Quando la Storia ti passa vicino e non te ne accorgi

Ettore Ciccotti, nato a Potenza nel 1863, è un personaggio importante della cultura e della politica italiane anche se ciò sfugge a molti di noi.

Avvocato e poi docente alla Libera Università di Milano (1898), a Messina (1901/1925) e alla facoltà di Magistero, a Roma, dal 1925, fu insigne studioso di economia e storia antica: un titolo fra tutti, “Vecchi e nuovi orizzonti della numismatica e funzione della moneta nel mondo antico”. Seguace di Teodoro Momsen (attraverso il suo maestro Ettore De Ruggiero), fervente meridionalista, sulla scia del conterraneo Giustino Fortunato, aderì al socialismo con un taglio vicino alle istanze dei braccianti del Sud.

Questa posizione lo portò gradualmente ad allontanarsi dal Partito Socialista, accusato di essere troppo orientato verso gli interessi degli operai del Nord. Andò esule in Svizzera, per sfuggire all’arresto, a causa del suo sostegno ai moti di Milano del ‘98, perdendo così la cattedra presso la Libera Università e vedendosi revocare la nomina appena acquisita in quella di Pavia. L’impegno socialista e lo spirito critico gli costarono una sorta di ostracismo: insegnò all’ateneo di Messina dal 1901 al 1925, pur avendo i   titoli per esercitare in università più prestigiose. Affascinato dall’irredentismo, si avvicinò al movimento fascista convinto della necessità di una breve dittatura per sanare i mali dell’Italia, aggravatisi dopo la Grande Guerra.

La nomina a senatore non lo rese più malleabile verso il regime fascista, che giunse a vietarne i funerali, dopo la sua morte, avvenuta nel 1939. La sua era una nota famiglia di tradizioni liberali e così quella della moglie, Ernestina D’Errico, linguista e fine traduttrice, ma per mia madre Angela, o meglio Lina, classe 1922, era solo il senatore, al massimo il padrone. Angela, Lina, perché non le piaceva Angelina, soprattutto pronunciato in dialetto potentino (Angiuledda). Quante volte mi raccontò le storie della sua infanzia e giovinezza a villa Ciccotti. Io l’ascoltavo con attenzione, anche se il suo modo di narrare spesso era poco organico, quasi onirico.

Diceva che la sua testa era così per via della malattia che aveva avuto. Durante l’infanzia aveva contratto una grave malattia reumatica che l’aveva condotta quasi alla morte. Raccontava spesso i momenti del passaggio dalla vita alla morte e viceversa e in particolare di un sogno. L’edema la stava uccidendo, si addormentò, o perse conoscenza, e sognò una processione di angeli che cantavano. Cercò di entrare nella fila, ma quelli l’allontanarono dicendole che non poteva stare lì con loro, doveva andare via.

La bimba si mise a piangere per il dispiacere, e piangendo si risvegliò, perdendo copiosamente sangue dal naso, talmente tanto da raccoglierne una bacinella. Era stordita, ma ricordava le urla di qualcuno che inneggiò alla “miglioria della morte”. Le persone attorno a lei mutarono il pianto di dolore in quello di gioia e applaudirono. Lina si riprese, ma ci volle molto tempo, quasi un anno, e comunque non si ristabilì mai completamente. Qualcuno le disse che forse era stata nell’aldilà per un attimo ed era tornata indietro. A lei questa cosa piaceva e continuò a dire per tutta la vita di essere stata miracolata, forse non aveva torto.

Ma che c’entrava Lina con il senatore Ettore Ciccotti? Il nonno materno, Pasquale, in passato era stato fattore della famiglia Ciccotti. Ma la figlia Anna, la madre di Lina, una volta andata in sposa, giovanissima, a Rocco, valente giardiniere, aveva seguito il marito là dove aveva preso la terra a mezzadria. Era la fine degli anni Venti, un periodo in cui gli agrari non scherzavano con braccianti e mezzadri, come davano il lavoro così lo toglievano.

Rocco era un uomo mite, praticamente senza vizi, ma era un po’ ingenuo.

