 novembre i filmmaker e documentaristi Paola Rosà e Antonio  Senter sono stati  a Bolzano su invito dell’Associazione per i Popoli  Minacciati, per raccontare le storie di resistenza dei Nativi canadesi,  il loro lungo viaggio attraverso il paese e la situazione in cui vivono  oggi gli esponenti delle First Nations.
Il tutto all’interno di una settimana intera dedicata a questa lontana ma affascinante regione che si protrarrà fino all’ 8 dicembre.

Vedi anche in gfbv.itwww.gfbv.it/2c-stampa/2013/131122it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2008/080613it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2006/060124ait.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2005/051021ait.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/water2017-it.html#r6 |
www.gfbv.it/3dossier/ind-nord/lubicon-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-nord/innu.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-nord/indian-mv-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-nord/indian-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/siberia/klima2006-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/siberia/artic2006-it.html
in www: https://rosasenter.weebly.com |
https://it.wikipedia.org/wiki/Prime_nazioni

— > Per i diritti umani. In tutto il mondo / Für Menschenrechte.
WeltweitDr. Mauro di Vieste
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Note e approfondimenti

  • (1) Biografia Franz BOAS

Boas nacque nel 1858 in Germania in una famiglia ebrea di idee liberali .

Questa condizione lo rese particolarmente sensibile alle tematiche del razzismo nonché oggetto di vessazioni di stampo antisemita da parte di alcuni colleghi di studio all’università. La sua preparazione accademica fu ricca e variegata: prima si dette alla fisica, poi alla matematica, infine alla geografia. Proprio quest’ultima lo condusse indirettamente agli studi antropologici: nel 1883 partì per una spedizione scientifica presso gli eschimesi della terra di Baffin con lo scopo di analizzare gli effetti dell’ambiente fisico sulla società locale. Boas fece ritorno in Germania con la ferma convinzione che fosse la cultura e non l’ambiente a determinare le dinamiche sociali del popolo eschimese, decidendo pertanto di dedicarsi all’antropologia.
Nel 1886 decise di compiere un altro viaggio nell’America Settentrionale, recandosi assieme al linguista inglese Horatio Hale nella Columbia Britannica, per compiere uno studio etnografico sui nativi della costa nord-occidentale. Nel corso di questi studi analizzò da vicino i kwakiutl, i chinook ed i tsimshian, mentre nel 1887 decise di stabilirsi negli Stati Uniti. Docente alla Columbia University per più di quarant’anni, a partire dal 1899, e curatore dell’American Museum of Natural History, Boas è stato il maestro di un’intera generazione di famosi antropologi della scuola culturalista, come Alfred Kroeber, Robert Lowie, Edward Sapir, Alexander Alexandrovich Goldenweiser, Melville Jean Herskovits, Ruth Benedict, Margaret Mead, solo per citarne alcuni.[1]
A Boas si deve il tentativo di dare all’antropologia americana basi teoriche più rigorose rispetto a quelle che, sino ad allora, avevano caratterizzato il lavoro della maggior parte degli antropologi evoluzionisti della generazione successiva a quella di Lewis Henry Morgan. Nonostante la sua avversione per una qualsiasi forma di esposizione sistematica del suo pensiero, è nei pochi lavori di carattere teorico – che costituiscono una parte minima della sua intera produzione – che si possono individuare i temi che, sviluppati dai suoi allievi, avrebbero poi delineato gli interessi e quindi le scelte dell’antropologia americana della prima metà del Novecento.[2]
Boas non si può definire propriamente un “diffusionista”, tuttavia è stato uno dei primi a contestare le semplificazioni che l’evoluzionismo aveva prodotto, dando troppa importanza allo sviluppo indipendente delle culture.[3] Utilizzando un approccio contestuale[4] Boas criticò gli iperdiffusionisti inglesi: da un lato egli rifiutava di ridurre una cultura a pochi tratti che possano essere compresi isolatamente; dall’altro lato “non considera[va] la storia su vasta scala, non indaga[va] le sequenze della storia della cultura nel loro complesso”;[5] egli, all’opposto, preferiva concentrarsi sugli scambi tra culture geograficamente contigue, come egli stesso ha fatto studiando sul campo i nativi della British Columbia o quelli della terra di Baffin.
Importante è il suo contributo allo sviluppo dell’etnologia, che diventerà una delle discipline delle scienze etnoantropologiche. Sebbene come Marcel Mauss non abbia mai esposto i principi cui si richiamava il suo pensiero, Boas si differenzia da quest’ultimo per la conoscenza empirica dell’oggetto di studio, caratteristica dovuta alla sua formazione scientifica e che prefigura quella che, più tardi con la scuola funzionalista, si chiamerà osservazione partecipante: ne è un esempio l’etnografia kwakiutl, che impegnò lo studioso per diversi decenni.[6]

