Il PCI cent’anni dopo

Ci fu un tempo in cui il mio interesse decisamente prevalente era la storia del marxismo, del comunismo e del socialismo. Oggi tali cose mi coinvolgono sempre molto, ma insieme ad altre questioni diverse. Invece ci fu un trentennio, tra l’inizio degli anni Sessanta e Novanta, in cui marxismo comunismo e socialismo – che per me erano tre articolazioni della stessa cosa – mi coinvolgevano pressoché totalmente come intellettuale, come militante e come storico del pensiero politico. Ma ho proseguito anche dopo, sino ad oggi, a occuparmi di tali temi, anche su Città Futura. Sin dall’inizio ho trovato appassionanti i problemi di filosofia dell’esistenza e della storia incentrati pure sulla critica della civiltà tradizionale, cosiddetta “borghese”, ma anche quelli coevi, relativi alla storia dei partiti e movimenti politici, in specie riformatori o rivoluzionari, socialisti e comunisti (e correlativamente contrari, perché non ha senso cercare di capire una parte se non s’intenda quella che ad essa si opponga, come se nell’Iliade di Omero uno si curasse degli Achei disinteressandosi dei Troiani, o viceversa; e chi “cerchi” la verità, o ciò che sia meglio per la società, pur avendo necessariamente il proprio punto di vista deve sempre ipotizzare che nello specifico ciascuna delle parti in campo possa avere almeno talune buone ragioni, perché altrimenti la sua elaborazione, volendolo o meno, scadrà nel propagandismo spicciolo, rifiutando la dimensione fondamentale per chiunque faccia ricerca, anche nel campo delle scienze umane, come sono quelle storico-sociali: quella della verifica, che richiede sempre l’audiatur cetera pars, l’ascolto dell’altra parte, come dicevano i giuristi della Roma antica). Naturalmente tutto ciò mi si è chiarito sempre meglio col passare degli anni: prima quando elaborai e discussi la mia tesi, lodata, sul “problema dell’emancipazione nella filosofia politica di Marx”, presso l’Università di Torino, l’11 luglio 1968, avendo come relatore il filosofo Carlo Mazzantini e come correlatore lo storico Massimo L. Salvadori; poi quando divenni, dopo essermi immediatamente abilitato nel migliore dei modi in Storia Filosofia Pedagogia e Psicologia per concorso nazionale, professore incaricato e di ruolo presso l’Istituto Magistrale D. R. Saluzzo di Alessandria dal 1969 al 1974; e soprattutto da quando, dal 1974 al 2010, insegnai presso le Università degli Studi di Torino e poi di Milano, dove sono stato professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” sino al mio pensionamento.

Dato il mio forte interesse per la forma-partito (marxista, comunista, socialista), il mio approccio si è rivelato ben presto di tipo storico, anche per l’urgenza di connettere pensiero e azione: però di un genere di “Storia” che oggi chiamiamo politologico, volto cioè a comprendere quali siano stati o siano i dinamismi politici sottesi agli eventi trattati. Insomma, ho sempre cercato di capire – e cerco sempre di capire – perché le cose siano andate o vadano in un modo piuttosto che in un altro; e, soprattutto, perché le forze “in campo”, in determinati contesti specifici, siano trionfate o trionfino, o si siano almeno espanse o espandano, oppure abbiano preso o prendano un sacco di legnate. Questo m’interessa sempre anche in riferimento al presente come storia. L’idea che della storia ci si possa interessare per raccontare quello che ha detto o fatto quel bravo ragazzo di Tizio, o quel geniaccio di Caio, o quella carogna di Sempronio, o anche quel che abbiano detto o fatto gli equivalenti collettivi del Tizio o Caio o Sempronio in questione, magari celebrando anniversari a date fisse, non mi ha mai neanche sfiorato. Non potrebbe importarmene di meno. Talora ho dovuto indulgervi anch’io, quando non potessi dire di no, ma appena ho potuto il mio approccio è tornato a essere sempre storico-politologico, volto a capire perché le cose siano andate in un modo e non in un altro. Non dico che anche quel “raccontare” storico commemorativo o storico “accusatorio” – purché fatto in modo documentato – non abbia alcun senso. Ma “l’altro”, scelto intuitivamente, e poi consapevolmente, da me, mi pare assai più interessante, fruttuoso e importante.

Perciò un focus di rilevanza assoluta per me è stato – per diversi decenni, anche come studioso – il primo dopoguerra, in cui il capitalismo mondiale ebbe, tra il 1917 e il 1923 (o il 1930?), da Pietroburgo e Mosca a tutt’Europa, un tale corto circuito di crisi politico-sociali “di tipo antisistemico” quale poi non si è più dato, almeno in tale area del mondo, con pari intensità. Anche se in Italia e Germania tutto finì come si sa. L’acme era, naturalmente, la Rivoluzione d’ottobre dei soviet del 1917, ma come parte di un corto circuito appunto mondiale, che – se non era annuncio di rivoluzione socialista internazionale incombente per il potere dei lavoratori stessi, come la sinistra del tempo aveva sperato – e la parte opposta, ancora di più, aveva temuto – presentava almeno parecchi non trascurabili sintomi di quel genere. Ahinoi, tutto ciò oggi è pressoché scomparso.

Negli ultimi trent’anni, intuendo lo scacco delle tendenze di riferimento costanti (“marxismo”, “comunismo” e “socialismo democratico” in senso tradizionale), da un lato ho cercato e trovato un’”uscita di sicurezza”, nel mio caso psicologico analitica e “religiosa” (nel senso dell’apertura interiore alla dimensione dell’infinito); dall’altro ho provato a investigare l’ambientalismo come contesto di possibile rinnovamento del socialismo, in un’ottica rosso-verde: sia che nasca un nuovo socialismo ecologista, o un nuovo ecologismo sociale, ma anche spirituale (come Madama Storia mostrerà nel tempo a venire). Talora ho intrecciato i due momenti (quello della renovatio interiore e della renovatio sociale). Anzi, ritengo che la congiunzione dei due piani – lo spirituale e il sociale – sarà una delle istanze fondamentali per la “fabbrica del futuro”, parendomi ormai assodato che per una vita nuova ci voglia gente interiormente rinnovata, che viva già in sé stessa e nei rapporti reciproci la libertà e fratellanza che predica per gli altri: perché “lei” nel profondo è “così”, “umanità nova” in cammino, quantomeno normalmente (persino quando dorma). E se non è o sarà così, o nella misura in cui non è o non sarà così, almeno ai fini del rinnovamento del mondo può pure andarsene alla malora. Al proposito rinvio soprattutto ai miei libri: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (Vallecchi, 1991); Il mito della nuova terra. Cultura, idee e politica dell’ambientalismo (Giuffré, 2000); Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo (Giappichelli, 2003); Politica nell’anima. Etica, politica, psicoanalisi (Moretti & Vitali, 2007); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo (ivi, 2010), ma anche al mio libro poetico-saggistico Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo (Golem, Torino, 2018).

