Le sale di spettacolo cittadine: i problemi sono molti, le opportunità davvero meno

Piovono notizie concordanti o contrastanti, ma spesso soprattutto incredibili. Se stampa e web dicono la verità (non c’è ragione di dubitarne a priori: nessuna voce dissonante), ci si gusti la seguente. Il sindaco di Fortunago sarebbe riuscito a portare a termine la realizzazione di un teatro-auditorium, che i media descrivono di sfarzo degna degli emirati arabi. Il fortunato paesino, borgo “tra i più belli d’Italia”, è in provincia di Pavia, alta Valle Staffora: tempo di raggiungimento auto da Voghera, città di immediato riferimento, 26 minuti per 22 km; dalla… meno vicina Varzi 28 minuti per 26 km. Da nativo di quelle parti, se pure non patentato, posso garantire che la raggiungibilità stradale nella stagione sfavorevole non dev’essere proprio scorrevole. Cito la territorialmente competente “Provincia Pavese” dello scorso 11 settembre: “400 abitanti (comprese le dodici frazioni), strade tortuose e dissestate per arrivarci, paesino dove le persone stanno più in casa che fuori e un solo ristorante. Un borgo dove ora una struttura faraonica da oltre 1500 posti, realizzata in dieci anni con una spesa di tre milioni e mezzo di euro, fa spalancare la bocca a molti per lo stupore, mentre in altri provoca invidia e malumore “. I legittimamente increduli, sulle orme di san Tommaso, potranno reperirne sul sito il connesso video, nel quale proprio il compiaciutissimo sindaco guida soddisfatto i visitatori dell’incredibile struttura e ne vanta la versatilità, guardandosi peraltro bene dal precisarne i possibili utenti…

Chiunque conosca anche solo intuitivamente la fatica necessaria, oggi, a riempire qualsivoglia sala di spettacolo, persino metropolitana (“il cinema sono tante poltrone che tutto le sere devo riempire”, celiava Hitchcock in tempi ben più aurei) non può che rimanere basito alla notizia. Chissà che ci faranno di tanto ben di Dio quelli di Fortunago, e che “attrattività” riusciranno ad esercitare su quanti non hanno la… fortuna di risiedervi.

La solita storia del pane e dei denti, in fondo. Caratteristiche non dissimili, mutato quel che c’è da mutare, presenta in fondo il “Dellepiane” di Tortona. Recentemente teatro, in tutti i sensi, con quanto resta del Comunale di Alessandria, di due agguerriti sopralluoghi della nuova assessora regionale alla Cultura, l’alessandrina Vittoria Poggio. Che finalmente la giunta regionale sia tornata a contare su di un componente mandrogno, era ora: che sia la persona giusta al posto giusto, si vedrà…. Ma del Comunale alessandrino, sul quale è tornata a dilungarsi una tantum, per questa concomitanza, la stampa locale negli ultimi giorni, mi sono definitivamente ripromesso di non parlare. Anche perché, da come stanno le cose, sarebbe assolutamente inutile, al di là delle eventuali amarezze e frustrazioni personali. Facciamo un discorso più generale, come si suol dire.

