Le tre sfide dei Cinquestelle

Dopo le prime, prevedibili scaramucce verbali al calor bianco nel dibattito parlamentare, stiamo passando – finalmente – ai fatti. Cioè alle prese di posizione puntuali, sui grandi temi che il nuovo governo si trova ad affrontare. E sui quali verrà messa alla prova la capacità di tenere insieme i – cosiddetti – due populismi. Che in comune, fino alle elezioni, avevano molto poco. E che continuano ad essere diversi su almeno tre fronti. Cruciali.

Il primo, di cui si parla più spesso, è il vecchio cleavage ideologico, la spaccatura tra destra e sinistra. È su questa che fanno leva coloro che sperano che salti l’alleanza tra un partito schierato apertamente – e duramente – a destra come la Lega di Salvini, e il movimento pentastellato che ha ripetutamente ribadito di non stare né di qua né di la. Questo però, viene fatto notare, vale soprattutto per la leadership, che ha puntato molte sue carte sul superamento delle antiche diatribe culturali e valoriali. Presentandosi dichiaratamente come partito post-ideologico. Per la base, è un altro discorso. Molti militanti non hanno alcuna intenzione di mischiarsi alle posizioni xenofobe espresse, anche recentemente, da Salvini. Ed è un sentimento diffuso in ampia parte dell’elettorato, soprattutto quello arrivato più recentemente a ingrossare le fila dei Cinquestelle. Quasi tutti profughi del centrosinistra, e quindi desiderosi che il cambiamento ci sia, ma non a spese – brutalmente – dei più deboli e degli immigrati.

Il secondo fronte che divide i due partiti al governo riguarda l’organizzazione interna. Al momento, è quello meno visibile. Ma alla lunga, si farà molto sentire. La Lega ha un retroterra solidissimo, di amministratori locali abituati alla gestione corrente quotidiana. E temprati da vent’anni di – quasi – isolamento nazionale. Conquistarsi il controllo di questo ultimo partito territoriale della grande tradizione italiana non è stata, per Matteo Salvini, impresa facile. Se lo è scalato pezzo a pezzo, contro competitor potenti. Oggi, anche in Parlamento, può contare su un esercito ben collaudato di professionisti politici. Dal canto loro, i Cinquestelle, sono un laboratorio inedito, nato dalla geniale intuizione di Casaleggio senior, e cresciuti tumultuosamente fino ai vertici della cosa pubblica. Chi sono veramente – al di là dei volti più noti – non lo sanno veramente neanche loro. Il fatto di poter disporre di una solida disciplina basata sulla gestione telematica dei principali flussi informativi ha garantito loro, fino ad oggi, una buona coesione. Ma, per quanto efficiente e blindatissimo, il server non sarà sufficiente a controllare le pulsioni fortissime che si sprigioneranno in questi giorni in migliaia e migliaia di quadri alle prese, per la prima volta, con le sirene e le trappole del potere. È una sfida organizzativa titanica, in cui sarà indispensabile molta freddezza e, insieme, molta lungimiranza.

Tanto più che buona parte della sfida si giocherà nel Mezzogiorno. È qui che Di Maio e Fico hanno fatto il pieno dei consensi. È qui che le aspettative sono, ovviamente, più alte. Ed è sempre qui che tutto – notoriamente – è sempre maledettamente più difficile. La partita del reddito di cittadinanza è la prima, ma non necessariamente la più ardua. In tutti i confronti europei, l’Italia ha ritardi gravissimi nell’assistenza alle fasce più deboli, in primis giovani e disoccupati, che sono concentrati al Sud. Alcune misure – integrative e migliorative di quel poco che c’è – arriveranno, anche se con la inevitabile gradualità. E su un’altra partita impegnativa, quella delle infrastrutture, la leadership pentastellata già mostra di volersi muovere con equilibrio e concretezza. Provando a fare tesoro – senza dirlo – del lascito positivo che il lavoro certosino di Delrio ha messo in campo in questi anni. Dove, invece, la sfida al Sud sarà tostissima è nel far crescere una nuova leva di dirigenti.

Tra i fallimenti della sinistra renziana, questo è stato il più clamoroso. L’ascesa di Renzi è coincisa con la rottamazione dei capi. Ma si è fermata a Roma, ai vertici. In periferia, non ha toccato palla. Non si è visto nascere niente di ciò che la Leopolda prometteva. Né umanamente, né culturalmente. Né, tanto meno, organizzativamente. E al Sud, dove le condizioni sociali restano drammatiche, questo scollamento plateale tra la narrazione e la realtà è suonato come una beffa. E la risposta è stato l’esodo massiccio degli elettori verso i Cinquestelle. Che si ritrovano con lo stesso problema. Il loro messaggio innovativo è stato confezionato – e abilmente propagandato – al centro. Grazie al duo Casaleggio Grillo, al loro fuoco comunicativo televisivo ed informatico. Ed, oggi, anche grazie all’accoppiata dei dioscuri populisteggianti, che hanno mostrato di avere doti preziosissime sulla scena della politica spettacolo. Ma quanto e come questa immagine da grande fratello si concili con le esigenze della politica quotidiana, nelle infinite e disgraziate periferie del paese, rimane una sfida aperta.

Al Sud, ancora più difficile perché le incrostazioni del vecchio sono durissime a morire. E ci vorrà molto olio di gomito e un certosino lavoro di selezione e formazione di una nuova classe dirigente, per provare a affrontare questa sfida senza uscirne travolti. I cinquestelle hanno dalla loro l’entusiasmo dei neofiti, e anche la baldanza che deriva dalla iniziale ignoranza della tremenda complessità dei compiti che li attendono. Giorno dopo giorno. Trattativa dopo trattativa. Delibera dopo delibera. Codicillo dopo codicillo. Prima se ne renderanno conto, più chance avranno di non venire travolti dalla corazzata leghista.

(Il Mattino”, 11 giugno 2018)

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