Anche oggi, comunque, socialismo, comunismo e marxismo mi coinvolgono molto, tanto che qui, su “Città Futura on-line”, ho scritto negli ultimi due anni ventinove articoli raccolti nella sezione “Filosofia del socialismo”: articoli che a settembre – con altro titolo e previa limatura ovvia, e ovvie piccole esclusioni e integrazioni – pubblicherò come opera a sé presso un editore di Torino. Ma l’ottica – rispetto agli anni Sessanta-Novanta del secolo scorso – in me è cambiata, perché da un buon ventennio il vero interrogativo per me non è più che fare del marxismo, del comunismo e del socialismo (tradizionale), ma che cosa venga dopo tutta la lunga storia iniziata soprattutto con il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848 (a cura di E. Cantimori, Einaudi, 1962), “finita” in questi anni, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica del 1991: anche se di una nuova storia, certo “en marche”, per ora si sentono solo i vagiti, o talora strani rutti e persino “molesti rumori”.

Per il tema su cui vorrei riflettere qui – relativo al centenario del PCI – la memoria corre esattamente a cinquant’anni fa, quando si discuteva del cinquantenario del PCI. Io avevo alle spalle tutta l’esperienza del PSIUP, dal 1964 a quel 1971. E siccome il PSIUP era al capolinea, anche se ancora non lo si riconosceva ufficialmente; e siccome ero da sempre il più filocomunista, o almeno il più aperto al dialogo con i comunisti, dei dirigenti socialproletari alessandrini, ero tornato a riflettere appassionatamente su storia e prospettive del PCI. Avevo molte critiche da muovere alla linea di tale partito, soprattutto in materia di concezione del potere operaio e di visione dello Stato, ma ero attratto da quella forma-partito, che ritenevo autenticamente leninista in modo occidentale: un partito comunista che mi appariva come una grande comunità unitaria di lavoratori, più o meno alternativa in modo effettivo a tutta la società capitalistica esistente (anche se non avevo ancora compreso, o avevo sottovalutato, il ruolo eccessivo della burocrazia di partito e dell’unanimismo interno, cui il PCI – dato il mix tra apparato e centralismo democratico che sempre lo connotò – indulgeva un po’ troppo; ma rimasi sempre persuaso che a sinistra non ci fosse mai stato niente di meglio, in termini di forma partito, in Italia, e lo credo anche ora). In proposito c’è un testo che chi di dovere potrebbe certo riprendere utilmente, come documento ormai storico, e come dibattito profondo sulla genesi e gli sviluppi del 1921, se mai ne avrà voglia. É il resoconto abbastanza fedele, frutto della sbobinatura degli interventi a una tavola rotonda da parte di Mirca Giardi, la bravissima segretaria del segretario di federazione (che allora era il caro e compianto Carlo Pollidoro). Titolo: 50 anni di storia del PCI e delle sinistre di fronte alla crisi politica del paese. Comparve sul periodico del PCI della Federazione di Alessandria “Nuove Prospettive” del luglio-agosto 1971. Vi parteciparono, per i rispettivi partiti: Carlo Gilardenghi e Carlo Pollidoro (per il PCI); il sottoscritto, per il PSIUP (accompagnato dall’amico operaio Carlo Zai, che interloquì un poco egli pure); Felice Borgoglio per il PSI, e Bruno Mantelli per le ACLI. Fu una discussione vera. Lì si vede bene che sul comunismo di tutti i periodi, ma soprattutto da Bordiga a Gramsci, sapevo molte cose. Avevo esattamente trent’anni e mi apprestavo a tenere un mio primo seminario presso la cattedra di “Storia delle dottrine politiche” di Gian Mario Bravo, a Scienze Politiche, a Torino.

Come mi ero imbattuto in Bordiga, primo segretario del PCI, che allora si chiamava Partito Comunista d’Italia (ma correntemente già PCI, come poi dal 1944), segretario del primo Esecutivo, la cui memoria era stata quasi totalmente rimossa?

Non accadeva certo perché fossi stato bordighiano o, come dicevano nel PCI, “trockijsta”. Non lo ero stato. Quando però nel 1975 comparve una raccolta da me curata, Scritti scelti di Amadeo Bordiga, presso la Feltrinelli, un esponente della cosiddetta “école marxiste barisienne” di Giuseppe Vacca, Franco De Felice – essendo l’editore “Feltrinelli”, e chi dirigeva la prestigiosa collana “Il pensiero socialista” Massimo L. Salvadori e Nicola Tranfaglia, “estremisti” – mi prese per tale su “Rinascita” (danneggiandomi un poco politicamente). L’anno dopo, nel 1976, avrei pubblicato il mio Bordiga. Il pensiero e l’azione politica, che comparve presso gli Editori Riuniti e che nel 1977 ottenne il Premio Acqui Storia. Ma perché Bordiga?