Avvicinato da un conoscente (nonché concorrente) gli aveva confidato i buoni termini del suo contratto, magnificando inoltre la scarsa presenza e le poche pretese del proprietario del fondo. Il concorrente, cui non parve vero avere tali informazioni, corse subito dal padrone proponendogli un contratto più vantaggioso. Vantaggioso anche per lui, visto che non doveva fare grandi sforzi per raccogliere i frutti del lavoro di Rocco.

Questo dovette abbandonare quella terra in tempi brevi, portando con sé, oltre alla famiglia, tutto ciò che gli apparteneva, grano, frutta e sementi , stipati nel magazzino, arnesi ed animali. Dove sarebbero andati? C’era poco tempo per trovare un’altra sistemazione. Rocco era disperato. Lina ricordava il giorno in cui, tornando a casa, vi aveva trovato un grande scompiglio.

Il padre piangeva, si lamentava e, indicando di continuo una moneta d’oro sulla tavola, un marengo, 20 lire, gridava che era un decimo della buonuscita che gli spettava per l’impegno e la fatica spesi negli anni su quella terra, che aveva trovato abbandonata e lasciava rigogliosa. Anna ascoltava, visibilmente scossa, lei però era più forte e decisa del marito e non ci pensò due volte: prese lo scialle e, coprendosi il capo, uscì di casa come una furia, andando da chi sapeva che le avrebbe dato udienza e soddisfazione.

Il senatore Ciccotti era in villeggiatura a Potenza. Ricordava Anna bambina, quando il padre era al servizio della sua famiglia. Si rese disponibile ad aiutarla, ma il marito era un lavoratore? Era un uomo onesto? Non poteva certo assumere un poco di buono e magari anche sfaticato. Anna rispose di sì, che Rocco era onesto e un valido giardiniere, sapeva potare ed innestare le piante come pochi.

Ciccotti, poco fuori Potenza, disponeva di una proprietà e una villa annessa abbandonate da tempo. Se Rocco avesse ripreso a coltivare quella terra, prendendosi cura del grande giardino della casa signorile, il padrone avrebbe potuto anche tornare a villeggiare. I patti sarebbero stati di mezzadria, con la possibilità di disporre di una licenza di commercio ambulante per vendere il latte e gli ortaggi eccedenti. Anna accettò, ringraziando con le lacrime agli occhi, ma il padrone l’avvertì che il lavoro era tanto e forse le forze non sarebbero bastate. In caso di fallimento dell’impresa, comunque, in nome dell’antico rapporto di lavoro, non avrebbe reclamato alcunché. Non passò molto tempo che tutta la famiglia si trasferì nella nuova residenza, chiamata da tutti “villa Ciccotti”. Il lavoro fu lungo e faticoso, ma alla fine si videro i risultati: i campi ripresero a dare i loro frutti, il giardino tornò all’antica bellezza, con gli alberi potati a cupola, le siepi ben curate e le aiuole ricche di fiori.

La villa cominciò a perdere quell’alone di tristezza che la circondava ormai da troppo tempo. Tutto però doveva essere perfetto. Non ci doveva essere traccia di quel lavoro quotidiano che costava tanta fatica al mezzadro e alla sua famiglia. Il giardino doveva essere sempre curato. Il letame doveva essere collocato lontano, perché il cattivo odore non raggiungesse la villa. Quanta fatica a trasportarlo con la carriola in un luogo nascosto e sottovento. Nel periodo di villeggiatura dei proprietari, poi, attorno alla villa non dovevano giocare i bambini, non ci dovevano essere schiamazzi e i clienti che si recavano per acquistare il latte o gli ortaggi non dovevano passare per l’entrata principale. Rocco era un uomo molto buono, troppo, e ad ogni rimprovero dell’amministratore, anche piccolo, rimaneva mortificato. L’arrivo dei padroni era atteso con timore da tutti i membri della famiglia, esclusa Lina, che non vedeva l’ora di incontrarli.

Era felice anche perché la loro venuta era accompagnata dai doni per la famiglia del mezzadro. Per lei di solito si trattava di un taglio di stoffa; qualche volta di un paio di scarpe o di una borsetta. Era l’occasione per avere qualcosa di nuovo. Quanto ci teneva Lina e quanto era difficile avere qualcosa di nuovo in quel mondo contadino dove tutto dipendeva dalla buona o dalla cattiva annata. Con quanta vanità esibiva poi quel dono alle cugine e alle amiche, suscitando la loro comprensibile invidia.   L’arrivo dei padroni era anticipato da quello dello chauffeur con relativa automobile. Che emozione vederlo scendere dal veicolo, in uniforme e con atteggiamento quasi marziale.

