Le molte anime dei cinquestelle

Si sapeva che, prima o poi, nei Cinquestelle sarebbe emersa qualche crepa. È un partito con cinque anni di vita, e il suo enorme bacino elettorale proviene – necessariamente – da blocchi eterogenei. Fino alle ultime elezioni, centrodestra e centrosinistra in parti uguali. Dopo marzo, sono finiti a Di Maio buona parte degli scontenti del Pd. Quindi, statisticamente, ammonterebbe a una maggioranza di sinistra. Ma sarebbe una classificazione impropria. I votanti, al giorno d’oggi, se ne vanno anche perché cambiano idea. E, più in generale, l’appeal dei grillini è consistito proprio nell’autodichiararsi bipartisan e post-ideologici. Insomma, il collante principale degli elettori cinquestelle resta l’insoddisfazione verso coloro che erano al governo prima. Se, dunque, è improprio parlare di un’area pentastellata di sinistra, è vero che c’è una parte consistente di militanti cui la linea dura di Salvini – sugli immigrati e non solo – non sta bene.

Al momento, questa insoddisfazione è destinata a rimanere sotto traccia. La leadership al vertice è coesa, almeno fin tanto che regge il duopolio Casaleggio-Di Maio. E la stessa sortita di Fico rientra, probabilmente, in un legittimo gioco delle parti. Lo specchio di un pluralismo, inevitabile quanto salutare, in un partito di queste dimensioni. Altra cosa è cercare di capire se e quando questo dissenso potrà a crescere, fino a trasformarsi in potenziale linea di divisione interna. O addirittura, come frettolosamente già si comincia a dire, spaccatura. Dipenderà da tre fattori, e dal loro – eventuale – allineamento.

Il primo è la gestione del potere. Diversamente dalla Lega che con gli arcana imperii ha una lunga dimestichezza, i cinquestelle sono dei neofiti. E, quindi – come si è visto a Roma – costretti a districarsi tra due opzioni, entrambe ostiche. Fidarsi frettolosamente di tecnici e consiglieri che si offrono a piene mani. O provare a fare da soli, con tempi ed esiti estremamente incerti. Dal mix tra queste due opzioni risulterà se, nel giro di un anno, anche Di Maio potrà vantare una solida squadra di governo capace di incidere sui gangli ministeriali e il circuito lobbistico da cui dipende il successo di una policy. O se assisteremo a scivoloni, incidenti di percorso e scandali che mineranno la credibilità – e la fiducia – verso la nuova leadership.

Il secondo fronte riguarda il comportamento della Lega. Se Salvini continuerà a trattare Conte e Di Maio come due sparring partner, il cui compito principale è incassare i cazzotti che lui dispensa a reti – e Rete – unificate, difficilmente il triumvirato potrà reggere. Diventerà chiaro a tutti che il Capitano si sta preparando a andare all’incasso dei consensi che continuano a crescere. Mandando al voto, insieme alle europee, anche il Senato e la Camera. Che faranno Di Maio e Fico? Assisteranno all’ennesimo voltafaccia di Salvini, pronto a fare il pieno dei seggi rialleandosi con Berlusconi, per poi trovarsi con le mani libere e la scelta di fare il governo con chi più gli dovesse convenire? O cercheranno di contrattaccare, cercando di procurarsi anche loro un forno potenzialmente alternativo?

Molto dipenderà dalla sponda che troveranno – o non troveranno – nel Pd. È questo il tema che dovrebbe essere al centro dell’iter tormentatissimo con cui il Pd sta cercando di riemergere dal pantano in cui oggi si trova. Quale che sia la direzione intrapresa, è impensabile che si possa pensare di tornare al governo da soli. Come Zingaretti ha notato, il cosiddetto fronte repubblicano – al di là dei contenuti più o meno condivisibili – sarebbe condannato all’irrilevanza. L’unica strada per riconquistare un posto al centro del sistema politico, consiste nello sciogliere, in modo chiaro e trasparente, il nodo delle alleanze. Ma, conoscendo la frammentazione di ciò che resta di renziani e antirenziani, è improbabile che prendano di petto una questione così spinosa. Molto più facile è continuare a discettare in astratto su radici, valori, programmi. Facendo finta che con questi strumenti si possa tornare a conquistare l’elettorato, magari puntando sull’implosione dell’avversario. E continuando a rifiutarsi di confrontarsi con la realtà.

La realtà è che Lega e Cinquestelle hanno intercettato una domanda forte e diffusa di cambiamento. Con formule sbrigative e – alla lunga – forse fallimentari. Ma ogni interpretazione diversa di dove debba andare il paese, non può prescindere dalla rivoluzione elettorale in corso. E dal fatto che il Pd, da solo, non è in grado di fronteggiarla.

(“Il Mattino”, 2 luglio 2018.)

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