Ricerche
Boas concepiva il lavoro sul campo come lo studio di singole culture o particolari aree culturali.

Evoluzionismo culturale
Boas era un giovane ricercatore di geografia quando entrò a far parte di una spedizione artica che lo condusse nella Terra di Baffin. Qui Boas scoprì che il gruppo eschimese degli Inuit possedeva una diversa serie di categorie cromatiche che influenzavano la loro percezione del colore dell’acqua del mare. Boas giunse alla conclusione che persino le nostre percezioni sensoriali possono venire influenzate da fattori culturali. Partendo da questa considerazione, egli iniziò una serie di studi sull’interazione tra fattori geografici e culturali e poco dopo abbandonò la nativa Germania per trasferirsi negli Stati Uniti e iniziare una serie di studi etnografici sulle popolazioni native nordamericane. Tali studi portarono Boas ad abbandonare l’assioma indistinto di cultura in favore dell’idea di una pluralità di culture influenzate – oltre che da fattori geografici – dai molteplici percorsi storici, dato che la Storia non segue un rigido schema evolutivo ma è costruita da un’infinita serie di percorsi. A queste conclusioni Boas arrivò attraverso lo studio sul campo, che da quel momento in avanti divenne il fondamento non solo metodologico ma anche teorico dell’antropologia, smantellando le tesi tyloriane. Attraverso un enorme lavoro di ricerca, Boas raccolse una quantità impressionante di dati e informazioni riguardo alla lingua, alle usanze, ai riti, alle strutture sociali delle diverse tribù di nativi d’America, dati che lo portarono a cogliere i particolari stili di vita che fanno di ogni cultura un’esperienza irripetibile altrove.

Particolarismo storico
Lo studio di Boas sui nativi nord-americani non fu il primo, poiché era già stato compiuto da altri antropologi, il cui approccio spesso non fu solo scientifico: ad esempio l’antropologo evoluzionista Lewis Henry Morgan, che studiò le tribù degli Irochesi, nel 1846 si schierò dalla loro parte nominandosi avvocato difensore in una causa giudiziaria intentata da un gruppo di speculatori bianchi che volevano prendersi le loro terre. Ad ogni modo, il contributo più importante di Boas fu l’introduzione dell’approccio detto particolarismo storico: esso è un procedimento induttivo fondato sull’osservazione empirica di un gruppo culturale ben localizzato e volto a metterne in luce le strutture sociali peculiari a partire dal suo specifico sviluppo storico. L’affermazione di Boas secondo cui la cultura non esiste, ma esistono invece diverse culture, trova il suo fondamento proprio nell’idea che ogni gruppo etnico sia diverso da un altro per il carattere irripetibile della sua storia. Ciò lo porta a ritenere impossibile l’esistenza di stadi di sviluppo comuni a tutta l’umanità. Un altro importante contributo di Boas all’antropologia è stato l’adozione del metodo idiografico contrapposto a quello nomotetico praticato dagli evoluzionisti e tendente a ricercare le leggi universali dell’agire umano. L’approccio idiografico deriva dallo storicismo tedesco e soprattutto dalle teorie di Wilhelm Dilthey: egli, in polemica col positivismo di Comte, esplicò per primo la distinzione tra scienze naturali e “scienze dello spirito” (oggi dette scienze storico-sociali o scienze umane), distinzione fondata sull’assoluta diversità del loro rispettivo oggetto di indagine: un oggetto assolutamente indipendente rispetto al soggetto nelle scienze naturali, dove il mondo naturale è altro dal soggetto che è l’uomo; un’identità tra oggetto e soggetto nelle scienze storico-sociali dove l’oggetto, cioè il mondo storico-sociale, è – come affermava già Vico – opera del soggetto, cioè dell’agire umano. Lo studio delle scienze naturali si basa sul metodo nomotetico, sulla spiegazione degli eventi in base a leggi universali; le scienze dello spirito si basano sul metodo idiografico che permette di comprendere i significati irripetibili di ogni evento storico. La differenza centrale tra le scienze umane e quelle naturali sta nel fatto che le prime sono volte allo studio di ciò che è singolare, individuale, mentre le seconde studiano l’universale.

