L’Elefante e la Formica

“Una separazione caotica all’interno dell’Eurozona provocherebbe un danno irreparabile al progetto di integrazione, che è stato il pilastro della stabilità politica dell’Europa a partire dalla seconda guerra mondiale. Destabilizzerebbe non soltanto la periferia europea già pesantemente indebitata, ma anche nazioni centrali come la Francia e la Germania, le principali artefici di questo progetto.

Lo scenario più terrificante sarebbe la vittoria dell’estremismo politico, sul modello di quanto accaduto negli anni Trenta del Novecento. Fascismo, nazismo e comunismo furono il frutto di una reazione alla globalizzazione che aveva iniziato a manifestarsi già dalla fine del XVIII Secolo, e che si nutriva delle ansie di quei gruppi che si sentivano penalizzati e minacciati dalle forze di mercato in espansione e dalle élite cosmopolite.”

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, Torino 2018.

Bene. Allora diciamola tutta per davvero. Sul quotidiano La Stampa di sabato 23 marzo, leggo che, rivolgendosi alla Formica, l’Elefante avrebbe pronunciato le seguenti parole: “La torta è grande, mangiamola insieme”. La torta da spartire, ovviamente è quella del commercio internazionale, una torta che da quando la moneta ha sostituito il baratto (tu mi dai il tuo cavallo ed io ti do cento sacchi di grano, salvo il fatto che se mi privo del cavallo, difficilmente riuscirò ancora a produrre tanti sacchi di grano) pone agli economisti problemi tuttora insoluti, come quello della distribuzione del reddito che consegue dall’attività economica.

L’origine delle lotte di classe scatenate dalla prima Rivoluzione Industriale, quella basata sul “telaio meccanico”, hanno costituito l’oggetto dell’attenzione degli studi degli economisti classici, da David Ricardo (1772-1823) a Karl Marx (1818-1883), i quali hanno elaborato una «Teoria del valore», basata sull’ipotesi che il “valore” delle merci derivasse dal lavoro in esse contenuto, un “valore” che si forma al momento della produzione (mediante l’uso delle macchine) e che si concretizza nel loro “prezzo” al momento dello scambio, unitamente al profitto, inteso quale appropriazione di una parte del valore (sfruttamento) da parte dei proprietari del capitale. Una teoria che ha dato vita alla tanto bistrattata «Teoria dello sfruttamento capitalistico» – con la sua coda di politicizzazione da parte della dottrina marxista -, la quale ipotizza l’esistenza di un (inevitabile) conflitto all’interno del processo produttivo al momento della distribuzione del reddito. Si pensava che l’annoso problema della trasformazione del valore nei prezzi, affrontato prima da Ricardo e poi lasciato irrisolto da Marx, fosse stato definitivamente risolto da Piero Sraffa (1898-1983) nel suo Produzione di merci a mezzo di merci (edito da Einaudi, Torino 1962) con la sua (analiticamente convincente) spiegazione dell’inevitabilità del conflitto tra saggio del salario e saggio del profitto, un’ipotesi da sempre avversata dagli economisti cosiddetti “neoclassici”.

Con l’avvento della rivoluzione dell’«Industria 4.0»[1] e della cosiddetta «Economia della condivisione»[2], ha ancora senso porsi oggi domande di questo tipo quando il valore di borsa delle grandi imprese tecnologiche che non possiedono beni, ma solo algoritmi e software, è di molto superiore a quello delle corrispondenti imprese tradizionali di servizi che possiedono beni? Oggi quando l’Elefante incontra la Formica e gli prospetta una “torta da mangiare assieme”, lo fa in ottemperanza della «Teoria (Marxista? Socialista?) del win win», in base alla quale, con la globalizzazione selvaggia, tutti ci guadagnano, sia l’Elefante che la Formica. Stanno davvero così le cose? Dubito.

L’ONU si è riproposto di “eradicare la povertà estrema” entro il 2030. A partire dai primi anni ’90 del Novecento, la povertà estrema, quella di coloro (uomini, non formiche) che riescono a sopravvivere con meno di 1,9 dollari al giorno, si è fortemente ridotta (tranne che nell’Africa Sub-Sahariana e nell’Asia del Sud), da poco meno di 2 miliardi del 1990 ai circa 736 milioni nel 2015. Il successo maggiore nella lotta alla povertà estrema l’ha ottenuto sicuramente l’Elefante che ha visto crollare la percentuale della sua popolazione sotto la linea della povertà estrema dal 66% del 1990 allo 0,7% nel 2015 (dati Banca Mondiale, Report on Poverty, 2017). Ciò significa che siccome la sua popolazione, stimata nel 2016 in poco meno di 1,4 miliardi, ad oggi poco meno di 100 milioni di persone (più di una volta e mezza la popolazione italiana) vivono tuttora con meno di 1,9 dollari al giorno. Tutto si può dire tranne che la globalizzazione non controllata non abbia giovato all’Elefante.

La prima cosa che si insegna agli studenti dei corsi di Economia dello sviluppo è di diffidare dei raffronti tra Paesi sui valori assoluti delle grandezze. Qualche dato non assoluto e quindi confrontabile può essere però illuminante nel confronto tra l’Elefante e la Formica. Ai fini di esprimere un giudizio un poco più documentato sulla potenza economica (espressa in termini della quota del GNI, l’equivalente del nostro “Reddito Nazionale” sul valore della produzione mondiale) diamo uno sguardo alla seguente tabella nella quale è riprodotta, nei diversi anni la graduatoria delle prime dieci economie mondiali (i cosiddetti BIG TEN).

