III) Problemi storici della Sinistra nel tempo della vittoria della Destra (Riflessioni politologiche e annotazioni personali)

Realizzare la convivenza pacifica delle anime nel Partito Democratico, o eventualmente in altro partito della sinistra, è molto difficile perché abbiamo pure sistemi elettorali confusi, che favoriscono la frantumazione degli stessi partiti.

Non fu sempre così. Ad esempio in Italia sino al 1918, pur nelle ristrettezze del suffragio, c’era stato un sistema basato tutto, alla Camera (allora il Senato era di nomina regia) sull’uninominale pura, ossia su collegi in cui chi vince prende tutto (winner takes all, come dicono in Inghilterra e America). Se lì mettevi in lista uno che non avesse né arte né parte, perdevi il collegio. Tardivamente, a quarantasette anni dai lavori culminati nella Costituzione, avevamo varato, nel 1994, il Mattarellum, che era maggioritario per tre quarti. Era già qualcosa, nonostante le contraddizioni. Sono seguiti tanti stravolgimenti invece che miglioramenti.

Ma basterebbe reintrodurre il maggioritario con vincolo, come proponeva Pasquino, che il candidato sia un residente in un Comune del collegio da almeno cinque anni.

Il meglio, però, sarebbe un maggioritario di collegio a due turni, in cui ogni partito o gruppo si presenti al primo, ma restino in campo, se nessuno prenda almeno il 50% più uno al primo, i due più votati, che non potrebbero essere dei Signori Nessuno. Vale dal 1994 per ogni sindaco (e va bene), ma potrebbe valere per ogni parlamentare. Persino senza premi di maggioranza sarebbe un enorme progresso. Sarebbe anche un bel modo di riavvicinare cittadini e istituzioni elettive, alzando in massimo grado – pena la sconfitta – la qualità dei candidati e il loro legame con i collegi che debbono votarli.

Invece non solo non c’è un maggioritario puro, o assolutamente prevalente, e possibilmente a due turni, ma è stata tolta al cittadino, dallo “statista” Calderoli proponente la legge elettorale del dicembre 2005, pure la libertà di dare “una” preferenza, e ciò in un sistema che per tre quarti non è neppure uninominale di collegio: per cui i capi partito fanno listoni e il candidato può starsene a casa e non consumare neanche la suola delle scarpe per essere eletto. Calderoli l’aveva fatto per danneggiare una sinistra che aveva in quel momento il vento in poppa, tanto che pochi mesi dopo riconobbe di aver fatto una “porcata” (e la legge fu detta Porcellum, dal solito immaginifico grande politologo Giovanni Sartori[1]). Ma poi TUTTI i capi partito, come fossero oligarchi, si son tenuti stretti la porcata, infischiandosene pure del 40% di cittadini che non va neanche più a votare. Così siamo messi in Italia.

La quinta ragione di sconfitta della sinistra: la sordità in materia di riforme atte a garantire la governabilità dello Stato, consentendo un potere esecutivo di legislatura e di ugual forza rispetto al potere legislativo e giudiziario

Questo però ci richiama a una questione più importante, che è l’ultima che vorrei toccare e che è forse la più importante di tutte. Non solo la Sinistra italiana – a parte i comunisti – non ha mai compreso, o meglio voluto comprendere, l’importanza di avere leader forti e abbastanza stabili alla testa: non ha mai compreso, o meglio voluto comprendere ciò a livello di forma di governo, pur con le mille garanzie democratiche e pesi e contrappesi che in materia di forme di governo occorrono sempre.

