L’anello principale della catena sta in Ucraina

Quando lessi per la prima volta le “Opere scelte” di Lenin, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, una delle affermazioni che mi colpirono di più fu il punto del Che fare? (1902) in cui si sosteneva che “tutta l’arte dell’uomo politico” consisteva nell’”afferrare l’anello principale della catena” e nel “non lasciarselo più scappare di mano”. Ora, facendo tesoro di quell’antico insegnamento – importante anche a prescindere da Lenin – oggi ritengo che l’anello principale della catena sia “l’Ucraina”, così apparentemente lontana da noi. Quasi tutto il resto che ci appassiona, se non si taglia quel nodo, è velleitario. Le bollette del gas, il costo della benzina, il prezzo delle materie prime, i tassi di interesse in banca, il grande conflitto tra democrazia e autoritarismo nel mondo, la possibile esplosione di una guerra europea o persino mondiale, e perciò la sopravvivenza fisica di folle immense di persone dipendono in modo rilevante da quanto accade, o non accade, in quel Paese agli estremi confini dell’Europa (o meglio da come là “andrà a finire”).

Per molti è tutto molto semplice, e se ci fermiamo alla prima, anche corretta, approssimazione, da un certo punto di vista è semplice davvero. Il regime di Putin in Russia è classicamente fascista, ossia è un nazionalismo (A) autoritario (B) ed imperialista (C) con basi di massa in seno al suo popolo (D), pure supportato, per la tranquillità di tutti i benpensanti, dall’assolutizzazione dei valori di “Dio patria e famiglia” (E). Anche l’aggressività verso i paesi confinanti, per espandere il proprio Stato-Impero, può richiamare la politica di Hitler poi culminata nella Seconda guerra mondiale. In sostanza là c’è un assetto classicamente fascista, che per ironia della storia vede tra gli avversari principali, con l’elmetto della NATO classicamente calcato in testa, il Presidente del Consiglio più di destra della storia della Repubblica italiana.

La prevalenza di un regime del genere in Russia non mi stupisce minimamente. Da quando presi ad appassionarmi allo studio delle origini del comunismo contemporaneo – con miei articoli dapprima ingenui sull’”Idea socialista” dal 1962 in poi, e più oltre con vaste letture vuoi degli autori rivoluzionari che della storia delle rivoluzioni del Novecento, contrappuntate da molti miei saggi e libri dal 1971 in poi – mi persuasi che il grande scontro, nella Russia tra il 1917 e il 1922 e oltre, non fosse stato tra comunismo (presto autoritario) e democrazia, come da tanti creduto (ad esempio tra Lenin e Kerenskij), ma tra il comunismo e il fascismo (anche senza “la parola”, che notoriamente viene da Milano). I famosi generali bianchi con cui i bolscevichi ebbero un epico scontro, avevano un’ideologia fascista. Erano, infatti, panslavisti autoritari, spesso pure antisemiti, sostenuti da aree di massa comunque cospicue di popolazione (guardie “bianche” contro “guardie rosse”). Perciò quando crollò l’URSS temetti subito svolgimenti possibili del genere, mentre cari amici, in dibattiti all’Istituto Salvemini di Torino, pensavano che vedessi troppo nero, date le grandi risorse e la grande cultura di quel vasto Paese. Passati gli anni di grande crisi di quella potenza mondiale dalle profondissime e popolari tradizioni autocratiche, il fantasma tornò. Non dubito del fatto che Putin sia stato e sia una sorta di Mussolini russo. Adesso, per non andare a fondo, il “Mussolini russo” ha pure dovuto consegnarsi mani e piedi al suo Führer, in tal caso con bandiera rossa e occhi a mandorla: capolavoro politico degli americani. Il cinese ha totalmente sostituito, ora anche con storici accordi commerciali, i compratori europei di gas russo, e la Russia, per ora, ha dovuto fare buon viso a un vassallaggio evidente rispetto a quel grande alleato, che probabilmente essa non ama affatto (ma à la guerre comme à la guerre, è proprio il caso di dirlo; e più oltre, tra diversi anni, si vedrà).

