I voti e il partito

Dai risultati abruzzesi, il centrosinistra può trarre due lezioni. Una riguarda i voti, l’altra il Pd. Dato che la prima è più propizia, scommettiamo che si fermeranno là.

Rapportato alle politiche – si sa che ogni partito sceglie il raffronto che gli conviene – il 31 percento raggiunto dalla coalizione guidata da Legnini può essere considerato incoraggiante. Tutti i sondaggi nazionali accreditano il Pd più la sua microgalassia al di sotto del 20%. Prenderne dieci in più, anche se alle regionali, è comunque una boccata di ossigeno. Aggiungi che la strategia di Legnini somiglia molto a quella di Zingaretti, massima inclusività e leadership dal volto amico, e al Nazareno rispunterà qualche sorriso a mezza bocca. Però, senza esagerare.

L’interrogativo centrale, a sinistra, rimane quello di chi – e come – comanda. Questo è il nodo storico su cui si è infranto il tentativo di rinnovamento di Renzi, l’unico che ci abbia provato seriamente. E, all’inizio, perfino riuscito. Poi sono intervenuti alcuni errori – micidiali – di strategia e personalità. Ma il nodo rimane lì, irrisolto. Con in più – in peggio – l’equivoco che il collasso ci sia stato per colpa delle ambizioni decisioniste di Renzi. Invece, quelle erano obbligate. Sbagliato è stato il modo di applicarle. Nella melassa informe cui è ridotta la nostra società social, nessun partito riesce a sopravvivere senza un timone centralizzato. La conferma l’abbiamo avuta con Salvini, capo indiscusso e protervo della Lega. E, ancor più, con Di Maio, che resta alla guida dei Cinquestelle pur non avendo carisma e non essendosi guadagnato sul campo – come Salvini – le stellette. La ragione? I grillini – cosiddetti incolti – hanno ben chiaro che se lo fanno fuori segano il ramo su cui stanno accomodati. Un concetto che alla coltissima elite ex-comunista ed ex-democristiana continua a risultare aberrante. E infatti sono precipitati dal ramo.

Immaginate, per pura fantasia, che il risultato abruzzese si potesse – tra quattro anni o giù di lì – replicare sul piano nazionale. O addirittura migliorare. Di listone in listone – la specialità di Calenda e vari altri illuminati utopisti delle urne – facciamo finta che il centrosinistra diventi la coalizione vincente. Un attimo dopo, che succede? Detta fuori dai denti: chi decide? Dopo il voto di marzo, per tre mesi, per la formazione del governo abbiamo assistito ad un teatrino senza precedenti perfino nella peggiore Prima Repubblica. Voltafaccia, finti tradimenti, tentativi di adescamenti, posizioni para-programmatiche che si capovolgevano nel giro di poche ore e senza batter ciglio, ministri convocati e silurati a mezzo tweet. Ma durante tutta questa babilonia, nessuno – nei due partiti vincitori – si è sognato di mettere in dubbio la leadership di Salvini e Di Maio. Si, lo so, state provando a immaginare cosa sarebbe successo nel Pd. E non sapete se piangere o se ridere. Ecco, il problema sta tutto qui. Anche se, per un miracolo insperato, tornassero ad affluire i consensi, il Pd li dilapiderebbe a piene mani. Anzi, a mani bucate.

Ovviamente, si può sempre sperare che forti – si fa per dire – dell’esperienza drammatica che si sono fatti a proprie spese, i democratici riescano a capire che è il momento di voltare pagina. Non nei programmi, sui quali si fa presto ad accordarsi. Tanto poi, se mai si arriva al governo, diventeranno comunque un’altra storia. Ma nell’organizzazione. Vale a dire nei canali – e negli uomini – con cui si intende gestire il potere. Fin dalle origini, più di due secoli fa, i partiti – all’osso – sono questo. Una macchina – legittimata dal voto – per prendere decisioni che riguardano la distribuzione del potere. In questo – pur tra mille mutamenti economici, sociali, valoriali – non sono cambiati di una virgola. L’unica novità importante riguarda il ruolo del capo, diventato oggi più che mai indispensabile. Ma un capo è tale solo se dispone di una macchina disposta a ubbidirgli. E se il Pd non rinnova la sua – ridotta ormai a poco più di un ferro vecchio – chiunque vincerà le primarie resterà con le ruote a terra.

(“Il Mattino”, 12 febbraio 2019)

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*