Homo Sapiens? Benvenuto nell’Antropocene!

“A chi pensa che morirà prima del punto di non ritorno e ritiene di non doversi preoccupare per le generazioni future, non ho niente da dire. E’ gente che ha dichiarato guerra all’umanità. Ignoreranno il benessere della gente del futuro così come ignorano le sofferenze di tanta gente di oggi”.

James R. Flynn, Senza alibi. Il cambiamento climatico: impedire la catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino 2015

Il 28 febbraio scorso è stato pubblicato il sesto Rapporto dell’Intergovernmental Pannel on Climate Change (IPCC), definito dal suo presidente Hoesung Lee “un terribile avvertimento sulle conseguenze dell’inazione”, dal momento che “il cambiamento climatico è una minaccia grave e crescente per il nostro benessere e per un pianeta sano. Le nostre azioni di oggi determinano il modo in cui le persone si adattano e la natura risponde ai crescenti rischi connessi ai cambiamenti climatici”. Vale la pena di approfondire le origini di questo Panel, nonché il contenuto della sintesi per i decisori politici (Summary for Policymakers) approvata al termine di una sessione di lavoro che si è tenuta per due settimane a partire dal 14 febbraio. Il tutto, alla luce di un recentissimo libro su Antropocene e le sfide del XXI secolo, nel quale vengono evidenziati i limiti di un processo di sviluppo “che ha indubbiamente migliorato il nostro tenore di vita”, ma che si è rivelato “la causa di gravi danni ambientali che ora sono sotto gli occhi di (quasi) tutti”, essendo incentrato su “una concezione di progresso basata su risorse illimitate e sugli apporti di scienze e tecnologie”.[1]

Già da qualche tempo i risultati degli studi sui mutamenti climatici avevano messo in evidenza come, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’uomo, che ha sempre subito gli effetti del clima, con le sue attività stia influendo su di esso con effetti che potrebbero rivelarsi catastrofici.[2]

L’attenzione per i possibili effetti dell’antropizzazione sui mutamenti climatici è tuttavia successiva alla divulgazione dei primi Rapporti dell’IPCC sullo stato delle ricerche climatiche nel mondo. Creato nel 1988 dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale e dal Programma ambientale delle Nazioni Unite, l’IPCC non è un centro di ricerche, ma ha il compito di raccogliere e valutare le ricerche condotte dai vari centri di ricerca nel mondo. Al processo di elaborazione di ciascun Rapporto partecipano circa 2.500 scienziati da tutto il mondo e una sintesi dei risultati viene sottoposta ai decisori politici.

Può essere interessante passare brevemente in rassegna quanto emerge dai più recenti Rapporti dell’IPCC. Nel quinto Rapporto, presentato a Stoccolma nel settembre del 2013, erano emerse le seguenti indicazioni: 1) è aumentato il riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani; 2) è in forte aumento la concentrazione in atmosfera di CO2; 3) è in atto lo scioglimento dei ghiacci con il conseguente innalzamento del livello del mare. Nello stesso tempo veniva evidenziato come, tra il 2000 e il 2010 il contributo della crescita demografica ai cambiamenti antropici a livello globale sia rimasto praticamente lo stesso dei 30 anni precedenti, mentre quello imputabile allo sviluppo economico è aumentato rapidamente. Si sottolineava inoltre che la crescita economica e quella demografica sono stati i due vettori più importanti dell’aumento delle emissioni di CO2 imputabili al consumo dei combustibili fossili.

Il Rapporto speciale dell’IPCC del 2018 indicava, poi, una sorta di percorso in cinque tappe al fine di evitare il superamento di 1,5°C rispetto al periodo preindustriale entro il 2030: 1) ridurre le emissioni globali di CO2; 2) produrre l’85% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2050; 3) portare il consumo di carbone a zero il prima possibile; 4) allocare almeno 7 milioni di chilometri quadrati (l’equivalente della superficie dell’Australia) alle coltivazioni di biocarburanti; 5) raggiungere l’equilibrio a emissioni zero entro il 2050.

Dal sesto Rapporto speciale dell’IPCC emerge, infine, la conferma che le attività umane sono alla base delle cause dei cambiamenti climatici e che questi ultimi stiano già interessando tutte le regioni del pianeta. In esso si sottolinea inoltre come alcuni dei cambiamenti a cui stiamo assistendo, quali l’innalzamento della temperatura del mare, lo scioglimento del ghiaccio terrestre (con il conseguente innalzamento del livello del mare), l’acidificazione e la deossigenazione, siano irreversibili.