Comunque qui, per ora mi premeva di dire che condivido l’analisi del “putinismo” come fascismo, e anche il rilievo sul fatto che quelli che non intendono stare senza se e senza ma con l’Ucraina aggredita dal solito orso russo, celano nel DNA politico una dose non trascurabile di antico antiamericanismo. Ma mentre sul fascismo di Putin e persino sul carattere fascista della sua guerra all’Ucraina per me “non ci piove”, “ci piove” abbastanza in materia di “antiamericanismo” e soprattutto di modi di interpretare e, più ancora far finire, questa guerra. Su ciò la valutazione ha da essere necessariamente più complessa, più articolata.

Mettiamo pure tra parentesi antiche “sciocchezzuole” degli americani e consorti come l’aver accettato nella NATO quasi tutti i paesi ex comunisti (e ora anche non tali, ma contigui con la Russia), invece di farne un’area neutrale cuscinetto, sino a pochi mesi fa di tipo svedese. Tralasciamo pure il fatto che l’avere una vasta coalizione militare di cui non si faccia parte, che dall’ex Germania Orientale si è estesa sino ai confini della Polonia con l’Ucraina, non era una cosettina facile da mandar giù per una grande potenza anche azzoppata come quella russa (se è vero che quando Kruscev nell’ottobre 1962 aveva cercato di installare missili a Cuba, Kennedy fece partire la sesta flotta, e il mondo fu sull’orlo della terza guerra mondiale). Non curiamoci neppure del fatto che il conflitto è con un Paese per secoli interno alla Russia, e da cui la Russia era persino nata (a Kiev), e in cui forse non esiste un solo libro importante scritto in ucraino prima del 1991. Accettiamo pure come un dato di fatto che l’Ucraina da tanto tempo, come minimo dal 1929, aveva dato molti segni di non voler essere russa (tanto da accogliere nel 1941, dapprima, i soldati di Hitler come liberatori). Minimizziamo pure le azioni antirusse verso zone russofone commesse dagli ucraini dopo il 1991 e soprattutto dopo il 2014. Infischiamocene pure del fatto che l’Occidente dal 2014, quando la Russia si era presa la Crimea, al 2022 aveva avuto otto anni per trattare sulle questioni controverse, e non l’aveva fatto; e neppure l’aveva fatto nei mesi in cui la Russia svolgeva minacciose esercitazioni militari ai confini dell’Ucraina. E, invece, concentriamoci solo su quattro attori tramite osservazioni minime su ciascuno: ucraini, russi, americani, cinesi ed europei (italiani compresi). Facciamo solo un piccolo ragionamento per ciascuno dei quattro attori. Che problemi ha ciascuno di essi in tutta questa faccenda? Come cerca di risolverli? Come potrebbe risolverli davvero?

Mi rendo conto che per andare a fondo su tali quesiti occorrerebbe uno studioso di geopolitica e di strategie militari più attrezzato di me, che mi muovo relativamente a mio agio solo su terreni contigui come il pensiero politico, la filosofia politica e la psicologia analitica della politica. Ma io esprimo solo opinioni che spero fondate, che altri potrà eventualmente recepire, rettificare o rifiutare. Come a ciascuno piace.