La cosa andò così. Io sapevo chi fosse Bordiga da quando nel 1962 e 1963 avevo giovanilmente discusso la raccolta di scritti di Lenin intitolata Il movimento operaio italiano, curata da Paolo Spriano (Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, n. 3. 1962) e – in modo volutamente polemico con l’autonomismo socialista – avevo discusso il libro di Lenin del 1920 L’estremismo malattia infantile del comunismo (in: Lenin e l’attuale estremismo di sinistra, ivi, n. 9, 1963). Sostenevo – ancora un poco ingenuamente, ma sulla scorta di quel che Lenin aveva detto dell’estremismo di Bordiga – che anche l’estremismo allora “fresco fresco” dei “Quaderni rossi”, che leggevo e lì citavo – era una logica reazione all’opportunismo riformista. Ma il vero e proprio interesse per Bordiga nacque nel 1971, a causa di una bella serie televisiva, poi pubblicata dalla SEI di Torino in volume, realizzata da Sergio Zavoli, Nascita di una dittatura, sulle origini del fascismo. Lì Bordiga, ma anche Terracini e altri, erano a lungo intervistati, anche se Zavoli aveva certo incastonato le domande e risposte di Bordiga nei punti della sua inchiesta sulle origini del fascismo via via affrontati. Quell’intervista, diluita in diverse puntate in momenti chiave, mi colpì moltissimo. A torto o ragione quel Bordiga, con la voce roca minata dal male che nel 1970 l’aveva ucciso, e tuttavia pieno di potenza intellettuale e di un grande carattere, e che diceva cose tutte discutibili, ma sempre acute, m’impressionò molto. Mi faceva pensare a Farinata degli Uberti nella Divina Commedia di Dante. Non mi convinceva, non mi aveva e non mi avrebbe mai convinto, col suo settarismo sia pure d’alto profilo, ma mi pareva una grande anima. E, come più oltre constatai, era un assai prolifico saggista di prim’ordine, specie sull’URSS e sulle idee del marxismo. Perché però aveva perso pure “uno così” nella storia? Fu quello che cercai di capire, tanto più che vivevo il lutto per la rovina incombente del PSIUP, che consideravo “dentro” l’età della contestazione di sinistra, essa pure ormai in ripiegamento. Per reagire a quella crisi mi pareva si dovesse fare una scelta di campo comunista. Chi non l’avesse fatto, a sinistra – come sostenevo – sarebbe necessariamente rifluito in un estremismo più o meno sterile e violento, la cui disfatta mi pareva, oltre a tutto, certa in partenza.

Nei miei studi di quegli anni credetti di poter dimostrare che Bordiga – persuaso che ogni contaminazione politica avrebbe portato degenerazione certa – non aveva compreso l’assoluta necessità per il partito proletario – di cui pure era stato costruttore carismatico e infaticabile alle origini del PCI – di avere una politica mobile, aperta alle alleanze almeno tattiche: pur nella chiarezza del fine post-capitalistico e rivoluzionario. Per questo era poi prevalsa la linea di Gramsci, ma quando ormai il fascismo era persino diventato dittatura (congresso di Lione del 1926): linea poi riformulata in contesto democratico, tanti anni dopo, dal 1944 al 1964, da Togliatti, segretario del PCI dall’arresto di Gramsci alla morte (1926/1964).

In quegli anni m’interessai moltissimo anche di Filippo Turati: “l’altro versante della vicenda di cui ti sei occupato”, mi aveva detto Massimo L. Salvadori proponendomi di occuparmene. E infatti nel 1979 comparve una mia vastissima raccolta di scritti di Filippo Turati, la più ampia e analiticamente commentata che sin lì fosse stata (e sarebbe stata) fatta, presso Feltrinelli (Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, da me introdotta e curata), e cinque anni dopo comparve la mia biografia politica del personaggio (Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, 1984). Naturalmente avevo un approccio troppo filosocialista per i comunisti e troppo comunista per i socialisti, ma un giorno chi farà confronti spassionati ne scoprirà delle belle, soprattutto provando a vedere su singoli grandi testi o singoli grandi eventi quel che ho scritto io e quel che ha scritto taluno che ha uniformemente presentato il protagonista comunque principale del socialismo italiano dalle remote origini alla dittatura fascista come un borghesuccio in sessantaquattresimo.

All’inizio degli anni Settanta del Novecento m’interessai molto anche del comunismo alessandrino delle origini. Allora avevo un rapporto straordinariamente buono con un grande storico fiorentino che era il maggiore, e per me migliore, studioso di Togliatti, di cui curava le opere: Ernesto Ragionieri, di Sesto Fiorentino, che nel 1974 venne pure a concludere un seminario su quel leader che io avevo organizzato, e introdotto, per la Federazione del PCI, a Valtournanche. Due allievi di Ragionieri, Franco Andreucci e Tommaso Detti, dirigevano, per gli Editori Riuniti, l’opera Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1975/1979, sei volumi). Ai curatori parve naturale, su suggerimento del compianto Ragionieri, indicare per le voci concernenti socialisti e comunisti alessandrini il sottoscritto. Fu così che mi occupai di Paolo Sacco (l’orologiaio che nel 1899 era stato, in Alessandria, il primo sindaco socialista in un capoluogo di provincia in Italia, e di cui ad Alessandria, in Piazza Garibaldi, c’è ancora l’argenteria del nipote); di Camillo Mantelli (il nonno anarchico di Delmo Maestri: un giornalaio che aveva un carattere identico a quello del nipote, come vidi in taluni esilaranti documenti di polizia dell’Archivio Centrale dello Stato); e anche di alcuni fondatori alessandrini del PCI, come Ambrogio Belloni, Ercole Ferraris, Fabrizio Remondino e Luigi Ceriana. (Ma forse la voce Remondino fu fatta da Roberta Gilardenghi, figlia di Carlo, laureatasi a Firenze con Ragionieri).

Ambrogio Belloni era il tipo del vecchio socialista massimalista, avvocato un poco arruffapopolo, che nella Giunta di Sacco, mi pare nel 1904, aveva già creato grossi problemi perché, partecipando dell’anticlericalismo epocale aveva preteso di far togliere i crocifissi all’ospedale e nelle scuole comunali, suscitando una furibonda reazione da parte dei cattolici e dei moderati anche liberali. Al convegno di Imola della fine del 1920 in cui i due gruppi dei “comunisti puri” (quello del “Soviet” settimanale di Bordiga, di Napoli e quello dell’”Ordine Nuovo” di Torino, di Gramsci, decisero la scissione), c’era pure una minoranza concorde di questi “vecchi” massimalisti di sinistra comunisti, il più importante dei quali era l’allora popolarissimo Nicola Bombacci, cui inneggiavano persino alcune canzoni proletarie del tempo: poi appeso cadavere per i piedi a Piazzale Loreto con Mussolini, che a Salò egli aveva raggiunto. Questi massimalisti erano – come dicevano i gramsciani e bordighiani, i quali allora erano tutti tra i venticinque e i trent’anni o, come nel caso di Bordiga, poco più – “le barbe che non piacevano” (e infatti, per sprezzatura verso le generazioni anteriori del socialismo “romantico”, loro erano tutti rigorosamente senza barba). Belloni non si smentì mai. Nella Biblioteca Civica trovai allora un suo opuscolo a stampa del 1923 in cui criticava “da sinistra” il Lenin della Nuova Politica Economica, accusato di voler restaurare il capitalismo in Russia. Naturalmente anche la svolta di Salerno del 1944 e l’ulteriore politica di Togliatti favorevole alla collaborazione di governo con la DC, gli andavano molto strette, e le contestava, e di lui si ricordavano ancora i comunisti venuti al partito dal partigianato. Lo tolleravano come un sopravvissuto di tempi remoti, con la testa un po’ balzana.