Lasciando al lettore la curiosità di analizzare nel dettaglio l’alternarsi delle singole economie all’interno della graduatoria, osserviamo come in pieno boom economico l’Italia nel 1960 figurasse nella quinta posizione e la Cina alla nona. Dieci anni dopo, l’Italia si era già avviata sulla strada del declino economico, scivolando all’ottava posizione. Nel frattempo, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, la Cina, che è passata attraverso le vicende della Grande Rivoluzione culturale voluta da Mao Zedong (dopo il fallimento di quel piano economico dal quale si attendeva un “grande balzo in avanti”) è scesa alla decima posizione che conserverà fino alla fine degli anni ‘80. Dagli inizi degli anni ’90, poi, mentre l’Italia scendeva ad occupare la decima posizione al posto della Cina, una posizione che manterrà fino al primo decennio del nuovo secolo, la Cina inizierà una rapida ascesa fino a collocarsi, dopo aver superato il Giappone, al secondo posto nella graduatoria subito dopo gli Stati Uniti. Quanto all’Italia, sarà solo dopo il suo ingresso nella moneta unica europea che riuscirà a risalire all’ottava posizione nella graduatoria dei Big Ten. Questa è la storia che ci raccontano i dati. Ognuno poi può trarre le conclusioni che ritiene. Infine, se posiamo lo sguardo sulle quote del reddito nazionale sulla “torta globale”, notiamo che mentre la quota dell’Italia nel 1960 era quattro volte superiore a quella della Cina, essa si è più che dimezzata nei quarant’anni successivi, mentre quella della Cina, che ancora nel 1980 era dell’1% (la metà di quella italiana), nel trentennio successivo è riuscita a farla crescere fino al 15% della produzione mondiale, sette volte quella dell’Italia e poco meno della metà della quota degli Stati Uniti, posizionandosi, ormai stabilmente, al secondo posto della graduatoria dei Big Ten.

Bene ha fatto quindi l’Elefante ad invitare la Formica a mangiare “la grande torta insieme”. Peccato che a noi non restino che le briciole. Ciò non toglie che anche l’Elefante dovrà affrontare il tema sottaciuto delle disuguaglianze che accompagnano il suo pranzo. Se è vero, infatti, che in base ai dati del recente World Inequality Report 2018, l’Europa e la Cina sono le due grandi aree regionali nelle quali la percentuale del reddito nazionale percepita nel 2016 dal 10% della popolazione è la più bassa (rispettivamente il 37% e il 41%), è altrettanto vero che il 7% della popolazione cinese vive con meno di 3,2 $ al giorno e il 27,2% vive con meno di 5,5 dollari e negli anni del grande balzo in avanti la quota di reddito nazionale percepita dalle classi di reddito medio basse (fino al 50%) è andata progressivamente riducendosi (ossia le classi medio basse si sono impoverite). Cosa che per un paese che vanta la sua tradizione ‘comunista’…

Resta il fatto che ancora nel 2016 mentre l’economia cinese cresceva ad un tasso del 6,7%, l’economia italiana (buona ultima in Europa) cresceva ad un tasso dello 0,9% e nello stesso anno il reddito pro capite (a parità di potere d’acquisto) della Formica (38.200$) è più di due volte e mezzo superiore a quello dell’Elefante (15.500$). Chiosando Trilussa, “se uno mangia due polli e un altro zero, per la statistica hanno mangiato un pollo a testa”. O per dirla con un linguaggio governativo, chi si accontenta, gode.

Per concludere, notiamo come le cinque grandi economie dell’Unione Europea incluse nella graduatoria (Unione dalla quale l’Italia si è chiamata fuori firmando l’accordo bilaterale con la Cina sulla ‘Nuova via della seta’), se fossero tutte assieme raggiungerebbero una ragguardevole fetta della “torta” (15,9%), una quota superiore a quella dell’Elefante (14,9). E nel caso in cui si decidessero a costruire una Unione Europea Federale (un sogno?) e contestualmente riuscissero a convincere gli Stati Uniti a non fare la guerra alla UE e a stringere un accordo multilaterale con i Big Ten, forse, e sottolineo forse, si riuscirebbe ancora per qualche tempo a contrastare la supremazia economica sull’economia mondiale dei due Elefanti (quello cinese e quello indiano che lo sta seguendo a ruota).

Alessandria, 24 marzo 2019

[1] L’espressione «Industria 4.0» nasce alla Fiera di Hannover in Germania nel 2011. Sviluppata da un gruppo di lavoro promosso da una multinazionale tedesca di ingegneria ed elettronica e dall’Accademia tedesca delle scienze e dell’ingegneria (ACATEC), questa espressione è divenuta uno dei quattro temi principali trattati nel World Economic Forum 2016 di Davos, tenutosi in Svizzera nel gennaio di tre anni fa.

[2] «Economia della condivisione» significa, di fatto, la smaterializzazione della produzione, tipica delle grandi imprese che operano nei servizi in rete. Essa riflette un fenomeno per certi aspetti inquietante, quanto meno in termini delle sue possibili ripercussioni nel modo di concepire la democrazia liberale, nell’accezione in uso dopo la Seconda Guerra Mondiale, ovvero l’enorme concentrazione di potere concentrato nelle mani di queste imprese, per effetto del “valore finanziario” capitalizzato dalle stesse in pochissimi anni. Basti pensare che in borsa esse valgono più di quelle più tradizionali che forniscono servizi corrispondenti: Uber vale più di Hertz (che possiede e affitta migliaia di auto nel mondo) e della General Motors, che le auto le fabbrica! Facebook vale più di 100 volte il New York Times, lo storico quotidiano che dà lavoro a migliaia di addetti; Amazon, che distribuisce libri, vale più della catena di grandi Magazzini Wall-Mart e Airbnb vale più del gruppo Hilton che possiede 4500 alberghi in 100 paesi!

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