Partiamo dagli ucraini. Riconosco che hanno ragione più di tutti gli altri. Iniziamo da un piccolo richiamo, ora ripreso pure da Giorgia Meloni benché il testo in oggetto non fosse per nulla nazionalistico: il famoso discorso del 1882 di Ernest Renan in cui diceva che la nazione è un plebiscito in cui i cittadini tacitamente ogni giorno confermano di voler stare insieme (un poco come un matrimonio, che dura finché due persone svegliandosi al mattino decidono tacitamente che preferiscono “stare insieme”, come si dice oggi). Ebbene, ciò posto è indubbio che gli ucraini – con un fiume di sangue sparso negli ultimi quattrocento giorni e con l’accettazione di distruzioni immani – il plebiscito volto a stare insieme come Stato nazionale, indipendente e sovrano, l’hanno espresso, e il verdetto va riconosciuto da tutti. E si capisce pure che “loro” vogliano essere Stato nazionale sovrano tenendosi tutto quello che avevano ottenuto nel 1991, compresa la Crimea (per quanto ciò sia irrealistico) e compreso tutto il Donbass, incluse le zone totalmente russofone (su cui si vedrà). Ma noi dobbiamo appoggiarli e seguirli sino alla realizzazione di gran parte del loro ideale. Ma non possiamo farlo sino al punto di veder crollare l’economia (oltre a tutto mentre già crollano grandi banche in America e Svizzera, con sinistri scricchiolii di giornata per tutto l’Occidente), e magari a rischio di una guerra europea, se non addirittura di una terza guerra mondiale. Perciò, mentre aiutiamo doverosamente l’Ucraina a resistere, dovremmo pure cercare un punto di compromesso, che alla fine – segnatevela – lascerà necessariamente un po’ di amaro in bocca tanto ai russi quanto agli ucraini.

I russi, per parte loro, hanno le posizioni che hanno perché conoscono da sempre, o quasi, solo lo Stato-Impero: un’unione o “nazionale” o federale tra molti popoli uguali, con una nazionalità (russa) più uguale delle altre. Solo Lenin diede ai popoli dell’ex impero zarista il diritto di stare con lo Stato sovietico nascente o di separarsi, in una visione globale che “allora”, quando egli lo fece, mirava a spezzare lo Stato tradizionale e perciò credeva totalmente nel diritto all’autodecisione dei popoli. Se per quella via lo Stato tradizionale (lo Stato-macchina burocratico-militare, detto “borghese”, come in Stato e rivoluzione di Lenin nel 1917-1918) si fosse spezzato, non sarebbe stato un gran male per chi dello spezzare lo Stato “borghese”, in vista dello Stato sul modello della “Comune” di Parigi del 1871, aveva fatto un ideale, poi risultato alquanto utopistico. Ma è chiaro che Stalin, che pure nel 1912 aveva esordito come leader bolscevico nazionale con un saggio “sul diritto delle nazioni all’autodecisione”, dagli anni Trenta se avesse potuto riprendersi l’ex impero russo che si era staccato per colpa dei tedeschi e in misura notevole per distacco volontario di popoli consentito dal governo di Lenin, l’avrebbe fatto senza indugi, se non altro per ragioni difensive, come quando nel 1939 si accordò con la Germania nazista per l’ennesima spartizione della Polonia. Ma già aveva impegnato il suo Paese in una guerra per piegare di nuovo la Finlandia.

Quindi la costante storica, da Pietro il Grande a Putin, in area russa è chiara: a parte la breve parentesi di cui si è detto – espressamente o in modo mascherato da federalismo autoritario – quello “russo” è stato ed è uno Stato-impero unitario. E in quanto Stato-Impero è necessariamente autoritario, sia sotto lo zar o sotto il segretario di un partito comunista, oppure, come oggi, di un partito nazionalfascista.

Il senso storico di questa tacita opzione è il fatto che solo uno Stato autoritario – che si può fare appena come Stato “russo” – può tenere insieme tanti popoli diversi. Lo stesso problema ce l’ha la Cina.

Un livello di autonomia forte – dal governo – almeno del potere giudiziario e di libertà delle opinioni, che ci fu pure nell’assolutismo illuminato austriaco nel XVIII secolo e in quello di Federico il Grande in Prussia, è certo possibile e augurabile. Per noi lo è pure la liberal-democrazia vera e propria, ma – se questa arrivasse – mantenere l’unità del mega-stato sarà difficile (crollo dell’URSS “docet”). È vero che l’India c’è riuscita, ma dopo una lunghissima dominazione inglese e a prezzo di contraddizioni immani, tuttora drammaticamente presenti. Non accetterei di scommettere sull’unità dello Stato russo oppure cinese se smettessero “del tutto” di essere forti e centralizzati. Noi possiamo certo favorire ogni impulso verso la liberal-democrazia, ma questa tende sempre ad essere zoppa in aree in cui molti popoli vogliano e debbano stare sotto uno Stato comune.