Ercole Ferraris era un bordighista, a quel tempo estremista, primo segretario della Federazione del PCI di Alessandria, operaio come quasi tutti i primi comunisti: minoritari nella sinistra, ma che nel sindacato erano un terzo dei militanti. Fu molto longevo, come il figlio Libero e, credo, come la nipote, la professoressa di matematica Ivana Ferraris, che certo molti ricordano, negli ultimi anni sempre in giro per Alessandria col suo barboncino.

Duilio Remondino era un pittore, del sobborgo alessandrino di Villa San Bartolomeo, di cui conobbi il fratello. Nella Biblioteca Civica c’era un suo interessante opuscolo, del 1922, che s’intitolava: Il futurismo non può essere fascista. Poteva (anche se non fu mai solo fascista, come pure Gramsci testimoniò, a richiesta, in una sua lettera argomentata a Trockij del 1923, pubblicata dal rivoluzionario russo in: Letteratura e rivoluzione, Einaudi, 1973).

Luigi Ceriana era un operaio della Borsalino, tra i primi quadri a seguire Gramsci, quando questi ruppe con Bordiga nel 1923, e soprattutto dal giugno 1924 in poi. Nel 1971 il cinquantenario del PCI fu celebrato, alla SOMS del rione Cristo di Alessandria, anche da Umberto Terracini, che lesse allora, prima, le due cartelline che avevo scritto su Ceriana, il quale Ceriana nel 1930, esule antifascista, era morto di TBC a trent’anni in sanatorio in Russia, sanatorio da cui aveva scritto una bellissima e politicamente fiera lettera ai familiari, che in parte citavo. Purtroppo non l’ho conservata, ma nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma c’è. Terracini si ricordò di lui, e lo ricordò in modo argomentato. Sino ad allora neppure al Cristo si sapeva chi fosse stato, neanche tra i militanti venuti al PCI dopo il 1945. Forse la Piazza era stata intestata a lui in quanto vecchio comunista, tanto più che il famoso “colonnello Valerio”, Walter Audisio, il quale aveva diretto la fucilazione di Mussolini, era suo cognato. Nella prima metà degli anni Settanta “Valerio” era ancora vivo.

Era infine di Fubine Luigi Longo, tra i protagonisti del PCI dal 1921 alla morte. Dapprima era stato bordighista, e si era sempre sentito rivoluzionario e alla sinistra di Togliatti. Fu segretario del PCI per molti anni. Dovendo scegliere, per ragioni di salute, un vicesegretario unico che fosse una sorta di delfino, pare che tra Giorgio Napolitano e Enrico Berlinguer, avesse scelto deliberatamente Berlinguer, perché già in quel 1968 il primo era considerato socialdemocratico, mentre Berlinguer era, e rimase, “un comunista”, certo democratico, sino alla morte.

Di tutte queste vicende nella fase recente ho potuto discorrere con uno stimato giornalista alessandrino che mi ha intervistato, Piero Bottino (Qualcuno era comunista, “La Stampa”, 24 gennaio 2021).

Mi viene in mente che sono diventato proprio vecchio. Del resto ad aprile – “a Dio piacendo” come dicono i musulmani – avrò ottant’anni: sarò allora, come il protagonista del famoso romanzo di Ippolito Nievo, “un ottuagenario”. Ciò posto penso che tutte le vicende di cui stiamo parlando per un giovane d’oggi siano roba remota, com’era per me il Risorgimento a vent’anni. A “Italia 61” di Torino nel 1961 si celebravano i cent’anni dall’Unità d’Italia. Oggi sono cent’anni dalla nascita del PCI, ma “lui”, il PCI, è già morto da trenta.

Per me la distanza temporale dal 1921 non è come quella che possono sentire i ventenni d’oggi che scoprano la nascita del PCI. Dagli anni Settanta fui amico di più di un fondatore del PCI. Sono stato amico di Alfonso Leonetti, uno degli amici di Gramsci (in esilio Leonetti aveva sposato la ragazza che Gramsci aveva amato nel ’19-20, Pia Carena). Lonetti, collaboratore dell’”Ordine Nuovo” di Gramsci e dell’”Avanti!” di Serrati, esule a Parigi dal 1926, espulso per trockijsmo a Parigi nel 1930, collaborò personalmente là con Trockij. Poi nel 1962 Leonetti rientrò nel PCI, collaborando di tanto in tanto con “Rinascita”. Curai una raccolta di scritti di Leonetti nel 1978 per la De Donato di Bari. Egli aveva subito recensito, benissimo, il mio Bordiga su “Nuova Società”, diretto allora da Giuliano Ferrara. Leonetti intrattenne con me una buona corrispondenza, tanto che le lettere che gli scrissi io sono ora, come mi è stato detto, alla Fondazione Feltrinelli, mentre le sue le ho io. Mi mise anche in contatto con Terracini, che nella sua villetta di Cartosio mi raccontò anche alcuni suoi incontri con Bordiga, dopo che non si vedevano da trent’anni, avvenuti dapprima per iniziativa di Terracini stesso, che nel 1966 andò a trovarlo nella sua casa a Napoli. Purtroppo il mio Bordiga era già uscito e non potei tenerne conto. Avevo però potuto pubblicare, come ultimo pezzo dell’antologia di Bordiga da me curata per Feltrinelli nel 1975, la lettera che Bordiga aveva scritto a Terracini quasi in punto di morte, che mi aveva trasmesso Leonetti, negli ultimi anni molto amico di Terracini. Comunque quando nel 1977 ricevetti il Premio Acqui Storia, l’attore Arnoldo Foà lesse alcune pagine della conclusione del mio libro su Bordiga. Terracini, commosso, mi abbracciò. Poi nel 1986, per iniziativa di Piero Moretti, ma con un aiuto non proprio scarso da parte mia, l’Istituto Gramsci di Alessandria, da me fondato e di cui ero stato presidente (prima di Piero), organizzò ad Acqui il primo convegno nazionale su Terracini, morto nel 1983: convegno i cui atti furono pubblicati nel 1987 col titolo: Istituto Gramsci di Alessandria, Umberto Terracini nella storia contemporanea, Dell’Orso Editore, Alessandria, 1987. Io vi contribuii con una breve relazione, “Umberto Terracini e i comunisti negli anni del Patto Molotov-Ribbentrop” (pp. 55-62). Nel 1939 infatti Terracini, essendosi opposto unitamente alla maestra comunista acquese Camilla Ravera, nell’isola di confino, al Patto Molotov-Ribbentrop, era stato espulso dal partito dagli altri confinati comunisti. Non si rappacificarono con loro, lasciati da una parte, neanche quando nel 1943 salirono sul piroscafo che li liberava. Ciò dopo che Terracini era stato imprigionato o al confino per diciassette anni, dal 1926 al 1943. Fu riammesso nel PCI nel 1944 da Togliatti, subito con ruolo di primo piano alla Costituente.