Una ventina d’anni fa la CGIL di Alessandria m’invitò a parlare della Costituzione in un convegno provinciale, mi pare a Castelnuovo Scrivia. Io spiegai in dettaglio perché la nostra Costituzione sia da ritenere tra le migliori al mondo, ma dissi pure quel che penso da oltre trent’anni, e con molti contributi specifici dal 1990[2]: che la costituzione ha lasciato irrisolta la questione della governabilità dello Stato. Nel 1947 infatti tutte le due parti allora in campo, Fronte Popolare socialista-comunista da un lato e DC e area moderata o di destra dall’altro temevano, per molte buone ragioni, il colpo di Stato dell’altra (come disse un vero protagonista della Costituente, un democristiano ben più a sinistra di De Gasperi, e poi fondatore di un ordine religioso, Giuseppe Dossetti[3]). Allora, temendo o la soluzione allora in atto “praghese” (golpismo di sinistra socialcomunista se avesse vinto la sinistra) o “lisbonese” (golpismo di destra clerico-fascista se avesse vinto un centro risucchiato a destra e ormai ostile alla sinistra), previdero un parlamentarismo purissimo, che vuoi tramite la proporzionale pura e vuoi rendendo i governi un che di sottoposto 365 giorni all’anno al sì e no dei deputati e senatori (pure il bicameralismo assoluto aveva tale senso), rendesse molto difficile il “governo forte”. Oltre a tutto dopo vent’anni di fascismo, quietamente al potere assoluto dal 1926 al 25 luglio 1943 e dapprima caduto “dall’interno” (nel Gran Consiglio del Fascismo, dopo che gli americani erano già sbarcati in Sicilia), avevano tutti le loro buone ragioni nel ritenere la democrazia ancora troppo debole per concedersi un potere esecutivo di pari forza rispetto al legislativo e giudiziario come la liberal-democrazia richiederebbe.

Questo da un lato, però, molto presto ingenerò il dramma dei governi deboli, e dopo il 1953 meno che annuali, ma, soprattutto, ingenerò la situazione di pressoché impossibile alternativa tra due partiti o almeno blocchi omogenei (uno conservatore e uno riformatore), che si dessero il cambio a seconda del risultato elettorale. La DC, che pure aveva sempre tra il 35% e il 40% circa dei voti (a parte la maggioranza quasi assoluta del 1948, frutto di quella paura dei “rossi”), in tal caso diventava ricattabile o da sinistra o da destra. Su ciò sono state date molte interpretazioni.