Su ciò qualche breve considerazione di teoria politica non sarà fuori luogo. La prima considerazione riguarda quel che penso io sulla forma-Stato, per cui rinvio qui alla prima parte, sul primo titolo, del mio saggio “Il Rosso e il Verde” e “Psiche e eternità”. Una postfazione, pubblicato qui il 6 febbraio 2023. Per me lo Stato – che pure presuppone una mentalità collettiva storica da cui emerge quale si presenta – è il protagonista della Storia. Per far funzionare un’economia, per quanto possa essere liberista (e tanto più se sia economia “mista”), a monte ci vuole uno Stato solido; e per farla riprendere esso ha da funzionare (e già questo generalmente basta e avanza alla ripresa economica). Perciò condivido un punto chiave del pensiero degli assolutisti, e poi dei controrivoluzionari illiberali come liberali, da Bodin e Hobbes a Burke e oltre, consistente nel vedere il crollo di uno Stato, spesso a seguito di una disfatta militare, e talora di una rivoluzione interna, come una sciagura collettiva, ossia come temporaneo avvento di un’anomia in cui tutto si blocca, degenera e si imbarbarisce. (Un amico o nemico allora potrebbe dirmi: “Ma allora Lei è contro la Rivoluzione francese?”. E io risponderei: “Niente affatto, perché la Rivoluzione, come nel 1856 Tocqueville dimostrò in L’antico regime e la rivoluzione, fu non la negazione ma lo sviluppo razionale e moderno dello Stato anteriore). Perciò se fossi stato un russo nel 1991, e tanto più oggi, non mi sarei augurato, e non mi augurerei il crollo dello Stato, giocando al “tanto peggio, tanto meglio”; e se fossi un cinese, ugualmente. Lo Stato è sempre meglio “ripararlo”, aggiustarlo e modificarlo senza abbatterlo. A volte ci vuole una qualche dolorosa operazione chirurgica, chiamata guerra o rivoluzione, ma se si ammazza il malato (Stato), tutto è in pura e rovinosa perdita. Oltre a tutto – a rovescio del leninismo classico – “lo Stato si abbatte, ma non cambia”, o meglio cambia solo il genere e talora la forma del “governo”, ma non l’insieme dello Stato. Un tale “ammazzamento” dello Stato (il famoso “abbattimento”) a posteriori risulta sempre o la peggior rovina (come fu ad esempio per secoli il crollo dell’Impero romano d’occidente dopo il 476), o un inutile “omicidio” perché, dopo la disgregazione, sempre tragica, lo Stato tende sempre a riprendere, magari diversamente vestito o “travestito”, juxta propria principia, sulle sue profonde basi. La novità c’è, ma nella continuità. Quanti fiumi d’inchiostro sono stati versati da storici illustri sui nessi tra Italia liberale e Italia fascista, o tra Italia fascista e Italia democratico-repubblicana? La prevalenza nella Storia, tra periodi continui, della continuità sulla novità, che pure c’è (chi potrebbe oggi negare la grande svolta del 1946/1948 in Italia?), è in ogni campo una delle cose più impressionanti da scoprire quando si approfondiscano davvero le cose, in ogni ambito.