Sempre in questo Rapporto si sostiene poi che, al fine di contenere l’innalzamento della temperatura del pianeta entro 1,5°C rispetto al periodo preindustriale, sia necessario ridurre drasticamente e rapidamente le emissioni di CO2, del metano e degli altri gas serra. Si evidenzia, infine, l’esistenza di una correlazione tra i fattori legati all’inquinamento atmosferico e le cause dei cambiamenti climatici, una correlazione comprovata dal fatto che durante i lockdown dovuti alla pandemia da COVID-19, estesi in tutto il mondo, si sia registrato un seppur temporaneo, miglioramento della qualità dell’aria in tutto il pianeta.

A questo punto, la domanda che sorge spontanea, ma alla quale è difficile fornire una risposta adeguata, è sul perché non si percepiscano (sia a livello politico che individuale) i rischi connessi al riscaldamento globale, salvo forse il fatto, al centro dell’attenzione di un interessante servizio apparso sulla rivista le Scienze del 2015[3], che si percepiscono maggiormente (e quindi si temono) gli eventi prossimi rispetto a quelli più lontani. Sulla percezione del rischio sulle conseguenze del riscaldamento globale e dei mutamenti climatici, c’è una sensibilità minore rispetto ai pericoli considerati più vicini, come il terrorismo internazionale, la diffusione del virus dell’ebola e quello più recente della pandemia da COVID-19. Ma l’aspetto a mio avviso più significativo, sottolineato in quel servizio, è che gli interessi economici e politici, dotati di grandi risorse finanziarie, nonché dell’accesso ai mezzi di comunicazione, contribuiscono a limitare la percezione del rischio più importante: quello dell’estinzione della specie umana.

Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato sì, ci ha donato questo pensiero importante in questi giorni pasquali: “Quando siamo capaci di superare l’individualismo, si può effettivamente produrre uno stile di vita alternativo e diventa possibile un cambiamento rilevante nella società” (p. 156-157). Ora, è assai raro il caso in cui la scienza e la religione si esprimano all’unisono, ma quando parole pronunciate da fonti storicamente così lontane ci rammentano che “le conseguenze dei cambiamenti climatici potrebbero portare alla povertà 100 milioni di persone nel mondo entro il 2030”, alla sparizione di porzioni di pianeta “abitabili”, vuoi per desertificazioni, vuoi per
sommersione da parte di acque marine, forse sarebbe il caso di prestarvi attenzione.

A conclusione di questa riflessione, e con lo sguardo rivolto alla guerra in atto in Ucraina, vorrei rammentare l’ammonimento dell’economista statunitense William D. Nodhaus, il primo economista a teorizzare e realizzare un modello integrato per valutare gli impatti del cambiamento climatico sull’economia, che gli è valso il Premio Nobel nel 2018, in un saggio di 29 anni fa: «La reazione di Einstein alla teoria quantistica fu che “Dio non gioca a dadi con l’universo”. Per contro l’umanità sta giocando a dadi con l’ambiente naturale attraverso una moltitudine di interventi, come l’immissione nell’atmosfera di gas ad effetto serra, di sostanze chimiche nocive per l’ozono, con un uso massiccio del suolo e la deforestazione che mettono a rischio la sopravvivenza nel loro habitat di numerose specie, con la creazione transgenica in laboratorio e, infine, con l’accumulazione di armi nucleari sufficienti a distruggere la civiltà umana» [nostra libera traduzione].[4] Homo Sapiens? Benvenuto nell’Antropocene!

Bruno Soro

Alessandria 15 aprile 2022

  1. A.F. De Toni, G. Marzano, A. Vianello, Antropocene e le sfide del XXI secolo. Per una società solidale e sostenibile. Meltemi, Milano 2022, p. 124.
  2. D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, (con prefazione di Aurelio Peccei), I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group, Massachussets Institute of Technology (MIT), per il Progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Mondadori, Milano 1972.
  3. “L’invasore finale”, le Scienze, edizione italiana di Scientific American, ottobre 2015.
  4. W.D. Nordhaus, “Riflessioni sull’economia del cambiamento climatico”, Journal of Economic Perspectives, Vol. 7 (4) 1993, p. 11.

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