Ad esempio il notevole storico Pietro Scoppola, in un fortunato libro – La proposta politica di De Gasperi (1977)[4] – che io, quando ero assessore alla cultura, volli che egli venisse a presentare ad Alessandria, introdotto dal suo e allora mio amico Maurilio Guasco – sosteneva che De Gasperi era un uomo di centro che guardava sempre a sinistra. Ma non era stato così secondo un libro che tuttora io trovo bellissimo – e sono contento di averlo potuto dire all’autrice, in Alessandria, nel 2004 – scritto dalla figlia di De Gasperi, che tra l’altro gli assomigliava come una goccia d’acqua, Romana De Gasperi (De Gasperi, uomo solo, 1964[5]). La tesi della figlia ha più di una conferma nella prima biografia del grande statista trentino, forse il maggiore statista “liberaldemocratico” italiano dopo Cavour e Giovanni Giolitti, Alcide De Gasperi: una biografia scritta molto tardivamente – perché in Italia la storiografia contemporaneistica ha un’impronta molto politica, sicché i socialisti e comunisti si interessano solo di socialisti e comunisti, e i democristiani di democristiani, ma questi ultimi erano spesso troppo indaffarati politicamente, dato l’enorme potere della loro parte politica (sempre a capo del governo dal 1945 al 1994) per dedicare anni e anni pure ai loro maggiori protagonisti – dall’ottimo studioso Pietro Craveri: De Gasperi (2006).[6] Dall’appassionante lettura di questo importante libro, a confronto con quello toccante e profondo di Romana De Gasperi, ho tratto conferma di una mia (e di lei) convinzione, un poco più sfumata da Craveri, che era pur sempre “influenzato” da Scoppola: Alcide De Gasperi si trovò sballottato, pure nella DC oltre che nella politica italiana, tra Destra e Sinistra essendo però un uomo sempre di Centro (per questo la figlia l’aveva detto “uomo solo”: il che era certo esagerato, ma non falso). L’Alcide nel 1952 era stato ben deciso a rifiutare l’alleanza con l’estrema destra del Movimento Sociale, che nel 1952 l’allora potentissimo papa Pio XII voleva sdoganare per le elezioni amministrative di Roma, che allora più ancora che in seguito voleva dire “Italia” (facendo quel che poi fece, con Fini ancora segretario del MSI e candidato a Roma, Berlusconi quarantadue anni dopo, nel 1994); e dire di no al papa in un tempo in cui la chiesa era politicamente decisiva in tutto non era uno scherzetto, e infatti De Gasperi non fu più neanche ricevuto dal pontefice. Ma De Gasperi voleva pure evitare l’alleanza col Partito Socialista Italiano di Nenni, allora legato al PCI, e che comunque dal PCI sarebbe sempre stato influenzato. Per far ciò De Gasperi nel 1953 provò a varare una legge maggioritaria che prevedeva che la lista o coalizione di liste che avesse preso alle elezioni alla Camera il 50% più uno di voti avrebbe avuto il 65% dei seggi, ossia una solida maggioranza. La legge fu approvata, dopo un dibattito parlamentare furibondo e interessantissimo che tanti anni fa ho letto bene, e si convenne che quella legge sarebbe stata confermata, oltre che subito usata, se il 50% dei voti più uno l’avessero voluto nell’urna nelle elezioni politiche di quell’anno. Era la legge che il leader dei socialisti, grande giornalista, Pietro Nenni disse, con felice formula propagandistica, “legge truffa”. L’obiettivo fu mancato per settantamila voti, e la cosa decadde. E forse non fu male perché il fascismo era finito da pochi anni. Fu allora che Saragat, il cui piccolo partito socialdemocratico faceva parte della coalizione di centro, “centrista”, di De Gasperi, e teneva molto a quella legge, tramite la quale sperava di indurre i socialisti a staccarsi dai comunisti e i comunisti stessi a smettere di essere tali se volevano sperare di governare contando qualcosa, parlò di un “destino cinico e baro”. Quella sconfitta, che forse accorciò la vita di De Gasperi (morto nell’agosto 1954), rese sempre più ineludibile la scelta della DC tra alleati di destra oppure di sinistra: una scelta travagliata, che trovò come campione dell’andare a sinistra – soprattutto perché era uno statalista in economia già quando era stato un professorino universitario fascista di Economia – Amintore Fanfani. Anche se negli anni Settanta divenne simbolo di autoritarismo (“fanfascismo”), Fanfani tra il 1954 e il 1964 fu il traghettatore della DC verso sinistra, con operazione poi riportata, con grande spessore culturale, nel campo come sempre moderato, da Aldo Moro intorno al 1962. (Quando nel 1978 fu trucemente quanto stupidamente ammazzato dalle Brigate Rosse, Moro, il gran traghettatore del PSI da sinistra al centro, stava tentando di ripetendo il suo grande gioco “intrasistemico” col PCI di Berlinguer).

In pratica tra il 1948 e il 1961 nel mondo della DC e dintorni si confrontarono due linee: una prevalentemente liberale liberista e privatistica, che i liberali del tempo (di Giovanni Malagodi) sostenevano, alla fine risultata minoritaria, anche perché per “passare” aveva bisogno di un Movimento Sociale ancora neofascista e tutto permeato da ex combattenti di Salò; e l’altra linea cattolico sociale e socialdemocratica, keynesiana, programmatoria democratica, planista, poi prevalsa in modo deciso quando l’ultimo tentativo di tenere in piedi il centrismo tramite il “soccorso nero” (governo Tambroni del 1960), fu travolto da una sollevazione antifascista delle masse, certo voluta in primo luogo dal PCI, ma che superò ogni decisionismo di vertice, segnando anzi, credo io, l’inizio del decennio della Contestazione (ossia l’epoca della continua espansione del movimento delle masse operaie, e poi anche studentesche, nella storia, culminata nell’autunno caldo del 1969, ma che rese possibili taluni risultati di riformismo sociale sino al 1978, benché gli anni Settanta fossero già di declino della grande ondata “lavorista” e “liberatrice” che aveva segnato tutti gli anni Sessanta).