Sic est. Però se uno sia nemico del mega-stato russo o cinese dovrà, invece, augurarsi la disgregazione del mega-stato, o Stato di Stati, o Stato di molti popoli: nella “logica” – scoperta già da quei grandi politologi che erano stati gli antichi romani – sintetizzata nella formula “Divide et impera”. Così si capisce che la divisione (spezzamento) dello Stato, invece della sua rinascita, possa stare a cuore, per Russia o Cina, agli americani, mentre “grandi russi” e cinesi, a casa loro, logicamente la temono come la peste. Solo politici incoscienti, cui io ho detto subito il mio no, come quelli “di sinistra” che hanno modificato l’articolo 5 della nostra Costituzione, o che ora, sul versante “di destra”, mentre si riempiono la bocca di “Nazione”, stanno realizzando l’autonomia differenziata delle Regioni seguitando a picconare l’unità della nazione, possono trascurare tali cose. L’unità e indivisibilità dello Stato nazionale, fosse pure basato sull’autogoverno spinto dei lavoratori e cittadini, che debbono sempre essere uno per tutti e tutti per uno, è e ha da essere perennemente un valore forte (come “tutti” i nostri padri costituenti per fortuna sapevano). Alla fine si è sempre costretti a tornare a capirlo, in genere dopo aver fatto o subito danni devastanti.

Praticamente Putin, dopo la fine dell’impero sovietico e il vero e proprio spezzarsi dello Stato per anni dopo il 1991, ha incarnato la spinta alla restaurazione dello Stato-Impero, normale da quelle parti da secoli. In un’ottica del genere il riprendersi l’Ucraina o almeno il garantirsi ivi un governo più o meno vassallo, era un obiettivo storico. L’Ucraina non l’ha condiviso, e siccome ha dimostrato che pur di non essere succube è pronta a versare sangue a fiumi e a farsi distruggere le città per anni e anni, bisogna accettarlo.

Ma qualcosa, sulla base di tutta questa storia pregressa, dovrà pure andare alla Russia. A me sembra palmare che con questa guerra l’orso russo abbia messo incautamente la zampa nella tagliola. Si tratta di vedere se è meglio lasciare l’orso russo con la zampa nella tagliola e farlo morire un’altra volta come nel 1991, poiché “se l’è cercata”, oppure liberare la zampa e lasciare che lo zoppo viva: non per bontà verso la “bestia”, ma perché “finirlo” porterebbe un danno immensamente superiore al vantaggio. Poi toccherebbe magari alla Cina, e presto il mondo salterebbe per aria.

Poi ci sono gli americani, o meglio gli angloamericani (e qui, tanto più dopo la Brexit, viene in mente che il geniale politico conservatore de Gaulle non voleva considerare “europei” gli inglesi, mentre parlava di un’Europa, sia pure “delle patrie”, “dalla Francia agli Urali”). Gli angloamericani vanno apprezzati perché tutti i grandi dittatori oppure kaiser o duci li hanno sempre fermati loro, per così dire da Napoleone a Putin: certo per farsi pure gli affari loro, ma comunque sempre in contesti che portavano liberalismo e poi democrazia. E se in passato, al tempo della guerra del Vietnam o delle guerriglie di “Fidel” e del “Che” in America Latina, molti di noi sono stati antiamericani, e non solo antimperialisti, hanno fatto malissimo; e da tanti anni mi dispiace tanto aver letto da ventenne più il Manifesto del partito comunista del 1848 di Marx e Engels e le opere filosofiche e politiche giovanili e storiche di Marx (il Capitale lo lessi dopo) che La democrazia in America (1835/1840) di Tocqueville, che i nostri liberaldemocratici, o da sempre o comunque da tempo immemorabile, non traducevano, oltre a tutto in edizioni economiche e di massa tipo Biblioteca Universale Rizzoli o Biblioteca Moderna Mondadori cui allora attingevo. Lo fecero nel 1969 (quando il liberale Nicola Matteucci ne curò un’edizione per la UTET, non propriamente popolarissima).