Ora tutto quel mondo comunista è scomparso. Siamo quasi dei “senza storia”, come dopo ogni grande cambio d’epoca. Anche i cento anni del PCI sono stati una cosa strana persino ai più alti livelli.

Sono usciti naturalmente alcuni libri. Uno ha un carattere storico in senso stretto, a firma di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, Il vento della rivoluzione, Laterza, 2021. Un secondo libro è una riflessione storico politica di un grande antichista politicamente appassionato, che ragiona con categorie togliattiane o neo-togliattiane, in cui l’idea comunista si apre alla socialdemocrazia di sinistra, con osservazioni sempre molto acute: Luciano Canfora, autore di La metamorfosi (Laterza, 2021), sulla rifondazione del comunismo tramite Togliatti nel 1944: grande nuovo inizio del PCI rimasto però un’incompiuta perché gli epigoni del sottile Palmiro non avrebbero avuto il coraggio di completare la metamorfosi socialdemocratica del PCI avviata dal loro leader storico durante la Resistenza. C’è poi stato il libro di Luca Telese Qualcuno era comunista. Dalla caduta del muro di Belino alla fine del PCI: una grande storia di un leader e di un popolo, Solferino, 2021. Ma soprattutto c’è stato il libro di Ezio Mauro La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, 2020. Il testo va pure confrontato con la trasmissione televisiva su Livorno 1921 (La dannazione della sinistra. Cronaca di una scissione, 22 novembre 2020, curata dallo stesso Ezio Mauro, storico direttore di “Repubblica” e già corrispondente per anni da Mosca).

Ezio Mauro mi piace molto non solo come giornalista, ma anche come cultore di cose storiche. Ad esempio, pur essendo un appassionato di problemi del leninismo, ho molto apprezzato il libro di Ezio Mauro L’anno del ferro e del fuoco. Cronache di una rivoluzione (Feltrinelli, 2018), sul 1917 sovietico, e i bellissimi servizi televisivi che ne aveva ricavato in parallelo. Mi ha persuaso meno questo lavoro sulle origini del PCI. Intanto a partire dalla tesi di fondo, contenuta già nel titolo ed espressa pure per TV (La dannazione della sinistra. Cronaca di una scissione). La “dannazione” sarebbe la tendenza alla scissione, che avrebbe fatto il gioco del fascismo. Elementare Watson! I fascisti avevano già incendiato l’”Avanti!” di Milano nel 1919 e lo squadrismo era cominciato. Scindersi era dunque follia. Primo commento: “Parrebbe”. Ma in storia non bisogna mai fermarsi a quel che sembra evidente. Anche in Storia la verità può essere controfattuale.

Intanto l’aggressione all’”Avanti!” del 1919, pur molto grave come sintomo, non va confusa con lo scatenarsi dello squadrismo in quel 1921 che Mussolini – dopo essersi invano opposto al primo squadrismo agrario, facendosene cinicamente “duce” quando ne comprese l’irreversibilità per il fascismo e capì che con lui o contro di lui sarebbe seguitato, e tanto valeva servirsene nella lotta per il potere – chiamerà “l’anno squisitamente fascista”. Nel 1919 l’attacco all’”Avanti!” a Milano era stato una pur gravissima bravata di ex arditi legati al “covo” in cui si faceva il giornale di Mussolini (in una fase in cui costoro chiedevano l’Assemblea Costituente democratica, si dicevano “contro tutte le dittature” e chiedevano il voto anche per le donne). C’erano state le elezioni del 1919 e i fascisti erano stati tutti “trombati”, mentre i socialisti in Italia, in quanto erano stati i soli a votare contro la guerra, avevano triplicato i voti rispetto alle prime elezioni a suffragio “universale” maschile del 1913, diventando il partito di maggioranza relativa alla Camera con 156 deputati (gruppo che però rifiutava alleati, poiché i massimalisti, del tutto maggioritari nello PSI, volevano “fare come la Russia”). I socialisti, sbeffeggiando l’ex direttore dell’”Avanti!” (Mussolini, espulso per interventismo il 24 novembre 1914), gli avevano fatto un funerale farsa. Di lì la vendetta. Nel biennio rosso ci furono molte violenze, sia pure inconfrontabili con quelle fasciste dal 1921 in poi. Ma gli atti di intimidazione erano stati migliaia. Invece dopo la mancata rivoluzione proletaria o quantomeno svolta a sinistra, dopo anni di esagerata paura dei “rossi”, la destra dalla fine del 1920 passò al contrattacco, a lungo sottovalutata: vantaggio dei fenomeni nuovi quando emergano per la prima volta nella storia, Si pensava a uno strascico della violenza di guerra. Turati lo sosteneva ancora a metà del 1921, quando era ormai assurdo (Un messaggio di Filippo Turati ai contadini pugliesi, “Avanti!”, 4 maggio 1921, ora in: F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia, cit., pp. 425-426), benchè poco oltre si sarebbe ovviamente ricreduto. Ma il 18 dicembre 1924, quando c’era già stata da cinque mesi l’uscita a tempo indeterminato dei deputati antifascisti dalla Camera del 23 giugno 1924 per protesta contro il delitto Matteotti, detta “Aventino”, ed a pochi giorni dal preannuncio di una svolta autoritaria fatto da Mussolini il 3 gennaio 1925, Turati da Roma scriveva alla sua compagna Anna Kuliscioff che stava a Milano, il 18 dicembre 1924: “Sgombra dunque dall’animo le tue preoccupazioni e vieni anche tu all’Aventino, e ritroverai subito l’umore gaio” (in: F. Livorsi, Turati, cit., p. 417). Ma l’inconscio era inquieto, e infatti il 14 gennaio 1925 le scrive raccontandole un sogno concernente il loro antico amico fraterno, riformista e patriota, Leonida Bissolati, espulso dal PSI nel 1912, al congresso di Reggio Emilia, su proposta del Mussolini “rivoluzionario” con astensione di Turati e dei suoi compagni riformisti, e morto da quattro anni: “Stanotte conversai a lungo con Leonida, che teme un regime fascista per altri vent’anni, ma anche al mondo di là dev’esserci la nebbia (p. 420).” (A meno che non fosse proprio l’anima di Bissolati).