Era la volta quindi della cuoca, una bolognese, vedova con prole, amante della buona cucina ma soprattutto del buon bere. Fra i suoi figli, Lina e i fratelli non correva buon sangue, dato che le marachelle di quelli erano quasi sempre coperte o giustificate. Finalmente, verso fine maggio, giungevano alla villa il senatore Ciccotti e la consorte, dopo aver trascorso i primi giorni del loro arrivo a Potenza, nel proprio appartamento in centro città, per ricevere i saluti di parenti e amici. All’arrivo in villa, quasi antico retaggio feudale, ricevevano l’omaggio della famiglia del mezzadro, che recava in dono un mazzo di fiori. Donna Ernestina contraccambiava con poche parole, mentre il senatore, con fare affabile, salutava tutti, ringraziandoli per l’attenzione e invitandoli a perseverare sulla strada del lavoro e dell’impegno.

Qualche giorno dopo ci sarebbe stato il momento della consegna dei doni, fatta dalla padrona con l’aiuto della dama di compagnia o della cuoca bolognese, che non gradiva più di tanto che si sprecasse stoffa per i “cafoni” (i contadini). La villeggiatura terminava agli inizi dell’autunno e fino ad allora era Lina a recarsi alla villa per incombenze e commissioni: portare un mazzo di fiori, consegnare le primizie di stagione, oppure piccole somme di denaro, provento della vendita degli ortaggi. Veniva incaricata la “piccola”, come la chiamava il senatore, perché non poteva svolgere lavori troppo pesanti nella masseria, a causa della grave malattia che l’aveva colpita in passato, e poi perché era la più adatta per il suo carattere. Era aperta, colloquiava volentieri con tutti e non provava alcuna soggezione quando era di fronte al senatore, che, dopo la commissione, la tratteneva per interrogarla sull’andamento dell’annata e su tutto ciò che riguardava la conduzione della proprietà.

E Lina rispondeva, senza paura, quasi con una punta di sfacciataggine, parlando della durezza della vita di campagna, delle cattive annate, dei patimenti e delle difficoltà di coloro che vivevano a villa Ciccotti. Il senatore l’ascoltava serio, dando consigli e facendo considerazioni.

Poi, terminata la conversazione, accompagnava la piccola verso casa. La bimba, durante il percorso, gli indicava piante e fiori, spiegandogli pregi e difetti. E lui l’ascoltava attentamente, come un nonno avrebbe fatto con la propria nipote. Quando erano in prossimità della masseria, Anna andava loro incontro, ringraziando il senatore per l’incomodo, mentre dei fratelli non c’era traccia, eclissatisi per la soggezione che incuteva loro la sola vista del padrone. Un ricordo di Lina, che in qualche modo ha modellato un aspetto della sua vita di moglie e madre dedita alla casa, è la frase che Ettore Ciccotti pronunciava spesso quando riceveva quelle modeste somme provento della vendita di pochi ortaggi. A volte erano proprio poche monete, ma l’economista, infilandole nel taschino del gilè, diceva che dal centesimo si passa alla lira e da questa si può arrivare al milione.

Il significato era chiaro: con il lavoro e il risparmio si raggiunge la solidità economica. Lina salutò il senatore per l’ultima volta verso l’autunno del ’38. Niente faceva presagire la sua fine. Morì all’improvviso a maggio del 1939. Stava finendo un’epoca. Era ormai una adolescente ed ebbe grande dispiacere alla notizia della sua morte. Ma ancor di più si dispiacque per il divieto di partecipare alla sua commemorazione imposto dalle autorità fasciste anche nella città natale. Della famiglia vi andò solo Rocco, certo che a lui i fascisti non avrebbero fatto niente perché era un mezzadro e aveva dei doveri verso i Ciccotti.

A volte, scherzando, dicevo a mia madre che lei era vissuta accanto alla Storia e non se ne era resa conto. Lei, sorridendo, mi rispondeva di no, perché sapeva che il senatore Ciccotti era un uomo importante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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