Ciò posto, però, non possiamo neppure trasformare gli Stati Uniti, che pure nel campo della libertà hanno tanti meriti, in angioletti di nulla preoccupati se non della democrazia: dimenticando il trattamento riservato agli americani originari dalla “pelle di rame” (gli indiani) o ai neri (schiavi sino al 1865), e ancor oggi in maggioranza “marginali”, oppure all’America Latina, e pure dimenticando Hiroshima e Nagasaki credo io (e crediamo in molti). Sono passati solo vent’anni da quando scatenarono la seconda guerra contro l’Iraq di Saddàm Hussein, dicendo che aveva negli arsenali armi di distruzione di massa micidiali. Andarono a vedere gli ispettori dell’ONU e dissero che non c’erano, ma loro insistettero. Erano i primi tempi dell’Associazione Città Futura e io stesso m’interessai, credo già come presidente (o vicepresidente) facendo venire un famoso giornalista esperto di tali cose dell’”Espresso” che su ciò aveva scritto un libro, e poi un ex collega dell’Università di Torino di “Storia americana” (Giangiacomo Migone). Ci spiegarono che l’Iraq era a maggioranza sciita, con una fortissima componente sunnita, e che le aree religiose erano incrociate territorialmente, e che certo se fosse caduto Saddàm quel pentolone sarebbe esploso. Ne venne fuori una guerra con centomila morti finita con l’impiccagione, abbastanza barbarica, di Saddam Hussein, su cui qui scrissi pure un articolo (La morte annunciata di Saddàm Hussein, “Città Futura on line”, 31 dicembre 2006). Ne emerse pure lo Stato o pseudostato dell’Isis, e poi l’abbattimento delle torri gemelle. Quindi andiamoci cauti anche con l’americanismo, perché se è indubbiamente vero che gli americani sono stati democratici “prima” e “più” di tutti i popoli europei, non sono né santini né illuminati “con garanzia”.

Riconosco che almeno una parte delle ragioni per cui sostengono con tanto accanimento l’Ucraina invasa contro la Russia è un sincero sentimento democratico. Ma non siamo tanto ciechi da vedere che ci sono tante ragioni d’altro genere, che sarebbe assurdo non considerare. Ci sono due ragioni brutalmente realistiche nel sostegno a fondo dell’Ucraina contro la Russia da parte degli americani. La prima ragione è che a loro non sta per niente bene la rinascita di uno Stato-impero russo, compatto e nuclearizzato, nel gioco delle potenze mondiali. Ma non sta loro bene- seconda ragione brutalmente realistica – soprattutto perché la Russia rinata come Stato-impero russo è l’alleato principale e unico di consistenza internazionale della Cina. E deprivare la Cina dell’unica grande potenza alleata è darle un colpo durissimo.

La Cina, per parte sua, cerca di affermarsi soprattutto tramite l’economia (ma poi arriva sempre la politica, come una sorta di convitato di pietra o presenza quanto più possibile invisibile). Non a caso – come ci dice “Le Scienze” del 1° marzo 2023 – delle diecimila testate nucleari in giro per il mondo, solo quattrocento sono cinesi (per me a riprova del fatto che “giocano in difesa”). La Cina ha l’occhio lungo e non ha fretta. Ragiona su tempi storici lunghissimi, per gli altri persino difficili da comprendere. Lasciata fare diventa via via la prima potenza economica del mondo; poi arriva pure la politica che, anzi, è sempre operante, anche sott’acqua. La prima vera potenza mondiale, almeno dal 1945, gli Stati Uniti, tanto per ragioni di business che strategico-politico-militari teme ciò e vorrebbe impedirlo. Se non ci fossero le atomiche potrebbe persino giocare alla guerra, fermando il concorrente più temuto prima che diventi il più forte. Le atomiche lo impediscono, ma almeno si può giocare a far esplodere le contraddizioni interne della Cina, darle colpetti bassi, porle limiti protezionisti, e studiarsi di ridimensionarne il ruolo.