Sottolineo tali cose per dire che il non credere nel fascismo nel gennaio 1921, quando il vero squadrismo era appena cominciato, e persino un bel po’ dopo, non era così assurdo. È vero che Antonio Gramsci, nel famoso articolo Per un rinnovamento del Partito socialista comparso sull’”Ordine Nuovo” l’8 maggio 1920 aveva scritto, e quasi descritto, la “tremenda reazione”, e le forme stesse che avrebbe assunto, quando sicuramente non l’aveva capito neanche il capo di essa (e Lenin al congresso dell’Internazionale Comunista subito si identificò proprio con quell’articolo dell’”Ordine Nuovo”), ma era una vox clamans in deserto, che oltre a tutto non poneva affatto in alternativa soluzione democratico parlamentare e rivoluzione, ma rivoluzione e reazione: soluzione di estrema sinistra e soluzione di estrema destra. Il discorso sulla scissione del 1921 va visto in tale contesto.

A mio parere un corretto ragionamento storico e politologico in proposito deve saper tenere insieme tre corni del dilemma: la sognata rivoluzione, la governabilità del Paese e la scissione comunista. In caso diverso si rischia di non capire qualcosa di essenziale.

Nel servizio televisivo di Mauro non è stato minimamente usato il ricco archivio RAI che, in riferimento al punto di vista dei protagonisti, sarebbe stato una miniera (come si è visto parlando del lavoro di Zavoli). il solo storico comparso è stato Davide Bidussa, stimato e stimabile studioso del sionismo di formazione trockijsta che non si è mai occupato a fondo di tali cose. Stranamente i veri studiosi delle origini del PCI e di Gramsci stesso, da Aldo Agosti (Storia del Partito comunista italiano. 1921-1991, Laterza, 1999) a Massimo L. Salvadori (La sinistra nella storia d’Italia, Laterza, 1999), sino a Guido Liguori (Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti, 2012), non sono stati “disturbati”. Gli intervistati erano tutti politici, che come tutti i politici veri del mondo hanno sempre troppo presente il “qui e ora”. Così Bertinotti ha giustificato la nascita del comunismo italiano in riferimento esatto alla grande speranza della rivoluzione d’ottobre (e pure alla grandezza intellettuale di Gramsci: grandezza effettiva, ma che dovrebbe essere un poco calata “di cielo in terra a miracol mostrare”, perché richiamata genericamente non significa molto, o quasi niente). Altri come D’Alema e Bersani si sono mostrati più o meno dispiaciuti della scissione, pur sostenendo che poi il PCI avrebbe fatto esso il riformismo in Italia. Siccome Gramsci non intervenne a Livorno, lo si è rappresentato, da Mauro a Bersani, come discorde e appartato in un palchetto, e Bersani si è detto che anche lui avrebbe fatto così.

Le cose però sono state diverse, e una semplice lettura degli articoli di Gramsci subito prima e dopo la scissione sarebbe bastata a dimostrarlo in piena luce (Il Partito Comunista, “L’Ordine Nuovo”, n. 17, 9 ottobre 1920; Scissione o sfacelo?, ivi, n. 22, 18 dicembre 1920, in: “L’Ordine Nuovo. 1919-1920”, a cura di P. Spriano, Einaudi, 1963, pp. 592-606 e 616-618; Il congresso di Livorno, “L’ordine nuovo”, 13 gennaio 1921; Caporetto e Vittorio Veneto, ivi, 28 gennaio 1921, in: “Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922”, Einaudi, 1970, pp. 39-41 e 50-51) . Gramsci è stato, con Bordiga, o subito dopo di lui, il protagonista di quella scissione. Certo avrebbe voluto che a uscire fosse una maggioranza e non solo la minoranza del PSI, ma l’idea che non volesse quella scissione non stava in piedi. Bordiga e Gramsci l’avevano appena decisa insieme pure al convegno di Imola, erano i protagonisti, e Gramsci entrò nel primo Comitato Esecutivo. Tanto più che l’antimassimalismo di Gramsci era persino più netto di quello di Bordiga. Si rammaricava, piuttosto, per il fatto che i comunisti, non avendo operato tra le masse proletarie come a Torino dal 1919 in poi, ma essendosi invece solo aggregati in modo settario, non avessero saputo far breccia nel proletariato e “quindi” conquistare “loro” la maggioranza del PSI “al posto” dei massimalisti. Perché però non parlò a Livorno?

