Giobbe. Il valore dell’esperienza

Nel 1952 uscì, edito da Rascher a Zurigo, uno tra i più significativi testi di Jung, dove affrontò il tema religioso in modo assolutamente soggettivo e, proprio per questo, di grande interesse per chi – come me – dà grande valore all’esperienza, propria e altrui.

Sto parlando di “Risposta a Giobbe “, non un libro scientifico ma, come scrive lo stesso Jung nella prefazione : “un confronto personale con le concezioni del cristianesimo tradizionale, conseguenti allo scandalo sollevato dal nuovo dogma mariano”. ( Nel 1950  infatti il Papa prese la grave decisione della declaratio solemnis del nuovo dogma dell’Assunzione dove, grazie a un robusto movimento popolare,  Maria venne assunta in cielo, “fidanzata celeste” di Dio) .

“Sono considerazioni – continua Jung – di un medico e di un profano in teologia, che, avendo dovuto rispondere a molte domande in materia religiosa, si è visto costretto a riproporsi il significato delle idee religiose, dal suo particolare punto di vista extraconfessionale “.

La Religione non è monopolio delle religioni, scriverà molti anni dopo Raimon Panikkar, considerazione che ho trovato rispondente al mio profondo sentire, che già nelle parole di Jung

aveva trovato una confortante risonanza. ( Anche se uno scrive Religione con la R maiuscola e l’altro con la r minuscola – particolare su cui ancora mi interrogo).

Jung considera la religione matrice unitaria di una pluralità di contesti fenomenici, non una produzione psichica derivante, come invece indicava Freud, dalla rimozione di istanze sessuali ed erotiche, ma uno specifico dinamismo tendente sia all’introspezione, sia all’espressione di bisogni e desideri inerenti alla spiritualità.

Potrei dire che sia in Jung che in Panikkar c’è un riconoscimento della peculiarità della dimensione religiosa in ogni essere umano e anche un atteggiamento prudente e rispettoso del sacro e del profano, dell’immanente e del trascendente, seppure, a mio sentire, e giustamente vista la peculiarità di ognuno di noi, differente ( la R/r ne una prova ?).

Sin da bambina mi sono interrogata su questa “religiosità”, allevata con me dalla vita di chi avevo vicino, una domanda che non mi ha mai abbandonata, pur se allora – e per molto tempo – costretta in una mortificante dialettica, credere o non credere, Dio o non Dio, inferno o paradiso, angelo o diavolo, un dualismo alla mezzogiorno di fuoco dove nessuno aveva mai, né la confortante faccia di Gary Cooper, né la sua pistola.

Insomma, così come Giobbe è un polo inalienabile di Yahwèh che, stimolato al dubbio da Satana, viene aggredito e quasi annientato, anche in me resistere era tutto.

Non c’è verso: nell’ente è insito il conflitto.

Ma via via che “la Scrittura cresceva con me “ andavo comprendendo che, come l’essere umano continuamente muta, anche Dio, simbolo interagente con la polarità umana nella psiche inconscia collettiva e nella mente di ogni individuo, muta.

Una successione ( meglio ancora una processione ) filogenetica della psiche religiosa, che Jung gradualmente delinea: Adamo, Caino e Abele, Sophia, Giobbe, Cristo, Maria Vergine.

Una continua trasformazione dove il nuovo Adamo, Cristo è un emblema di maturità e autolimitazione, trasformatore di sé sino al sacrificio.

Non si po’ certo pretendere che un Dio arcaico possa soddisfare le esigenze dell’etica d’oggi.

La Risposta a Giobbe, scrive ancora Jung è  “l’interrogante voce del singolo che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori”. E direi anche la pensosità non solo dell’altra parte di sé, ma anche quella delle sue molte legioni.  Quanti Giobbe – con istanze differenti – ci sono in noi?

Forse è per questo pluralismo che vivo, che amo riportare gli dei sull’Olimpo, onorandoli. E non solo gli dei greci, oggi occorre onorare anche quelli delle altre culture, portatori d’istanze ancora inconsce e necessarie.

Le verità spirituali non si prestano ad essere dimostrate sul piano fisico, ed è a questo genere di cose che appartengono le affermazioni di carattere religioso.  Ma la realtà di uno spirito è l’esperienza di un significato, che ha già in sé la sua esistenza, certo non dimostrabile e il più delle volte nemmeno dicibile.

C’è una inter-in-dipendenza tra percezione fisica ed esperienza spirituale che indica il fattore autonomo dell’anima; è lei che ci permette di riconoscere questi processi inconsci e trascendenti, sono le sue immagini che alludono all’ineffabile.

Hermann Hesse, nel suo Siddhartha, bene illumina i molti volti dello stesso volto, l’eterno fluire del volto di Dio che continuamente muta in infinite forme differenti.

“Conosci l’anima che fa sì che tu conosca” – scriveva già Tertulliano in  De testimonio animae – pensa che essa è vincitrice nei presentimenti, profetica nei presagi, preveggente nei pronostici. Che meraviglia che lei, data da Dio, sappia divinare all’uomo. E ancor maggiore meraviglia se riconosce colui dal quale è stata data “.

E perchè non pensare – come scrive Jung, che sa di correre il rischio di rendersi sospetto di psicologismo – che tutte le affermazioni delle Sacre Scritture siano espressioni dell’anima ?

Mentre le affermazioni della coscienza possono essere inganni e voce di fantasmi, le affermazioni dell’anima indirizzano sempre a realtà trascendenti la coscienza.

Quando allora parliamo con Dio e quando con i nostri fantasmi?

Le immagini alludono e sono differenti dal loro soggetto trascendente.

E’ qui che la mia soggettività emotiva può esporsi, devo lasciarle la parola lasciando risuonare in me quello che evoca. Davanti a fattori numinosi la ragione non basta, ci vuole l’intelletto d’amore.

Credo sia questo che ci dice Panikkar parlando del suo scrivere, che “sente” ispirato, senza per questo pretendere d’essere ispirato.

Ci muoviamo su sabbie mobili, ma che meraviglia!

Sincerità, fiducia, esperienza, rischio, sono miei compagni.

A domanda si apre altra domanda, un bel panorama lascia posto a un precipizio, inaspettato e misterioso è il viaggio.

L’uomo è un essere religioso per natura, dice l’esperienza di Panikkar, Jung conforta questo sentire ribadendo il fondamento religioso della psiche, Hesse lo testimonia con la sua vita e la sua scrittura.

Ecco perchè – a parer mio – dobbiamo liberare in noi questa dimensione costitutiva; dobbiamo abbandonare giudizi e pregiudizi che ci portiamo addosso e che inevitabilmente ci impediscono l’esperienza del Mistero. Non si tratta di credere o non credere, non si tratta di scontrarci per difendere una verità che vive invece di relazione, non si tratta di “capire “, si tratta di abbandonarci all’esperienza fiduciosa dell’anima, lasciarci muovere dal vento dello spirito e sconfinare nel non dicibile della nostra personale esperienza.

Mistica significa stare zitti. E in silenzio ascoltare. Il suo tempo è l’imperfetto. L’orecchio l’organo della sua fede. Fede che non ha oggetto, che è apertura al dinamismo del non ancora creato.

Carl Gustav Jung – Risposta a Giobbe – Bollati Boringhieri

Raimon Panikkar  – Vita e Parola – Jaca Book

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