Solo che in politica internazionale la potenza americana commette errori su errori. Gli americani hanno gli uffici studi e gli studiosi più bravi del mondo in tutti i campi, ma poi i politici non li ascoltano. Ora non ascoltano neppure il loro vecchio Metternich a stelle e strisce, il quasi centenario Henry Kissinger, che fece pace con Mao nel 1971, e che non avrebbe voluto un impegno così forte in Ucraina. Recentemente, dopo anni e anni di guerra, l’America di Biden è persino riuscita a perdere la faccia facendosi cacciare via da un Paese semifeudale, islamico integralista, i cui capi dominano il mercato dell’eroina: l’Afghanistan. Mettendo in ginocchio l’incauto invasore russo dell’Ucraina, l’ottuagenario presidente americano Biden cerca pure di riprendersi la gloria perduta (e di farsi rieleggere alle prossime presidenziali).

In tutto questo io intravedo pure pericolosi scricchiolii del grande edificio dell’Impero mondiale americano. Potrebbe persino darsi che dopo il crollo dell’impero sovietico con Gorbaciov tra 1989 e 1991, ora siamo se non al crollo almeno alla grande crisi dell’Impero americano (l’altra metà del cielo). Il fenomeno Trump è stato, e forse resta, quasi un indizio di fascismo democratico nella patria della democrazia. Poi emerge il presidente più vecchio di tutta la storia americana, questo Biden “democratico”, un arzillo ottuagenario che crede di passare alla storia come il nuovo Roosevelt, e persino di essere rieletto a ottantaquattro anni, con l’allure dell’uomo che ha sconfitto la nuova autocrazia russa e tagliato pure le ali alla Cina. Ma è un gioco pericolosissimo.

Poi c’è la Cina, che ha problemi non piccoli. Per essa l’unità dello Stato è addirittura una specie di religione da tempo immemorabile, di cui ha fatto le spese persino il caro Tibet già buddhista. I cinesi hanno a cuore l’unità dello Stato-impero come la pupilla degli occhi. E infatti per loro tornare a riassorbire Taiwan è importantissimo, oltre che rilevante nel campo dell’elettronica. Ma se gli americani, per il solito “divide et impera”, potessero invece ottenere la scomposizione di quello Stato iperproduttivo, economicamente espansionista, di un miliardo e centododici milioni di persone, ne sarebbero felicissimi. Se ci fossero quattro o cinque Cine, il primato economico e politico militare americano sarebbe garantito.

Per questo la Cina punta soprattutto a salvaguardare l’unità del proprio immenso Stato-impero. Se lo imbarcasse in imprese militari più o meno spericolate, “alla russa” o “all’americana”, il rischio di frantumarlo sarebbe altissimo. Naturalmente neppure essa può sottrarsi alla lotta tra le grandi potenze nel mondo, che c’è sempre stata, e che un mondo sempre più piccolo, ossia sempre più interconnesso per la stessa evoluzione non solo dell’economia, ma pure della tecnologia e cultura, ha sempre più esasperato. Ma vorrebbe farlo soprattutto per via economica ed a piccoli passi, cercando non già di “fare la frittata” rompendo le sue uova, ma di evitarla, in fondo agendo come un grande punto d’equilibrio nel mondo e intanto sviluppando la propria presenza economica, ma sempre con un filo che arriva sino al vertice del loro Stato, dappertutto. Forse persino quando un loro concittadino apre un negozio e non ce la fa, c’è lo zampino del loro Stato (e tanto più se si tratti di vere imprese). La Cina non attizza fuochi. Non lo ha fatto neppure nella guerra russo-ucraina, che non ha condannato, ma neppure incoraggiato, e vorrebbe far finire. Non l’ha condannata perché la Russia è la sola grande potenza sua alleata (e possibilmente subordinata, come grazie alla cecità politica degli americani sta accadendo); ma l’ha incoraggiata a fermarsi, e ancora lo fa proponendo un piano di pace che, se gli americani fossero solo preoccupati per l’indipendenza dell’Ucraina, dovrebbero andare a vedere (e invece pare che preferiscano la lotta “degli ucraini” sino alla disfatta della Russia di Putin, da ottenere senza neanche dover sacrificare i loro boys). Nel cosiddetto piano di pace cinese si teorizza il diritto all’indipendenza e integrità di ogni Paese. È vero che gli americani e alleati temono lo scenario Corea, in cui le due Coree, fatto il “cessate il fuoco”, sono lì dal 1953 senza trattato di pace; ma nella storia ci sono pure tregue di mesi tra contendenti, di cui gli uni potrebbero approfittare, ma anche gli altri.