In pratica dal 1961 iniziò il continuo dialogo a sinistra, con alleanza poi trentennale tra DC e PSI (1963-1993), e con la connessa costruzione del Welfare State che conosciamo e di cui godiamo: un Welfare frutto della convergenza tra socialisti e democristiani di sinistra, ma in un continuo rapporto di incontro-scontro con i comunisti, resi forti da un lato dal legame con i grandi sindacati operai e in specie con la CGIL, ma dall’altro da un incontro-scontro continuo con i socialisti, interrotto solo dal compromesso storico di Berlinguer, che privilegiava la DC di Moro sul PSI di Craxi. Dopo le elezioni del 1976 la realizzazione del compromesso storico imperniato sull’alleanza tra democratici, ma basata sul duopolio tra PCI e DC, sognata da Berlinguer, pareva prossima a realizzarsi. Il PSI, che con Francesco De Martino aveva favorito l’apertura della maggioranza di governo ai comunisti a scapito della “delimitazione della maggioranza” (che da sempre per la DC escludeva il PCI), era giunto al minimo storico. Il PSI, che dopo la Liberazione era stato nel 1946 ancora un poco più forte del PCI, ormai era sotto il 10%, mentre il PCI balzava a oltre il 34%, ancora una volta portando via innumerevoli voti ai socialisti. Così De Martino fu travolto e arrivò Craxi alla testa del PSI. Dapprima Craxi avrebbe voluto aprire al PCI (congresso del PSI di Torino del marzo 1978), ma solo se questo avesse accettato che tutta la sinistra, mentre maturavano le condizioni per l’accesso al governo degli stessi comunisti, fosse impersonata al governo dal PSI, cioè da lui (che mirava alla Presidenza del Consiglio), in attesa di entrarvi; ma Berlinguer, già beniamino di Longo (che l’aveva preferito a Napolitano come proprio successore), e comunista dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, non volle cedere sull’”egemonia” nella sinistra, credo temendo un Mitterrand italiano a scapito del PCI; e allora Craxi cercò di realizzare la premiership del suo partito, e propria, alla testa di una coalizione moderata anticomunista (pentapartito, il famoso CAF, l’alleanza Craxi-Andreotti-Fanfani), facendo con qualche efficacia il premier per alcuni anni e dando retta alle sirene dell’anticomunismo. Ma questa è altra storia, in cui qui non voglio ulteriormente addentrarmi. Diciamo che allora ci fu un dialogo tra sordi, tra PSI di Craxi e PCI di Berlinguer, esasperato in troppi momenti da taluni “capi” o intellettuali più realisti del re, nocivi alla loro stessa area sia tra i comunisti che tra i socialisti. Berlinguer e Craxi, per la loro storia personale, per l’influsso dei loro “colonnelli” e “intellettuali” fedelissimi, e anche per taluni loro limiti culturali, non riuscirono a comprendere a fondo quanto male quell’ostilità – quando da tattica diventava strategica, e astiosa – facesse a tutta la sinistra, e quindi pure al movimento operaio, e in primo luogo a loro e al loro partito.

La faccenda aveva pure un legame con la questione della governabilità del Paese, al centro di quest’ultima mia riflessione sui problemi della sinistra d’oggi. Questa questione fu rimossa dalla sconfitta della legge maggioritaria del 1953 sino al 1978 per tutta la sinistra. Risolverla non pareva interesse della sinistra, che infatti fu sempre ferma, più o meno sino a Craxi, nel non cambiare nulla nella Costituzione (poi la sinistra si rifece introducendo pericolose idiozie come la riforma dell’articolo quinto della Costituzione proposta da Bassanini, nella speranza di frenare la Lega: una pessima riforma, che fa delle Regioni dei quasi-stati)[7].

