Le tregue dalla morte sono sempre troppo brevi.

Il Nobel a Louise Gluck

Non è la prima volta che l’assegnazione del premio Nobel per la Poesia fa esclamare – come fu per la Szymborska – “chi è costei? “.

Louise Gluck è una poetessa statunitens, nata nel 1947, che aveva già vinto un Pulitzer e ora nella motivazione del premio si citano la chiarezza, la severità e il desiderio di essere universale.  Quel poco che conosco di lei risuona in me, uno sforzo di raccontare l’io e la natura nella maniera più precisa possibile. Con un vissuto di anoressia, c’è nella sua poesia ricerca di senso della forma, una mano da chirurgo che sa sezionare le invisibilità del nostro essere umani. Se non sbaglio c’è solo un libro tradotto in italiano Averno: il tema è mitologico e nella mitologia troppo spesso l’estate finisce sempre troppo presto, e le tregue dalla morte sono sempre troppo brevi.

Mi trovo spesso a guardare i volti delle poetesse, le pieghe intorno alle labbra, l’incertezza di un sorriso, ma soprattutto mi attirano gli occhi – specchio dell’anima si dice –

e non ho certo una statistica su quel che ci trovo.

Spesso il loro sguardo è come perduto nel vuoto, una lontananza percepita e in ascolto di qualcosa che ancora non ha nome ma che vorrebbe trovarlo quel nome, e in quell’ascolto c’è tutta la tensione – come un arciere pronto a lanciare la freccia – di mirare dritto al cuore.  E sono i corpi il centro del tiro della Poesia, corpi che si misurano col tempo, corpi che tentano di nascondere lo spavento dell’avventura quotidiana, corpi che desiderano l’altro per perdersi in un oltre impossibile, corpi che si trafiggono

e si travestano da eroi, da martiri, da viaggiatori senza bussola. Che cosa sia la Poesia non si sa, ognuno può dire la sua finchè ognuno di noi ha un corpo per dirlo e un’anima per sentirne la voce , ma è sul corpo che la sua foglia s’aggrappa e s’insinua nelle crepe dei nostri muri di carne, spacca qualche piega inesplorata, arde nelle viscere e sconquassa il cuore.  La Poesia si fa ruggente mano a mano che il nostro tempo decresce e il nostro corpo s’accascia al suolo per divenire polvere.

Niente è più universale di questo.

 

Corpo mio, ora che non viaggeremo più molto a lungo insieme
comincio a provare una nuova tenerezza verso di te, molto cruda e inconsueta,
come i ricordi che ho dell’amore quand’ero giovane –

l’amore che era così spesso sciocco nei suoi intenti
ma mai nelle sue scelte, nelle sue intensità.
Troppo chiedere in anticipo, troppo che non poteva essere promesso –

La mia anima è stata così paurosa, così violenta:
perdona la sua brutalità.
Come fosse quell’anima, la mia mano si muove cauta sopra di te,

non volendo recare offesa
ma impaziente, finalmente, di raggiungere l’espressione come sostanza:

non è la terra che mi mancherà,
sei tu che mi mancherai.

«L’occhio si abitua alle sparizioni. / Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato. // Un vento è venuto e passato, smontando la mente; / ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. // Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione / a ciò che ami; / la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. // Maestoso, doloroso: // Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. / Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine / credendo ancora in qualcosa». Niente, credo, è più universale di questo.

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