La critica dell’evoluzionismo e il relativismo culturale
Nella sua opera Limiti del metodo comparativo in antropologia (1896), Boas smantella il paradigma dell’evoluzione unilineare proposta da Tylor. Boas ritiene che non sia assolutamente provata la tesi secondo cui ogni popolo, attualmente presente in uno stadio progredito della civiltà, sia passato attraverso una serie di stadi di sviluppo identici per tutti e che possono essere desunti dall’analisi di tutti i tipi di cultura esistenti al mondo. Boas afferma con convinzione che la sequenza dal semplice al complesso non è valida per tutti i fenomeni culturali: non lo è ad esempio per la lingua, o per l’arte, o per la religione. A dimostrazione di ciò, Boas fa riferimento ai numerosi studi da lui effettuati sui linguaggi dei nativi del Nord-America e nota come «molte lingue primitive sono complesse», perché le loro strutture grammaticali e le loro forme logiche sono molto più elaborate di quelle occidentali: «Le categorie grammaticali del latino, e ancor di più quelle dell’inglese moderno, appaiono rozze se paragonate con la complessità delle forme logiche che le lingue primitive conoscono». Riguardo alla tesi dell’unità psichica del genere umano, Boas la smonta attraverso la sua impostazione storicistica: la presenza di fenomeni simili in contesti culturali distanti può essere spiegata attraverso una connessione storica tra tali fenomeni. È probabile che questi fenomeni fossero acquisizioni culturali primitive risalenti a un periodo antecedente alla dispersione dell’umanità, o che si siano prodotte per contatti culturali diretti. Notando inoltre con che frequenza forme analoghe si sviluppino indipendentemente in piante e animali, Boas afferma che «non c’è nulla di improbabile nell’origine indipendente di idee simili tra i gruppi umani più differenti». Uno dei meriti principali di Boas è stato l’avere confutato il pregiudizio razzista. Nel suo La mente dell’uomo primitivo, Boas dimostrò come non vi sia alcuna influenza sulla cultura da parte dei caratteri biologici ed esplicò la sua tesi già presente in tutti i suoi studi secondo cui le differenze tra gruppi umani sono dovute solo alla cultura e ai diversi percorsi storici e non alla razza. Boas è stato anche il primo a introdurre il concetto di relativismo culturale che è del resto l’inevitabile approdo del particolarismo storico. Questa tesi si fonda sull’assunto secondo cui ogni cultura ha una sua unicità che la rende incomprensibile e impossibile da valutare a tutti coloro che non la studiano dal suo interno. Nato come correttivo dell’etnocentrismo (termine introdotto da William G. Sumner nel 1906), concetto che designa la tendenza a interpretare e giudicare le culture “altre” in base ai propri criteri, il relativismo culturale è poi divenuto per gli antropologi un ostacolo riguardo a questioni etiche ed epistemologiche che si verranno a presentare più avanti.