Su ciò, per cercare di capirci un poco di più, mi si consenta un altro passo indietro. Correva l’anno 1969. Io facevo parte della segreteria regionale del PSIUP. Il PSIUP organizzava l’importante convegno nazionale sulle lotte di massa, svoltosi poi a Torino in forma regionale[8] e mi pare a Roma a livello nazionale. Avevamo un Esecutivo Regionale, di cui facevano parte, oltre ai quattro membri della Segreteria regionale (Mario Giovana, Giorgio Gasparini, Franco Ramella e il sottoscritto), i segretari di federazione. Venne a incontrarci il vicesegretario nazionale del PSIUP, Dario Valori. Tra le cose che ci disse ce ne fu una che mi rimase impressa. Fu quando affermò che il movimento operaio italiano, che allora voleva dire la sinistra sia in quanto mondo dei lavoratori che come partiti, aveva “sempre avuto bisogno di governi deboli e movimenti di massa forti”.

Aveva ragione. I governi deboli debbono stare a sentire gli avversari contigui o cadere. I “contigui” di destra dopo il Sessanta furono fuori gioco. I monarchici ovviamente scomparvero, come assurdi e ridicoli fantasmi (pur annoverando tra loro, in quanto liberale bastiàn cuntràri, in realtà nostalgico dell’Italia liberale prefascista, un grande umorista come Guareschi). I liberali erano sempre stati un movimento elitario, e il nuovo statalismo economico li rese marginali. I neofascisti dopo il luglio 1960 furono sempre più ghettizzati e si ghettizzarono, sia perché sopravvennero il Sessantotto dei contestatori e il Sessantanove operaio, e sia dopo che l’elezione a Presidente della Repubblica di Giuseppe Saragat, nel 1964, portò al massimo splendore il nesso tra Resistenza e Costituzione, che in precedenza non era stato affatto così ovvio e forte come tutti oggi credono, probabilmente nessun gruppo escluso. Perciò il ruolo di dialoganti del PCI – tramite i potenti sindacati, la forte rappresentanza parlamentare e il dialogo quotidiano con socialisti e democristiani pure “avversari” – crebbe sempre di più. Tutto ciò, lo ribadisco – e tramite il punto di contatto decisivo dei socialisti, ribadisco anche questo – ci ha dato il Welfare State di cui godiamo, che fa sì che i miglioramenti di tutto il Paese si potessero e possano toccare con mano. C’è certo quella che è stata chiamata società dei due terzi (anche se il “terzo escluso” non supera il 20%), ma non dimentichiamo che sino a pochi decenni fa i poveri erano più o meno la maggioranza assoluta in Italia, se non proprio nella Valle Padana.

Tuttavia la bella medaglia “Welfare State” aveva un doppio rovescio: il debito pubblico e il trasformismo, corruttivo, che mette sempre a rischio la democrazia. Il debito pubblico è il secondo del mondo (2756 miliardi di euro circa nell’agosto 2022), e si formò così: 1) moltiplicando i centri che spendono senza che si possa loro impedirlo; 2) non frenando, ma dicendo sì a tutte le pressioni corporative; 3) lasciando andare la gente in pensione dopo vent’anni; 4) salvando quasi tutte le aziende decotte se pubbliche o prevalentemente tali; 5) realizzando continui rapporti di connivenza con l’opposizione (allontanando sempre più il sano rapporto tra una maggioranza che governi e una minoranza che la contesti per poterle un giorno succedere); ed esasperando così quel triste, e tristo, rapporto tra gente di potere nelle istituzioni elettive che Robert Michels sin dal 1911, in Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, chiamava “amalgama”[9]).

Debito pubblico e corruzione su larga scala sorsero così. E questa storia, ora dilatata e ora frenata, non è mai finita, neanche quando sono cambiati tutti i soggetti politici, ora davvero e ora tramite chirurgia estetico-politica.

