Le guerre dei ricchi contro i poveri

La verità è la sedimentazione, il ristagno,
non la logorrea schifa dei dialettici.
(…) è beffa di scoliasti l’idea che tutto si muova,
l’idea che dopo un prima viene un dopo
fa acqua da tutte le parti. Salutiamo
gli inetti che non s’imbarcano. Si starà meglio
senza di loro, si starà anche peggio
ma si tirerà il fiato.
Eugenio Montale, La verità, Da Quaderno di quattro anni

Aizzate dal dilagare della disinformazione, le tante notizie false e tendenziose fatte circolare da coloro che antepongono il comune sentire alla ragionevolezza, mettono in discussione la pax-democratica. E, tuttavia, qualche (debole) segnale ci fa pensare che, quanto meno all’interno del pensiero economico più recente, l’ideologia neoliberista stia iniziando a declinare.[1]

Le manifestazioni violente al grido di “libertà, libertà!” alle quali si è assistito negli ultimi tempi nella maggior parte delle economie cosiddette “avanzate”, a partire dagli Stati Uniti, ma anche all’interno dei singoli paesi dell’Unione Europea, testimoniano come mezzo secolo di neoliberismo abbia fatto breccia anche nelle classi sociali meno fortunate. Viene da chiedersi: che fine ha fatto la lotta di classe?

Affermatasi nel corso degli anni ’70 del Novecento, l’ideologia neoliberista è divenuta dominante nel decennio successivo a seguito del premierato di Margareth Thatcher in Gran Bretagna (nel 1979) e della Presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti (1981), la candidatura del quale, come ben documenta Marco D’Eramo nel bel libro sulla guerra dei potenti contro i poveri,[2] sarebbe stata sostenuta da una fitta e finanziariamente ricca rete di think tanks. Infine, dopo essere stata fatta propria dalle tre importanti istituzioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della Banca Mondiale e del Tesoro americano, da cui l’appellativo del “Washington Consensus”, la dottrina economica neoliberista si è imposta anche nella maggior parte dei paesi occidentali.

Questa dottrina si basa sull’assioma secondo il quale l’economia, ridotta ad uno scambio di merci, è intesa come un insieme di mercati nei quali, in un contesto di libera concorrenza, le variazioni dei prezzi farebbero sì che la domanda e l’offerta di beni trovino quell’equilibrio che consentirà lo scambio. E tuttavia, in presenza di forme di mercato diverse dalla libera concorrenza, come nel caso di mercati duopolistici, oligopolistici, o monopolistici, il prezzo di equilibrio risulterà più elevato rispetto a quello che si sarebbe formato nella libera concorrenza e, contestualmente, darà luogo ad una minore quantità di merce messa a disposizione dei consumatori. In questo contesto l’intervento dello Stato dovrebbe limitarsi all’adozione di misure di “regolamentazione del mercato” volte a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla libera concorrenza. Inoltre, in presenza di “esternalità, beni pubblici o asimmetrie informative” tali misure potranno essere estese a porre rimedio ai cosiddetti “fallimenti del mercato”,[3] con l’intervento dello stato limitato a far sì che i consumatori possano usufruire di quei beni “che i privati non avrebbero scelto” di mettere a loro disposizione, mediante misure volte “a favore dell’efficienza del mercato, a garantire i diritti di proprietà e a controllare l’esecuzione dei contratti”. In estrema sintesi, l’ideologia neoliberista fa perno sulla libera scelta da parte di individui perfettamente razionali, intesi quali “proprietari e manager di sé stessi”,[4] che in un contesto di libera concorrenza mirano esclusivamente a massimizzare il proprio tornaconto.[5]

Questo modo di intendere la strategia dello stato minimale, scrive Marco D’Eramo, «non bastava più, bisognava convincere i fruitori dei servizi che i soldi delle tasse versati allo stato erano spesi male, sperperati, e che sarebbero stati spesi meglio se gestiti da privati (per esempio da fondazioni); convincerli cioè, secondo la formula di Reagan, che ‘lo stato non è la soluzione, è il problema’» (p. 39). E fu così che, allo scopo di vincere quella che Guglielmo Chiodi, nella sua recensione al libro di D’Eramo etichetta come la ‘guerra dei ricchi contro i poveri’, si rendeva «necessario attrezzare con cura l’intero sistema educativo, a cominciare dal sistema universitario, con docenti e programmi di sicura fede liberista» (p. 203). [6] Inoltre, mediante l’affermazione del ‘pensiero mercato-centrico’ si sarebbe potuto giungere alla «cancellazione totale dal loro paradigma della nozione di ‘classe’ e della connessa nozione di ‘conflitto’ e, di conseguenza, di qualsiasi significativa nozione di ‘sfruttamento’, di ‘solidarietà’, di ‘associazionismo’», in modo tale che «qualsiasi comunità [si sarebbe potuta intendere] semplicemente come aggregazione di ‘individui’, ciascuno caratterizzato unicamente dalla propria dotazione di risorse (…), con l’individuo ridotto a solo ‘capitale’, fonte, cioè, di produzione del proprio reddito» (p. 207).

