Gino Strada ci ha lasciato. Ci mancherà la sua percezione di presente e futuro

Ho conosciuto due volte nella mia vita Gino Strada. La prima, in concomitanza di una sua presenza in città (Alessandria), se non ricordo male, nel 2011, la seconda presso l’anticamera dell’allora sottosegretario agli Affari Esteri on. Giro (2017). In entrambi i casi ne ho ricavato un’impressione non solo positiva ma “drammaticamente” reale, di una persona che continuava (continua) a vedere intorno a se’ il ripetersi degli stessi errori, senza particolari vie di uscita. Di qui il termine “drammaticamente”. Una frase soprattutto mi colpì, in attesa di un incontro del tutto formale con l’on. Giro (si trattava di avere un minimo di copertura possibile per un viaggio  “impegnativo” in Iraq e  in Siria). “Hai ragione” mi disse, “non se ne esce se non si ritorna alle origini“, “se non si capisce che i problemi sono alla fonte…dove continuiamo come europei, americani, russi, cinesi, a fare quel che abbiamo sempre fatto da quattrocento anni. Ingannare le popolazioni locali, comprarle, snaturarle e portar via loro il più possibile“. Ma, aggiunse (già nel 2017) “ora è la Terra a dirci basta, l’insieme dell’ecosistema ne ha semplicemente le p…le piene” (testuale). Da allora n0n ci rivedemmo più e, quindi, con molto disappunto – insieme alla redazione –  devo lamentare la sua dipartita. Certo…ha lasciato molto ma…purtroppo non c’è più lui.   Ancora sulla “Stampa” di oggi si era espresso da par suo e questo, ci pare, il miglior modo per ricordarlo per sempre. Ma, appunto, non possiamo far altro che ricordarlo e questo non va bene.   Comunque, ciao caro Gino, assolutamente non di rito.   (plcavalchini e tutta la Redazione di CF). 

Gino Strada: “Così ho visto morire Kabul” .   “La Stampa”.   13 agosto 2021

Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico. È difficile ignorare la notizia diffusa ieri: i talebani hanno conquistato anche Lashkar Gah e avanzano molto velocemente, le ambasciate evacuano il loro personale, si teme per l’aeroporto. Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino – meglio: che siano sempre mancate – entrambe. La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali.

Il Consiglio di Sicurezza – unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza – era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato: gli Usa procedettero con una iniziativa militare autonoma (e quindi nella totale illegalità internazionale) perché la decisione di attaccare militarmente e di occupare l’Afghanistan era stata presa nell’autunno del 2000 già dall’Amministrazione Clinton, come si leggeva all’epoca sui giornali pakistani e come suggerisce la tempistica dell’intervento. Il 7 ottobre 2001 l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei.

Ufficialmente l’Afghanistan veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla “guerra santa” anti-Usa di Osama bin Laden. Così la “guerra al terrorismo” diventò di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996, dopo che per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994.

Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. Invito qualche volonteroso a fare questa ricerca sui giornali di allora perché sarebbe educativo per tutti. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Nei mesi e negli anni successivi le informazioni sulle vittime sono diventate più incerte: secondo Costs of War della Brown University, circa 241 mila persone sono state vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Solo nell’ultimo decennio, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato almeno 28.866 bambini morti o feriti. E sono numeri certamente sottostimati.

Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme.

Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency – pieni di feriti – continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”.

Più chiaro di così….

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