A mio parere non si può uscirne se non garantendo una divisione dei poteri basata su quattro punti: 1) Nessuno dei tre poteri deve poter dominare da “impunito” sull’altro: si tratti dell’esecutivo sul legislativo e giudiziario; o del legislativo sull’esecutivo e giudiziario; o del giudiziario sull’esecutivo e legislativo); 2) i tre poteri debbono bilanciarsi, in modo che non siano corpi l’un l’altro separati, ma che si frenino e controllino reciprocamente; 3) il governo, dal Comune o Regione allo Stato, deve avere forza più o meno pari agli altri due poteri fondamentali: 4) il governo, dal Comune o Regione allo Stato tutto, deve poter durare da un’elezione all’altra (salvo casi previsti assolutamente eccezionali).

La mancanza di ciò ha sempre indotto e induce i governi ad essere sempre permeabili ad ogni influenza forte esterna, e quindi al trasformismo. Questo trasformismo è doppiamente corruttivo: perché ingenera complicità inconfessabili, e perché scredita la democrazia agli occhi dei cittadini, facendo sparire tutte le differenze, come si è visto nelle alleanze multiple e cambi continui di casacca degli ultimi anni, o, nei giorni scorsi, con i voti che da sinistra sono andati in soccorso di La Russa consentendogli di diventare la seconda carica dello Stato.

Ma, soprattutto, che fa il governante che sa che al più durerà un anno, in media?

In tutti i paesi si sa che nei primi anni della legislatura il governo fa scelte di governo dolorose ma necessarie, che poi saranno apprezzate negli ultimi anni di legislatura, quando sotto elezioni sacrifici grandi non se ne possono più fare senza perdere voti a valanga. Ma qui da noi non è così. I governi sono così deboli e brevi che possono solo barcamenarsi col famoso “cerchiobottismo”. Quando proprio la chirurgia si fa inevitabile si mandano al potere tecnici, per l’assoluta emergenza, cercando di far passare l’operare di quel tale che diceva: “Io non c’ero, e se c’ero dormivo”. Sono cose oggi così note da non aver neanche bisogno di essere tanto esemplificate, ove si pensi a Mario Monti (novembre 2011 – aprile 2013) o Mario Draghi (febbraio 2021 – ottobre 2022), ma che alla lunga non possono risolvere i mali che si siano troppo a lungo accumulati, ma solo spegnere i maggiori “incendi”.

Perciò la più importante delle riforme a favore dei lavoratori è quella della governabilità dello Stato, con i tratti di cui ho detto (governi sostanzialmente di legislatura, con chiara e netta distinzione tra maggioranza e opposizione, e pari forza rispetto al potere parlamentare-legislativo e a quello giudiziario). Infatti già l’economia italiana, per ragioni storiche profonde, ha dimostrato e dimostra di saper correre, perché sin dal 1300 il capitalismo l’abbiamo inventato noi, a partire dal piccolissimo, e qui, almeno al Nord, lo spirito del capitalismo, con le sue terribili ombre e innegabili luci, è grande; ma se potesse contare su uno Stato efficace, senza troppa zavorra sul dorso, andrebbe infinitamente meglio. Basta che il governo sia un poco più duraturo ed efficace e i benefici sono subito grandi. E questo fa il bene innanzitutto dei lavoratori.

Ci sono molti modi per risolvere la tremenda aporia in questione: da leggi proporzionali come quella con forte premio di maggioranza tentata nel 1953 a quella del “sindaco d’Italia” voluto da D’Alema e poi Renzi (fatte fallire dal solito Berlusconi in extremis), al sostanziale premierato cui tendeva la riforma “Renzi” bocciata nel dicembre 2016 dal popolo sovrano, al presidenzialismo alla francese, cui tende da sempre l’area oggi incarnata da Giorgia Meloni. Sul modello francese ha scritto un libro a favore pure Gianfranco Pasquino, nel 2008.[10], che pure era contrario al referendum di Renzi. In margine a un dibattito all’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria del tempo del referendum di Renzi mi disse che “il diavolo si annida nei particolari”, volendo dire che nella riforma proposta c’erano diverse contraddizioni. Non ebbi la prontezza di ricordargli il proverbio francese: “Le mieux c’est l’ennemi du bien” (“il meglio è il nemico del bene”). Con tutti quei limiti, se la riforma fosse stata fatta, a mio parere avremmo compiuto un gran passo in avanti, e non avremmo da attenderci la cura da cavallo che in materia, se ci riesce, proverà a realizzare la Meloni, tramite il modello francese; e lo farà non senza ragioni storiche. Ma con Renzi sarebbe stato possibile difendere la governabilità con una cura molto meno invasiva e fatta dalla sinistra democratica.