Il concetto di cultura
Ne La mente dell’uomo primitivo (1911), Boas elaborò una propria definizione di cultura. Essa è definita come «la totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui che compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente – in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso». La cultura, continua Boas, «comprende anche i prodotti di queste attività» e soprattutto «i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura». Riguardo a questa definizione, possono essere fatte alcune riflessioni. Innanzitutto, nonostante le sue varie critiche a Tylor, la sua definizione di cultura riprende da Tylor l’idea di totalità visto che anche per Boas la cultura è un insieme di elementi che non sono indipendenti ma che possiedono una struttura: ritorna quindi il concetto di insieme complesso. Diversamente da Tylor, tuttavia, Boas fa qui una distinzione tra due diversi aspetti della cultura: da una parte le reazioni e le attività comportamentali, dall’altra i prodotti di questa attività, cioè quella che potremmo definire la cultura materiale. Ciò che tuttavia spicca in questa definizione è la centralità riservata all’individuo: mentre nella definizione di Tylor l’individuo, inteso come “membro della società”, è un elemento passivo perché mero “portatore” della cultura, Boas assume l’individuo nella qualità di soggetto capace di “attività” e “reazioni”.

Lingua, cultura, individuo
Nel 1889 scrive Sull’alternanza dei suoni (“On Alternating Sounds”), articolo su American Anthropologist, che influenzò la metodologia sia della linguistica sia dell’antropologia culturale, riguardo alla percezione di suoni diversi. Boas inizia sollevando una questione empirica: quando le persone descrivono un suono in modi diversi, è perché non riescono a percepire la differenza, o potrebbe esserci un altro motivo? Egli stabilisce subito che egli non si occupa di casi di deficit percettivo – l’equivalente sonoro di daltonismo. Egli fa notare che la questione di persone che descrivono un suono in modi diversi è paragonabile a quella di persone che descrivono suoni differenti allo stesso modo. Questo è fondamentale per la ricerca in linguistica descrittiva: quando si studia una nuova lingua, come possiamo notare la pronuncia delle parole diverse? (in questo punto, Boas anticipa e pone le basi per la distinzione tra fonemi e fonetica). La gente può pronunciare una parola in una varietà di modi e ancora riconoscere che stanno usando la stessa parola. Il problema, allora, non è “che tali sensazioni non sono riconosciute nella loro individualità” (in altre parole, la gente riconosce le differenze di pronuncia), ma piuttosto, è che i suoni “sono classificati in base alla loro somiglianza” (in altre parole, che le persone classificano una varietà di suoni percepiti in un’unica categoria). Boas applicò questi principi per i suoi studi di lingue lingua inuit. I ricercatori hanno riportato una varietà di pronunce per una parola data. In passato, i ricercatori hanno interpretato questi dati in un certo numero di modi – potrebbe indicare variazioni locali nella pronuncia di una parola, o potrebbe indicare dialetti diversi. Boas sostiene una spiegazione alternativa: che la differenza non è nel modo in cui gli Inuit pronunciano la parola, ma piuttosto nel modo in cui gli studiosi di lingua inglese percepiscono la pronuncia della parola. Non è che gli anglofoni sono fisicamente incapaci di percepire il suono in questione, ma piuttosto che il sistema fonetico della lingua inglese non può accogliere la sensazione sonora percepita.
Nel suo fondamentale Handbook of American Indian Languages (1911) in quattro volumi, Boas fornì una documentazione unica sulla grammatica delle lingue dei nativi nord-americani, molte delle quali oggi scomparse. La sua introduzione a quest’opera è stata considerata da molti esperti come uno dei testi più importanti della linguistica descrittiva e antropologica. Boas ritiene che vi sia un collegamento tra lingua e cultura, ed anzi la conoscenza della lingua viene ritenuta indispensabile per la conoscenza di una cultura. Queste riflessioni derivano dalla stessa personale esperienza di Boas. Egli studiò numerose questioni, quali il legame tra lingua e razza, l’influenza dell’ambiente sulla lingua, i rapporti tra linguaggio e pensiero. Nella sua più tarda opera General Anthropology (1938), egli sosterrà la tesi secondo cui le categorie grammaticali di una lingua impongono a chi le usa delle scelte obbligate allo stesso modo in cui i soggetti sociali sono condizionati dalle regole della propria cultura. Boas non approfondì sistematicamente questo rapporto tra lingua e cultura, che fu invece ripreso da uno dei suoi allievi, Edward Sapir che, insieme al linguista Benjamin Lee Whorf, è rimasto noto per la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf.