Partendo da una chiusura dolorosa quanto lucida: quella dell’attività cinematografica al Politeama Alessandrino. Una premessa doverosa: la città, se avesse un minimo senso della necessità di cultura e spettacolo, dovrebbe sostituire per gratitudine il monumento a Urbano Rattazzi della vicina Piazza della Libertà con un equivalente ritratto in piedi scultoreo di Paolo Pasquale. Che nonostante tutto continua a mettere a disposizione della città, con la sua bi/sala “Kristalli” di piazza Ceriana, un’intelligente e accurata programmazione insieme popolare (“Kubrick”) e qualitativa (“Kurosawa”), e lascia altrettanto utilizzabile, con l’Alessandrino devoluto a solo teatro, musica e altre proposte dal vivo, l’unica sala di spettacolo in qualche misura degna di questo nome di cui disponga attualmente la città. Garantendo altresì al benemerito Circolo “Adelio Ferrero” una finestra settimanale che i superstiti cinefili alessandrini, per fortuna, si ostinano contro tutto e tutti a continuare a frequentare. Il problema ormai, purtroppo, trascende la buona volontà degli organizzatori e dello stesso pubblico cittadino che peraltro, come ovunque, non fa certo più a pugni settimanalmente per occupare i posti a sedere disponibili. E’ il cinema in sé ad essere radicalmente cambiato e, dal punto di vista del fu-circuito commerciale territoriale a gestione privata o -raramente! – pubblica che fosse, svalutato fino all’impercettibilità. Il fascino del grande schermo e della sua insuperabilità, così a lungo e convintamente difeso da tanti di noi, ha purtroppo ormai vistosamente i giorni contati. La battaglia non è neppure più quella, assai sentita fino a qualche anno fa, delle piccole o medie sale urbane assediata dalle multisale periferiche. La loro progressiva scomparsa aveva appiedato, nelle rispettive città, anziani e adolescenti che non avrebbero mai sospettato che per “andare al cinema” il requisito indispensabile sarebbe divenuto, prima del possesso del biglietto d’ingresso, quello della patente di guida! Ma oggi questo conflitto è superato, perché ormai le stesse multisale stanno per essere virtualmente sotto attacco, e non mi sentirei più di scommettere sulla loro eternità e invincibilità, come fino a qualche anno fa avrei fatto, come chiunque. Facile prevederle destinate nel giro di non troppi anni, salvo che per i blockbuster di prammatica, a un drastico ridimensionamento, a colpi di Netflix e simili. Quando un regista della presa anche sul pubblico quale Cronenberg, in una recente uscita italiana, spiega che ormai gli piace di più guardarsi i film sul megaschermo a ottima risoluzione audiovisiva di casa piuttosto che in sala, c’è la prova che siamo ormai ben oltre la frutta e gli stessi pop corn, Per non parlare di tablet, telefonini e altre diavolerie dello pseudo cinema tascabile, sui cui “schermi” Lawrence d’Arabia e la pubblicità dei pomodori pelati diventano indistinguibili. Per non dire appunto di Netflix e degli altri canali di distribuzione domiciliare in streaming, compresa la possibilità, ormai estesa persino al digitale terrestre, di rivedere on demand quasi qualunque film in qualsiasi momento lo si decida. Il superamento radicale della coordinata spazio-tempo toglie alla sala cinematografica (ma ormai anche allo stesso apparecchio tv domestico tradizionale) quel minimo di residua autorevolezza che era loro in qualche misura ancora accordata. Purtroppo tra il Barbera del festival di Venezia che si è arreso a Netflix e il suo amico Frémaux che a Cannes per il momento si rifiuta di farlo, avrà sempre più ragione il primo (e io stesso, predicare > razzolare, digito questo pezzo tra un film e l’altro visti “on demand” sul pc, ahimè!).

Porto l’esempio dell’unica sala superstite della mia città d’origine, l’”Arlecchino”, proprietà della locale, storica SOMS, che dall’estate ha lanciato un crowdfunding per poter proseguire nella propria attività e dato luogo addirittura a una mini-stagione teatrale in corso al medesimo scopo. Premessa doverosa, a suo modo un tantino liberatoria: che nell’Italia di oggi stia almeno per il momento riuscendo già di suo a sopravvivere, dando continuità a una programmazione regolare, sebbene non a settimana piena, una sala cinematografica in una città di soli 40.000 abitanti è un autentico miracolo. Ormai sono purtroppo numerosissimi anche i capoluoghi di provincia, talora decisamente popolosi, che non dispongono più, in parecchi casi da anni, neppure di una sola analoga struttura.

Vero è poi che, per fortuna, ci sono anche segnali in controtendenza: qui da noi, Acqui, Ovada e Valenza sono riuscite a ridarsi sale a regolare programmazione di recente, dopo anni di digiuno; clamorosa e fortunata l’intelligente riapertura del “Moderno” a Novi, mutato in accogliente bi/sala e dislocati a pochi metri dal Teatro “Marenco” finalmente a sua volta in attesa e sospiratissima riapertura, supportato fin che ha potuto dalla vecchia gloriosa struttura del Circolo già “Italsider”. E questo può far bene sperare, perché in fondo, a ben guardare, le città capozona riescono, come tendenza generale, a resistere meglio dei rispettivi capoluoghi di provincia: Pavia dispone ormai incredibilmente di una sola sala, passata oculatamente sotto la gestione dello stesso “Fraschini. Di Alessandria si è già detto e dato.