Personalmente, comunque, non mi formalizzo. L’obiettivo dovrebbe semplicemente tendere a un sistema in cui: 1) la maggioranza possa governare senza il continuo ricatto dell’opposizione, e questa abbia ogni libertà e garanzia per lottare liberamente per diventare maggioranza (insomma, l’alternativa democratica tra destra e sinistra); 2) la durata di legislatura, o tra legislature, dei governi; la possibilità di governare senza dover essere nel mirino ogni giorno di insidie parlamentari o giudiziarie, così come ci vogliono norme per garantire pure a parlamento e giudici che il potere governativo non li coarti.

In realtà si è andati avanti anche su tali terreni, perché il sistema di elezione dei sindaci e dei presidenti di Regione è già da molti anni da repubblica semipresidenziale: una repubblica semipresidenziale “alla francese” che tra l’altro, grazie alla genialità di de Gaulle, ha superato pure l’ultimo ostacolo delle forme di governo di tipo presidenziale “puro”, che è il far fronte alla possibile differenza tra colore politico del Presidente e del Parlamento (fenomeno che in America chiamano dell’”anatra zoppa”, ossia del governo presidenziale azzoppato nel potere di governo dal non avere la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti). Infatti il semipresidenzialismo “alla francese” ha stabilito la diarchia tra Presidente della Repubblica eletto dal popolo e Presidente del Consiglio, indotti a coabitare pure nel caso di Camera d’altro colore rispetto al Presidente (anche ora accade in Francia).

Stato e economia

Io ritengo che proprio l’impegno ideale e programmatico a garantire governi di legislatura sia l’ultimo ostacolo da superare per una nuova sinistra. Il punto chiave da capire, qui, è che se lo Stato funziona; se è democraticamente governabile, con un governo forte e autorevole, e una buona divisione e bilanciamento tra i tre poteri fondamentali, va bene anche l’economia. E se invece a essere zavorra è proprio lo Stato, se c’è mal funzionamento dello Stato, va male l’economia (o molto meno bene, soprattutto nel vastissimo ambito pubblico, di quanto potrebbe andare). Perciò mi sento lontano anni luce dalla teoria liberale-liberista di Adam Smith, della Ricchezza delle nazioni, per cui il mercato si autoregola come se “una mano invisibile” lo regolasse.[11] Con poche eccezioni pure l’economia di mercato funziona bene, oltre che equamente, proprio se c’è una “mano visibile”, che è lo Stato, che lo regoli: non con tasse eccessive o con una macchina che abbia costi sempre più incredibili; e neanche con invasività nell’economia, ma come ARBITRO tra tutti quanti (ARBITRO, e non solo o prevalentemente carabiniere), in modo che vi siano leggi efficaci nel dare a tutti sicurezza da ogni violenza illegale privata come pubblica, quanta buona salute può darsi, educazione pubblica, e poco altro.