L’analisi del potlach
In L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl (1897) studiò la cerimonia del potlach, che si svolge tra alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico degli Stati Uniti e del Canada, come i Kwakiutl (Kwakwaka’wakw) della Columbia Britannica. Il potlatch assume la forma di una cerimonia rituale, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati “di prestigio”. Attraverso il potlatch individui dello stesso statussociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso lo abbiano perso.[7]

Note
^Robert Deliège, Storia dell’antropologia, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 81.
^Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991, I ed., p. 51.
^Deliège, ibidem.
^mostrando cioè che un costume ha un senso solo se ricondotto al contesto particolare nel quale si inscrive. In questo anticipa la scuola funzionalista.
^Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991, p. 53. ISBN 88-08-12202-6.

Bibliografia
Boas, Franz, Introduzione alle lingue indiane d’America, a cura di Giorgio R. Cardona, Universale Scientifica Boringhieri 180, 1979. Si tratta dell’introduzione a Handbook of American Indian Languages, Smithsonian Institution, 1911, tradotta da Giorgio R. Cardona. Introduzione e commento del curatore.
Boas, Franz, Arte primitiva, a cura di Giorgio R. Cardona e Barbara Fiore, Universale Scientifica Boringhieri 222/223, 1981.
Boas, Franz, L’uomo primitivo, a cura di M.J. Herskovits, Roma-Bari, Laterza 1995, ISBN 88-420-4712-0.
Boaz, Franz, Anthropology and Modern Life, a cura di H.S. Lewis, Transaction Publishers, London-New Brunswick 2004.
Boas, Franz, L’antropologia(lecture tenuta alla Columbia University nel 1907), a cura di Giuseppe Russo, Kainós Edizioni, 2014, ISBN 978-88-91148-00-1.
Denys Cuche, La nozione di cultura nelle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2003, ISBN88-15-09358-3.
Deliège, Robert, Storia dell’antropologia, Bologna, Il Mulino, 2008. ISBN 978-88-15-12660-3.
Fabietti, Ugo, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991 [seconda ediz., 2001].

(2) Biografia Ruth Benedict
Studiò presso il Vassar College. Nel 1914 sposò Stanley Benedict che morì nel 1936. Nel 1921 venne ammessa alla Columbia Universitydove studiò antropologia con Franz Boas e dove si laureò nel 1923 ottenendo in seguito una cattedra.
Per lungo tempo fu sua assistente Margaret Mead con la quale fece diversi viaggi di studi e sviluppò un legame accademico e di amicizia molto stretto. Nei movimenti studenteschi degli anni sessanta i risultati degli studi effettuati dalla Benedict e dalla Mead furono utilizzati – e a volte interpretati secondo tendenza – per mettere in discussione le strutture e tradizioni patriarcali.

Ruth Benedict fu una delle prime donne a occuparsi di antropologia ed ebbe difficoltà a farsi accettare dall’establishment accademico, tanto che diversi suoi scritti non furono mai pubblicati.
Scrisse e pubblicò anche poesie usando lo pseudonimo di Anne Singleton.

