Luis Sepulveda

Ho conosciuto Luis Sepulveda grazie a un’intervista che mi fu commissionata dalla Cgil nazionale in occasione del suo centenario.

Era il 2006 e lo scrittore era giunto ad Arona, bella cittadina sul lago Maggiore, a presentare il suo libro “Il Potere dei Sogni”.

Fu una chiacchierata molto gradevole, allo stesso modo come fu ascoltare le sue parole, le argomentazioni, i pensieri espressi durante la presentazione del suo libro.

Iniziò raccontandomi qualcosa di sé.

Mi rivelò di essere stato, con altri suoi coetanei, un giovanissimo consigliere di Salvador Allende, il Presidente del Cile assassinato l’undici settembre del 1973 dalle forze militari del generale Pinochet con la complicità della Cia.

Affermò che il Presidente cileno, ogni sera, aveva l’abitudine di chiamare a rapporto i suoi consiglieri e di invitarli a esporre le loro osservazioni sul suo operato ma che esigeva che si parlasse solo dei suoi eventuali errori e di non destinargli alcun complimento.

“Se ho fatto qualcosa di buono – era il suo ammonimento – significa che ho fatto solo il mio dovere. Voi dovete invece evidenziare i miei errori, affinché io possa correggerli e non commetterne altri”.

Sepulveda era poi fuggito dal Cile dopo il golpe e la barbara esecuzione del Presidente Allende.

Il nostro colloquio era poi proseguito sul tema del lavoro.

Alla mia domanda se riteneva che il valore del lavoro dovesse ancora occupare uno spazio importante nell’arte, nella letteratura, nel cinema come era stato rappresentato e descritto in molte opere di Pelizza da Volpedo, di Guttuso, di Gazzone; da scrittori come Verga, Volponi, Calvino e da registi come Olmi, Petri, Rossellini, Bertolucci, la risposta era stata puntuale:

“Il lavoro è un’attività sublime nel tempo di vita dell’essere umano – aveva affermato – E’ qualcosa di fondamentale che ti permette di vivere, che ti dà il pane. Di lavoro bisogna sempre parlare e continuare a considerarlo come un valore assoluto. Tutta l’arte deve continuare ad occuparsi di questo bene assoluto”.

In quell’anno la Cgil, compiva cento anni e la nostra conversazione si era occupata di questa importante ricorrenza.

“Nel corso di questi 100 anni – era stata la mia prolusione – non è mai mancato l’impegno dei dirigenti della Cgil per l’emancipazione e il progresso, per la tutela e i diritti delle persone più esposte, quelle lasciate spesso ai margini della società. Cento anni di battaglie tenaci per costruire un mondo di civiltà.

“Ci domandiamo spesso come sia stato possibile arrivare fino ad oggi ancora con questa freschezza, con questa voglia di esserci, di essere attori protagonisti della storia recente di questo nostro paese, così come in quella passata.

“E la risposta porta a credere che ci sia un filo rosso che congiunge quanto è avvenuto nel corso di questo secolo – avevo proseguito – Un collante formidabile che tiene insieme passato e presente e già si annoda al futuro.

“E questo straordinario legame non può che essere l’umanesimo.

“Secondo la tua opinione – avevo concluso – l’umanesimo è ancora un valore da riaffermare nella moderna società tecnologica?”

“Più che altro l’Umanesimo non deve mai essere dimenticato – aveva risposto – L’Umanesimo è una parte fondamentale della visione del mondo. Una visione umanistica è una visione generosa che guarda in prospettiva, che pensa al futuro, soprattutto guarda ai giovani, al loro destino.

“L’Umanesimo deve essere un ingrediente essenziale in tutto quello che facciamo, il motore che muove la nostra esistenza.

“Non esiste futuro senza Umanesimo, ma solo barbarie e inciviltà.

“Voglio inviare un sentito ringraziamento e un caro saluto a tutti i compagni della Cgil – aveva concluso – che da sempre sono impegnati a lottare per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della parte più debole della collettività”.

Un incontro fuggevole ma intenso, di quelli che si conservano accuratamente nella memoria.

Poi, come accade anche nei giorni di sole, una nube minacciosa e aggressiva arriva a violare il cielo terso e luminoso. E calano il buio e il silenzio.

E un nemico invisibile ci ha privati di una presenza importante.

Quando, in casi come questo, si vuole tracciare il profilo di una persona straordinaria e importante come per lo scrittore Luis Sepulveda, il rischio di cadere in una falsa e vuota retorica può essere presente in ogni frase, in ogni paragrafo della nostra narrazione.

E le parole appaiono sempre inappropriate, non corrispondenti al valore di chi si vorrebbe descrivere e lontane dall’emozione che si prova a incontrare uno scrittore e un compagno come Luis Sepulveda.

Conservo ancora questo ricordo e lo ripongo tra le cose più preziose della mia personale collezione di rapporti umani.

Addio compagno Luis, ma forse è solo un arrivederci.

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