Conclusione

Con ciò mi pare di aver delineato i punti la cui ASSENZA O CARENZA porta male alla Sinistra (e, quel che importa, a tutto il mondo che va a lavorare e deve comunque vivere), e la cui PRESENZA O ABBONDANZA porta bene: 1) il leader autorevole e abbastanza stabile per molti anni, per scelta dei suoi elettori; 2) il partito pluralista all’interno, ma con regole vincolanti per tutti; 3) una forte identità ideale socialista e democratica, come idea, mito e fine comune; 4) un impegno a garantire la libertà delle nazioni, ma pure a realizzare la pace tra i contendenti, tanto più nel vasto Occidente da Parigi a Vladivostok; 5) un concretismo programmatico o competenza di governo; 6) una capacità di essere “plurimi in uno”, riconoscendo il carattere plurale dell’Idea Socialista, in cui deve esserci competizione emulativa tra tutte le frazioni, da quelle ultrariformiste a quelle ultrariformatrici, o rivoluzionarie ma democratiche, quale sia il gruppo di riferimento; 7) l’impegno programmatico e politico a realizzare, con congrue riforme istituzionali, governi di legislatura.

Non credo minimamente che senza realizzare almeno diversi tra questi punti, diciamo la maggioranza tra essi, la Sinistra potrà evitare che la sconfitta del settembre 2022 possa trasformarsi in una disfatta epocale. E credo pure che cambiando talune cose ciò valga pure a livello mondiale.

di Franco Livorsi

per leggere l’intero saggio

  1. G. Sartori, Il “porcellum” da eliminare, “Corriere della sera”, 1° novembre 2006.
  2. F. Livorsi, Socialismo e presidenzialismo, “Critica Sociale”, n. 7, luglio 1990, pp. 23-29; Chi ha paura del presidente eletto dal popolo?, “Avanti!”, 7 agosto 1991; “Perdere le battagli e vincere le guerre”, ivi, 30 agosto 1991; Quei gattopardi che demonizzano il presidenzialismo, ivi, 30 agosto 1991; Unità socialista e Repubblica presidenziale. Perché no?, “Il Ponte”, a. XLVII, n. 8-9, 1991, pp. 102-121; Debray da Che Guevara a De Gaulle e Mitterrand, “Avanti!”, 23-24 febbraio 1992; La governabilità, “Città Futura on line”, 30 giugno 2013; I professori e il “duce” immaginario, ivi, 7 aprile 2014; Referendum costituzionale e tirannide immaginaria, ivi, 31 maggio 2016; La riforma istituzionale punto per punto, ivi, 3 dicembre 2016; Pensierini su una disfatta, ivi, 11 dicembre 2016; Disfatta di Renzi e vittoria di Pirro, ivi, 6 dicembre 2016. E altri.
  3. G. Dossetti, La ricerca costituente (1945-1952), Il Mulino, Bologna, 1994.
  4. Il Mulino, Bologna, 1977.
  5. R. De Gasperi, De Gasperi, uomo solo, Mondadori, Milano, 1964. Nel 1969 il libro è stato ripubblicato negli Oscar Mondadori col titolo più neutro: De Gasperi. Ritratto di uno statista.
  6. Il Mulino, 2006.
  7. Si veda in particolare la legge 127, o legge Bassanini bis, culmine delle leggi di decentramento del 15 marzo 1997 (n. 59), seguita dalla legge del 16 giugno 1998 (Bassanini ter), dalla legge dell’8 marzo 1999 (Bassanini quater), e connessi regolamenti di organizzazione. Mentre l’articolo 5 della Costituzione del 1948 inseriva il decentramento amministrativo nel principio della “Repubblica una e indivisibile”, il referendum del 7 ottobre 2001 che recepiva la riforma Bassanini, dal 18 ottobre 2001 rendeva tripartite le competenze tra Stato, Regioni e enti locali in base al principio di sussidiarietà, federalismo e partecipazione.
  8. F. L. (Franco Livorsi), Come è stato preparato il convegno regionale sulle lotte di massa, “L’idea socialista”, gennaio 1970; Non firmato (Franco Livorsi), Torino. “Dalle lotte al potere”. Cresce la politica operaia, ivi, n. 2, febbraio 1970.
  9. L’opera, edita in italiano nel 1912, è stata riedita da Il Mulino, Bologna, 1966, in base all’edizione del 1925.
  10. G. Pasquino, Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Il Mulino, Bologna, 2010.
  11. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), Newton Compton, Roma, 1976.

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