Infine c’è l’Europa (Italia compresa): Europa nel suo doppio aspetto di insieme di Stati nazionali ex potenti e di Unione Europea. L’Inghilterra cerca di riprendere il ruolo di grande potenza mettendosi al seguito della sorella America dopo essersi staccata dall’Unione Europea. La Francia è ammaccatissima, per ragioni sociali profonde, il cui detonatore è la lotta delle masse contro il passaggio dell’età pensionabile da sessantadue a sessantaquattro anni. La Germania vede al potere una coalizione di sinistra diretta da un novizio cancelliere, Olaf Scholz, dopo un lungo e sperimentato cancellierato democristiano di Angela Merkel. L’Unione Europea si schiera toto corde con l’Ucraina, ma non ha esercito né ministro degli esteri comune, e finisce di giocare di rimessa con l’America, accettando supinamente una sudditanza che ne dimostra l’irrilevanza. Invece l’Europa, vuoi come insieme di grandi paesi (a partire da Germania, Francia e Italia) e vuoi come Unione Europea, dovrebbe far essa, come Pechino, un piano di pace, e spingere i contendenti a trattare, usando i propri meccanismi di pressione (“Vuoi gli aiuti, cara sorella Ucraina? – Benissimo, fai almeno capire in modo forte e netto sino a dove potrai spingerti per la pace e come, o qualcosa del genere”).

Nelle recenti elezioni primarie del PD io, da indipendente, ho votato Bonaccini come Segretario, ritenendolo più pragmatico e idoneo; ma, come ho detto il giorno prima del voto, non avrei ritenuto “per nulla disdicevole” una vittoria eventuale di Elly Schlein (Alle primarie voterò Bonaccini, ma so già che non basterà, qui il 25 febbraio 2023), vittoria che poi c’è stata. Il PD per ora, anche sulla guerra, sta con la socialdemocrazia europea, tutta con “questa Ucraina”, cioè con gli Stati Uniti. Non segue la demagogia di Giuseppe Conte (ora leader di un M5S temporaneamente spostato a sinistra), che vorrebbe praticare il “pacifismo in un solo Paese” negando nuovi aiuti militari italiani all’Ucraina. Quello che propone Conte non si può fare ed è demagogia per gente dalla bocca buona. Ma l’Italia dovrebbe spingere l’Unione Europea a iniziative di pacificazione tra i contendenti (ad esempio a fare un piano di pace realistico da proporre ai belligeranti).

Leggo che Macron, per quanto ammaccatissimo in politica interna, come capo della Francia sta per andare a Pechino a parlare con quel governo, certo pure di Ucraina, e ha chiesto a Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, di essere della partita. Lei ha accettato e i due vi andranno in aprile. Eco una buona notizia. Facendo un po’ di fantapolitica, la Schlein dovrebbe non solo approvare con forza per conto e insieme al PD, ma chiedere che Macron e Ursula a Pechino vadano con il capo del governo italiano e tedesco, o con un mandato dell’Unione Europea, e che comunque l’Unione Europea elabori al pari della Cina, prima o dopo la visita a Pechino, un suo piano di pace per spingere con tutte le forze e mezzi i russi aggressori e gli ucraini aggrediti a sedere attorno a un tavolo di pace. Questa sarebbe una politica estera non servile né nei confronti dei neostalinisti di Mosca né dei guerrafondai di Washington. Sarebbe una politica da “buoni europei”. Ma ci sono ancora “buoni europei”?

di Franco Livorsi

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