Ci sono diverse ragioni. Gramsci non era un oratore da grandi platee contrapposte. Non so neanche se prima di allora avesse mai fatto un comizio in una grande piazza, ad esempio di Torino. Una platea divisa e vasta come quella del XVII congresso del PSI a Livorno non era il suo pane. Ma poi c’era un’altra ragione. Allora per i socialisti il grande discrimine era l’atteggiamento avuto di fronte alla grande guerra. Gramsci non era mai uscito formalmente dal PSI, ma nel settembre 1914 era stato d’accordo col Mussolini filointerventista, tanto che quando questi scrisse, ancora da direttore dell’”Avanti!”, ma già prossimo a fondare il “Popolo d’Italia”, il famoso articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante (18 ottobre 1914) che avrebbe innescato la reazione della Sezione socialista di Milano che, su proposta del segretario del PSI, Costantino Lazzari, ne determinò l’espulsione (24 novembre 1914), Gramsci fece eco all’articolo di Mussolini sul “Grido del popolo” di Torino, con l’articolo Neutralità attiva ed operante (31 ottobre 1914). Poi Gramsci si ritirò dall’agone politico per due anni, ricomparendo tra il 1916 e il 1917, attratto dai movimenti di massa antagonistici degli operai, per il pane e non solo, del 1917, e poi dalla grande Rivoluzione d’ottobre.

Ma poi c’è un’altra ragione. La scissione di Livorno è stata opera dei due gruppi di “comunisti puri”: quello del “Soviet” (Bordiga) e quello dell’”Ordine Nuovo” (Gramsci). Ora nel congresso socialista di Livorno i due gruppi si divisero le parti. La parte del leone fu fatta proprio, con lunghissima relazione, da uno dei redattori dell’”Ordine Nuovo”, l’avvocato ventiseienne Umberto Terracini, che parlò per ore. Bordiga si riservò, tramite una grande orazione, il discorso di rottura conclusivo. Per capire tali cose bisognava almeno studiare il resoconto congressuale edito come sempre in libro nel 1921 e tra l’altro riproposto in volume, dalle Edizioni Avanti”, credo per iniziativa di Lelio Basso, nel 1962.

Ciò posto vediamo brevemente, ma cercando di tenere i tre fili insieme, i tre punti che ho detto centrali: rivoluzione “come la Russia” tra 1917 e 1922; governabilità del Paese e scissione. Sulla possibilità o meno di una rivoluzione proletaria europea nel primo dopoguerra sono stati versati fiumi d’inchiostro. C’è stato un tempo in cui tutti ci hanno creduto, me compreso. Ricordo il senso di stupore di Massimo Negarville, che era stato uno dei più stretti collaboratori di Adriano Sofri a “Lotta continua” e poi era entrato nel PCI quando, verso il 1987 o 1988 io gli dissi, in un viaggio in treno, che si poteva dubitarne. In effetti ciò è controverso. Non si può dare per scontata la possibilità di quello che non è accaduto. Bordiga ricordava quel tempo in cui l’aria stessa sembrava intrisa di rivoluzione, ancora negli anni Sessanta, nella seconda parte della Storia della sinistra comunista (1919-1920, Edizioni Il programma Comunista, Milano, 1972). Non è affatto così evidente. Ma certo i sommovimenti in tutta l’Europa tra l’autunno del 1917 e il 1921 furono tanti (taluni dicono sino al 1923 in Germania). Bordiga lì ricordava che durante il secondo congresso dell’Internazionale Comunista del 1920, cui partecipò dopo un fortunoso viaggio, al mattino erano esposte grandi carte geografiche in cui si seguivano i movimenti dell’armata rossa di Trockij, che voleva arrivare in Polonia (anche i bolscevichi cercavano la loro “Marengo”) perché forzare le cose a favore della rivoluzione in Polonia, come non riuscì, avrebbe innescato la rivoluzione in Germania, che era assai in subbuglio. Poi la rivoluzione europea non ci fu e persino l’occupazione delle fabbriche metallurgiche del settembre 1920 vista in Italia “col senno di poi” potrebbe essere stata l’inizio della fine. In conclusione si può benissimo sostenere che la rivoluzione proletaria, in Europa come in Italia, non ci sia stata perché non c’erano le ragioni per cui ci fosse. E va bene. Però non mi pare dubbio che quella speranza sia stata allora condivisa da decine di milioni di proletari europei, tra cui alcuni milioni di italiani. La mia convinzione oggi non è che fosse possibile una rivoluzione proletaria, ma che ci sia stata una minoranza sociale, non esigua come nel terrorismo di sinistra degli anni Settanta, ma con basi di massa, che ci credette e avrebbe voluto farla. Il “comunismo” era quantomeno espressione di questa minoranza sociale, non bastevole, ma non irrilevante: semmai con una sua forza, tanto che a parole la maggioranza del PSI, massimalista, seguitò a mantenere tali propositi sino all’autunno 1922. Solo che i fondatori del PCI erano quelli che ci credevano davvero.

Questo – prima ancora di portarci a concludere in materia di scissione – chiama in causa un altro problema storico decisivo, allora sottovalutatissimo da tutte le parti in lotta, specie in area “di sinistra” (dall’estrema alla moderata): quello dello “sbocco politico”. La mia idea è che il fascismo arrivò come risposta di destra a una grave crisi di governabilità del Paese durata mille giorni; e che fu idiota – vedendo le cose col senno di poi, il che però è troppo facile – non affrontare per tempo. In pratica dalla rotta di Caporetto del 24 ottobre – 19 novembre 1917 in poi sino all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920 l’Italia ebbe sempre – per così dire – la febbre a 40. Il PSI, partito di maggioranza relativa, avrebbe dovuto andare al governo, ma la grande maggioranza “massimalista” non lo voleva affatto e la minoranza neppure, avendo compreso che il grosso del mondo operaio e socialista avrebbe totalmente disapprovato. Poi c’era una sorta di principio del terzo escluso. I socialisti – rivoluzionari a parole – non potevano accettare le profferte di governo Turati-Giolitti, liberali-socialiste, che Nitti e poi Giolitti facevano; ma pure fare un governo tra i liberali, ormai in minoranza, e i popolari, secondo partito alla Camera (cento deputati), era difficile: per l’opposizione cieca di Sturzo verso Giolitti. Intanto la società era fuor di controllo, prima da sinistra (sino al settembre 1920) e poi da destra (squadrismo). Così di governo debole in governo debole si giunse a quello di Facta (di cui io scrissi un profilo biografico nel X volume di “Il Parlamento italiano”: CEI, Milano, 1988, pp. 345-361), che “nutriva fiducia” nei giorni della marcia su Roma, in cui lo si mandò a casa con un calcio nel sedere. Il fascismo fu il risultato chirurgico contro-rivoluzionario di una crisi di governabilità durata mille giorni, come anni fa ho provato a mostrare nel mio saggio Crisi di governabilità dello Stato liberale e avvento del fascismo. Note storiche e politologiche, in: Università di Catania – Facoltà di Scienze Politiche, “Studi in onore di Enzo Sciacca”, Giuffré, 2008, pp. 309-320).