Voghera, come Novi, sta finalmente accingendosi a riaprire il proprio, originariamente assai bello, Teatro “Sociale” (1842-45). Se tutto va bene, nonostante problemi e imprevisti, nel 2020 dovrebbe tornare accessibile al pubblico dopo numerosi decenni, esattamente come il “Marenco” novese. Avendo trascorso decenni nell’uno e poi nell’altro territorio, di entrambe le operazioni sentivo parlare da tempo immemorabile. A proposito del “Sociale”, sono rimasto, sinceramente, assai colpito e sorpreso dall’intervista rilasciata in agosto a “Periodico News” (un mensile gratuito proprio -sempre lì si torna, come nell’infanzia…- della Valle Staffora) da Andrea Dondi, “grande esperto di teatri e spettacoli, impegnato da più di trent’anni; grande professionista del management dei beni culturali e dentro la macchina organizzativa di stagioni e concerti in tutto il mondo” (così almeno lo presentava l’articolista, e fa piacere apprenderlo da lui perché la stessa rete, dove l’articolo è tuttora leggibile, pare al riguardo avara di lumi…). Secondo lui, in buona sostanza -rimandando appunto on line chi interessato ai dettagli- il Comune di Voghera avrebbe commesso un errore fin dall’inizio incaponendosi, sia pure… attraverso amministrazioni in questo unanimi e generazioni in questo pazienti, a recuperare in funzionalità il minuscolo capolavoro degli architetto Moraglia e Dell’Isola: “Troppo piccolo per le grandi stagioni di prosa nazionali, capaci di coprire i costi di gestione, ma anche inadatto a ospitare grandi ensemble internazionali di lirico-sinfonica o spettacoli d’opera d’alto livello, per via delle dimensioni del palco e di spazi troppo ridotti per gli orchestrali nel golfo mistico. […] 340 posti, dei quali solo 154 in platea e gli altri ripartiti nei tre ordini. Con questi numeri o si fanno stagioni più costose di almeno il 35% di quelle dei teatri di Milano oppure non si sta in piedi”. Sarà: ma viene da chiedersi allora, ad esempio, come faccia da noi “Piemonte dal Vivo” (certo lavorando su contrattualità regionali di tournée e sul relativo abbattimento costi), sulla base anche del recente impulso accordatogli dalla nostra compianta Anna Tripodi, conformemente alla lezione del grande pioniere di decentramento, l’altrettanto nostro Giorgio Guazzotti, a garantire fior di stagioni di dignità nazionale a località e teatri anche più piccoli di Voghera e del Sociale. O come riesca la Regione Marche a nutrire di fior di prosa, lirica, sinfonica e cameristica un’incredibile rete di deliziosi teatrini, sempre assai frequentati, in una ragnatela infinita di piccoli quanto orgogliosi centri storici, spesso collinari, rispetto ai quali viviamo in quasi-metropoli.

Se avessero premesso il medesimo ragionamento, ad esempio, le amministrazioni competenti di Broni, Stradella, Tortona, Acqui, Ovada, Casale, Valenza e ora, come s’è detto, anche Novi Ligure, per limitarci all’area più strettamente confinante e a un quadro statistico-demografico rapportabile a quello di Voghera (lasciando fuori i capoluoghi), vivremmo da anni e anni in un deserto-che-non-vive quanto a fruizione di spettacoli dal vivo: per fortuna la realtà concreta è esattamente contraria.

Ma poi, soprattutto, parliamoci chiaro (e il discorso vale tanto per il Sociale che per lo stesso Arlecchino): il vero autore di questi possibili salvataggi, riaperture e rilanci è il pubblico! Se i vogheresi ritrovassero l’esigenza profonda e, perché no, l’orgoglio campanilistico di riavere finalmente il proprio teatro con un cartellone attraente (come è successo e sta succedendo a Casale, Tortona e Valenza) l’operazione potrà rivelarsi sostenibile e felice. Se invece riterranno in prevalenza che la propria esistenza sia in grado di procedere tranquilla nonostante, o addirittura non si accorgeranno del problema (come è tuttora il caso, di fatto, di Alessandria) si potrà tornare -anzi: continuare!- a farne a meno. In fondo là è accaduto in maniera indolore per parecchi decenni, no? E qui da noi stiamo andando verso il primo decennio di chiusura, e tutto tace riguardo a un problema che, come quello della Cittadella, appare oggettivamente troppo pesante rispetto alle attuali risorse economiche, ma soprattutto politico-culturali, morali e psicologiche della città.

Nuccio Lodato

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