Opere
Sono celebri i suoi studi sulle popolazioni native del Nord-America, gli Zuñi, i Serrano, i Cochiti, i Pima e gli Hopi nell’area sudoccidentale degli USA.
Nella sua opera più celebre, Modelli di cultura (1934), la Benedict ha messo a confronto tre civiltà primitive: i Pueblos del Nuovo Messico, i Dobu della Nuova Guinea e gli Indiani della costa nord-occidentale d’America (principalmente i Kwakiutl). Influenzata forse dalla sua formazione letteraria, secondo cui le culture – come le poesie – vanno viste nella loro interezza, comprendendone le “forze dominanti”, la Benedict ha rintracciato in ognuna di queste culture una categoria derivata dalla psicopatologia (paranoici, megalomani, introversi) applicandovi inoltre la distinzione di Nietzsche tra cultura apollinea e dionisiaca. La cultura in questo senso sarebbe quindi una sorta di personalità su vasta scala comune a tutti gli individui facenti parte di un determinato gruppo sociale. Il concetto di “modello di cultura” sta dunque a indicare l’insieme dei tratti e delle peculiarità che caratterizzano una determinata cultura, sancendone l’individualità rispetto a ogni altra. I tratti di per sé possono far parte di più culture, ma è la particolare configurazione di questi tratti a rendere unica ogni cultura. Le culture sarebbero come dei “complessi integrati”, cioè insiemi coerenti di pensieri e di azioni caratterizzati da certi scopi caratteristici che sono propri e non condivisi da nessun altro tipo di società.
Nel 1944 la Benedict utilizzò questo approccio nel suo studio sugli immigrati giapponesi che vivevano negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, commissionato dal Servizio Informazioni Militari interessato a saperne di più sulla mentalità del nemico che stavano combattendo. L’alterità estrema che il Giappone ha sempre costituito agli occhi dell’Occidente fu in parte attenuata dalle ricerche della Benedict, che studiò appunto i modelli culturali che regolano l’esistenza dei giapponesi. Risultato di questo lavoro fu la sua celebre opera, Il crisantemo e la spada (1946), nella quale utilizzò per prima la categoria sociologica di “cultura della vergogna” (shame culture), contrapposta a cultura della colpa(guilt culture).

Opere
Modelli di cultura, Milano, 1960.
Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Dedalo, Bari, 1968; poi Laterza, Roma-Bari 2009.
The Concept of the Guardian Spirit in North America, 1923.
Race – Science and Politics, New York, 1940.
Bibliografia
Margaret Mead , An Anthropologist at Work. Writings of Ruth Benedict(Boston: 1959)
Judith Modell Schachter, Ruth Benedict – Patterns of a Life(Philadelphia: 1983)
Margaret M. Caffrey, Ruth Benedict – Stranger in This Land. (Austin: 1989)

(3) Michel-Rolph Trouillot (November 26, 1949 – July 5, 2012;[1][2] PhD, Johns Hopkins 1985) was a Haitian academic and anthropologist. He was Professor of Anthropology and of Social Sciences at the University of Chicago.[3][4]

Biography
Rolph (as he was known conversationally) was the son of Ernest Trouillot and Anne-Marie Morisset, both black intellectuals from Port-au-Prince. His father was a lawyer and his uncle, Hénock Trouillot was a professor who worked in the National Archives of Haiti. Hénock was an influential noiriste historian. He attended the Petit Séminaire Collège Saint-Martial, moving on to the École Normale Supérieure. However, faced with repression from the Duvalier regime in 1968, Trouillot joined a mass exodus of students who found refuge in New York City.
In 2011 Trouillot was awarded the Frantz Fanon Lifetime Achievement Award, which is given annually by the Caribbean Philosophical Association in recognition of work of special interest to Caribbean thought.
In 1977, he published his first book Ti dife boule sou Istwa Ayiti on the origins of the Haitian slave revolution while completing his undergraduate degree at the City University of New York. It has been described as “the first book-length monograph written in Haitian Creole.”[5] In July 2012, Université Caraïbe Press reprinted this masterful work. He rewrote the book as a separate publication in French and again in English as Haiti: State Against Nation. Trouillot’s lifetime of work presented a vision for anthropology and the social sciences, informed by historical depth and empirical examination of Caribbean societies.[6]
Trouillot died on July 5, 2012.[7] The Haitian Studies Association named an annual prize for him at the 2012 meetings, the Michel-Rolph Trouillot fund, which provides financial support for Haiti-based scholars “who might not be able to attend the conference without financial assistance” [8].
Selected works
1977 Ti difé boulé sou Istoua Ayiti.New York: Koléksion Lakansièl.
1988 Peasants and Capital: Dominica in the World Economy.Johns Hopkins University Press.
1990 Haiti: State against Nation. The Origins and Legacy of Duvalierism.Monthly Review Press.
1995 Silencing the Past: Power and the Production of History.Beacon Press.
2003 Global Transformations: Anthropology and the Modern World. Palgrave

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