Nella consapevolezza di quanto l’ideologia liberista sia riuscita a pervadere la nostra cultura, vale la pena di chiedersi quali siano i costi sociali che questa ideologia ha provocato. In un recente articolo, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres[7] fa un elenco delle tante minacce che, nonostante “molti dei leader mondiali del momento” riconoscano e concordino sulla necessità di fare qualcosa, fanno sì che “le differenze continuino a crescere”. Egli ne elenca alcune: «differenze nella distribuzione ingiusta e iniqua dei vaccini; in un sistema economico mondiale che svantaggia i poveri; nella risposta del tutto inadeguata alla crisi climatica; nella tecnologia digitale e nella scena mediatica, che traggono beneficio dalle divisioni; nel crescente malcontento e nei conflitti nel mondo. Se il mondo è dunque unanime sulla diagnosi di questi problemi comuni, perché poi è incapace di affrontarli in maniera efficace?». Bella domanda.

Sullo stesso tema, il Direttore Centrale dell’ISTAT Linda Laura Sabbadini, sottolinea la necessità di “sanare le sperequazioni sociali” che si sono venute a creare anche in Italia. «Esiste una resistenza culturale profonda nella cultura politica di questo Paese – sottolinea la Sabbadini – ad assumere le politiche sociali con pari dignità di quelle economiche». Le politiche sociali, infatti, «sono percepite come costi e non come investimenti in qualità della vita. (…) Pensate se si fosse veramente investito in infrastrutture sociali pubbliche, come servizi educativi per la prima infanzia oppure servizi territoriali di assistenza per anziani e disabili, servizi sanitari sul territorio, welfare di comunità, quanto ci saremmo arricchiti come Paese». [8]

Una possibile risposta alla domanda del Segretario Generale delle Nazioni, e alle questioni sollevate dal Direttore centrale dell’ISTAT, è che i costi sociali dell’ideologia neoliberista, suonano a conferma dell’espressione usata da Marco D’Eramo secondo la quale “i ricchi hanno vinto la guerra contro i poveri”.

In questi tristi giorni stiamo inoltre assistendo ad un’altra guerra scatenata “dai ricchi contro i poveri”, molto più cruenta di quella raccontata da Marco D’Eramo, e nella quale, come già nella prima Guerra Mondiale, sul fronte dell’Ucraina combattono “poveri contro poveri”, e sulla popolazione ucraina piovono bombe e missili che provocano distruzione e morte. E non è affatto detto che le conseguenze economiche sociali di questa orrenda guerra non accentuino anche quelle causate dalla guerra “vinta dai ricchi contro i poveri”, combattuta nei paesi occidentali con “le armi delle idee”.

di Bruno Soro

Alessandria, 26 marzo 2022

  1. Mi riferisco in particolare all’edizione italiana dei libri di importanti economisti quali D. Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, Torino 2018 e J-P. Fitoussi, La neolingua dell’economia. Ovvero come dire ad un malato che è in buona salute, Einaudi, Torino, 2019, ma anche di economisti italiani come F. Saraceno, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia, LUISS, Roma 2018, M. Gallegati, Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo, LUISS, Roma 2021 e il recentissimo, L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato, di Andrea Boitani, Laterza, Bari 2021.
  2. M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020. Figlio della scrittrice Luce d’Eramo (1925-2001), dopo la laurea in Fisica, Marco D’Eramo ha studiato Sociologia all’école Pratique des Hautes études di Parigi. Tornato in Italia ha lavorato per il mensile socialista Mondo Operaio e come giornalista a Paese Sera e poi per il Manifesto.
  3. “Si ha un’esternalità – cito dal libro di I. Lavanda e G. Rampa, Microeconomia. Scelte individuali e benessere sociale, Carocci Editore, Roma 2018, p. 234 – quando il comportamento di qualcuno influisce sul benessere degli altri in modo diretto e non attraverso variazioni dei prezzi di mercato”. Analogamente si è in presenza di beni pubblici, “quando la produzione o il consumo sono caratterizzati da esternalità [per cui] la quantità prodotta è diversa da quella socialmente ottima anche se il mercato è concorrenziale” (Ibidem, p. 245). Si ha poi informazione asimmetrica, nel caso in cui “i compratori o i venditori non hanno le medesime informazioni – come avviene ad esempio nel caso della vendita di auto usate – su ciò che comprano o vendono” (Ibidem p. 251).
  4. M. D’Eramo, citato, p. 39.
  5. Questa ideologia era stata già messa in discussione da John Maynard Keynes nel 1926 in uno scritto nel quale sottolineava che “…non è neppure vero che l’interesse particolare sia in genere illuminato: il più delle volte gli individui che agiscono in proprio per perseguire fini personali sono troppo ignoranti o troppo deboli perfino per conseguire questi loro fini”. J.M. Keynes, “La fine del «Laissez-faire”, in Esortazioni e profezie, Garzanti, Milano 1968.
  6. G. Chiodi, “Le idee sono armi”, Indiscipline – vol. 1 2021, pagine 201-210. Nella recensione al libro di D’Eramo, Guglielmo Chiodi sottolinea come l’enfatizzazione degli “aspetti positivi dell’economia di mercato” si sia avvalsa, tra l’altro, della strumentalizzazione, da parte degli agguerriti think tanks statunitensi, dell’intero “sistema educativo, a cominciare dal sistema universitario, con docenti e programmi di sicura fede liberista, fermamente convinti degli effetti benefici del libero mercato, della libera iniziativa, della proprietà privata e con forte aversione (rasentante quasi il disprezzo) nei confronti di qualsiasi intromissione da parte dello Stato nell’economia e, più in generale, nella vita privata dei cittadini” (203).
  7. A. Guterres, “Il mondo riconosce le crisi ma non è capace di affrontarle”, Corriere della Sera, giovedì 10 febbraio, p. 24.
  8. L. L. Sabbadini, “Tutti uguali saremo più forti”, Repubblica, 12 febbraio 2022, p. 26.

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