Questo rimbalza alla fine sulla questione della scissione, ma si tratta di vedere la relazione con tali cose. Tardivamente Filippo Turati disse cose molto importanti in proposito, nell’esilio cui l’avvento della dittatura fascista lo aveva costretto nei suoi ultimi anni, dopo una fuga avventurosa per mare, da Savona alla Corsica, organizzata da Carlo Rosselli e Sandro Pertini nell’agosto 1927. Due anni prima della morte, nel 1930, intervenendo proprio sulla riunificazione tra socialisti massimalisti, ma ormai unitari, di Nenni, e riformisti, in Francia, in un discorso di cui è rimasta solo la sua scaletta dettagliata, notava: “Sì, io non sono dei fanatici della unità a qualsiasi costo, come scrivevo a Nenni (…). Intanto lo sviluppo del Partito è tutto una serie di scissioni, di scissioni feconde”, da quella con gli anarchici del 1892. La scissione del 1921 non la tratta neppure perché gli pare ovvia, tanto grandi erano le distanze tra fautori della rivoluzione o delle riforme. Poi passa alla scissione dell’ottobre 1922, in cui i massimalisti, da buoni amici, espulsero i socialisti che avevano finalmente accettato di farsi consultare dal re per risolvere l’ennesima crisi parlamentare, mentre ormai il fascismo era scatenato: rottura da cui sarebbe nato il Partito Socialista Unitario, di cui Matteotti fu il Segretario (e il Martire). “Ora – diceva Turati – poiché a quella scissione seguì subito il fascismo al potere il noto sofisma fece dire che fu essa la causa. Errore logico e storico. Fu invece tardiva e perciò inutile. L’ordine del giorno del gruppo, mettere la partecipazione al potere e quindi lo schiacciamento del fascismo, oggi difficile, ma allora facilissimo. Tutte le scissioni furono insufficienti. Un partito evoluzionista, attivo e coerente, non ci fu mai.” Poi affronta la questione dell’accesso al governo. “Ricusammo. La prima volta (Giolitti).” Alla fine del 1903, ma la cosa si ripetè nel 1911-12, cui pure potrebbe riferirsi. “Forse fu bene. Era captazione dell’individuo. Ma quando all’affacciarsi del fascismo Nitti ci desiderava e il re ci voleva, ricusare fu male. (…) Ma immaginate ciò che si sarebbe preteso in un momento in cui non si poteva far nulla, tranne la difesa dal fascismo. Nulla e moltissimo. Non la borsa, ma la vita. Ma chi credeva al trionfo del fascismo?” Dice addirittura che l’unità del PSI nel primo dopoguerra “fu disastrosa. Contribuì al trionfo del fascismo. (…) C’era l’unità e non c’era un partito.” (pubblicato da me col titolo: La riunificazione tra socialisti e socialdemocratici (1930), in: F. Turati, “Socialismo e riformismo nella storia d’Italia”, cit., pp. 532-541).

A questo punto tutti i termini della questione della scissione del 1921 mi paiono più chiari. Ma voglio fare ancora un’ultima annotazione. In linea generale io oggi sono contrario a tutte le scissioni dal 1947 a oggi. Su ciò ho raggiunto Pertini, sempre molto unitario, pur riconoscendo le ragioni importanti, le “circostanze attenuanti”, ad esempio agli antistalinisti del 1947, oppure a quelli che come me stesso vissero la fondazione vita e scioglimento del PSIUP dal 1964 al 1972, contro la divisione tra socialisti e comunisti, e nel clima che preparò “un Sessantotto”. Per non parlare delle recenti scissioni di Liberi e Uguali e di Italia Viva dal Partito Democratico (sbagliatissime). A me sembra che in materia di scissioni il “dare” sia sempre stato di gran lunga superiore all’”avere”, tanto per chi se ne andava che per chi “restava”. Chi se ne andava perdeva il ruolo per lo più “determinante” che aveva prima e chi restava veniva spinto proprio verso l’estrema direzione paventata da chi se ne andava. Tuttavia faccio eccezione per la scissione di Livorno del 1921 (e per la sua “coda”, che fu la rottura del 1922 tra massimalisti e riformisti). Infatti non è possibile far coesistere nello stesso partito chi voglia una rivoluzione armata e chi non la voglia affatto e anzi la paventi, a meno che non si tratti di tornei oratori, propagandistici, per il loggione. I comunisti del 1921 volevano la rivoluzione non nel giorno di san mai più, ma per gli anni successivi. Il tenere insieme chi vuole la rivoluzione e chi la ritiene impossibile e indesiderabile, tanto più in un’età di grande crisi, è un farsi del male a vicenda. Non solo, ma fu un fattore di disfatta perché finché comunisti e massimalisti stavano con i riformisti, e viceversa, potevano solo bloccarsi reciprocamente. Poi la crisi rivoluzionaria, dalla Germania al resto dell’Europa, non arrivò. E questo trasformò la rottura del Ventuno in scacco. Ma quella rottura pose pure le basi per un’azione continua, minoritaria, dei comunisti persino durante il fascismo (per quanto limitata, però mai interrotta), azione che poi diede consentì loro di dare un apporto fortissimo pure alla Resistenza e, più oltre, su quell’onda lunga, contribuì all’egemonia di un partito comunista-postcomunista, o socialcomunista (comunista socialdemocratizzato, di “doppia natura”), che pur con gravi limiti nella storia ha avuto un peso e un ruolo notevoli. Tutto alla fine finì male perché il PCI tardò troppo a rompere con i sovietici (cominciò timidamente a farlo solo nel 1982, quando il compromesso storico, per non parlare della per me ben più augurabile alternativa democratica e di sinistra erano già falliti), e perché non volle ridiventare socialista senza se e senza ma, esplicitamente, e con il moltissimo in tal senso già fatto dal 1944 in poi, neanche dopo il 1989). E così siamo arrivati al PD e a Zingaretti, con cui il “The end” di quel che residuava di tutto quel mondo è stato segnato. Sic transit gloria mundi.

di Franco Livorsi

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