I partiti e la guerra

Durerà ancora a lungo l’embargo mediatico che – come in ogni guerra – è calato su entrambi i fronti. Troppo importante è serrare i ranghi, criminalizzare l’avversario e proclamare un bilancio favorevole – si tratti di morti o di consensi. Rientra in questa dinamica anche la gaffe di Biden sulla cacciata di Putin, che ha costretto il suo segretario di Stato a una precipitosa e secca smentita. Il protrarsi – senza schiarite – della guerra comincia, tuttavia, a fare aprire qualche squarcio nella spirale del silenzio – per usare la celebre metafora della Noelle-Neumann – che condiziona le opinioni pubbliche. I sondaggi – certo non in Russia – iniziano a intercettare i malumori di tanti cittadini che non pensano che «morire per Kiev» sia la loro priorità. Tanto più visti i costi che si stanno già accumulando nelle loro tasche.

Al solito, il primo segnale è venuto dagli Stati Uniti, dove – come ci illustra Limes – solo un’esigua minoranza sa dove si trovi davvero l’Ucraina, mentre molti impietosamente la collocano in giro per tutto il globo, in Africa e perfino al Polo Nord. Non sorprende che il gradimento di Biden non si sia scostato di una virgola da quel catastrofico due quinti che sono il tarlo che fa riemergere il fantasma di Donald Trump. Venendo all’orto di casa nostra, ieri Nando Pagnoncelli sul Corriere segnalava, per la prima volta, il primato di Fratelli d’Italia rispetto a tutti gli altri partiti. E il peggior risultato di sempre dei Cinquestelle, che fanno fatica a trovare una propria identità. Non è certo una coincidenza che Conte abbia ribadito con forza la linea che, già da qualche tempo, sta cercando di imporre al suo partito. Appoggio al governo e alla causa del popolo ucraino, ma a patto che «non si forzi la mano con l’aumento delle spese militari».  È facile prevedere che presto, con i soliti distinguo tipici del politichese, altri leader si affacceranno su questa strada.

Passata l’ondata emotiva di solidarietà incondizionata, gli interrogativi cui i partiti saranno chiamati a rispondere sono fondamentalmente tre. Il primo riguarda il cambiamento di scenario strategico imposto dall’emergenza. Quanti elettori sono davvero d’accordo ad abbandonare il sentiero della pacificazione europea, e puntare dritti al riarmo? Abbandonate le posizioni ideologiche – che pure non sono irrilevanti – la questione si concentrerà sull’entità – e i tempi – della riconversione bellica. E sul conto che ciascun paese dell’Unione è chiamato a pagare, nell’immediato e in prospettiva. Reggerà il mega stanziamento di 110 miliardi di euro che Olaf Scholz ha messo sul piatto, forse un po’ frettolosamente? E ammesso che siano d’accordo i suoi votanti, sarà d’accordo la Francia a consegnare al suo partner – e antico nemico – la leadership di questa svolta epocale? Quando si tratterà di affrontare questi nodi, che ruolo dovrebbe svolgere l’Italia? E visto che la coperta è sempre quella – molto stretta – che ben conosciamo, dove dovrà tagliare Draghi per far quadrare il nostro traballante bilancio?

Il secondo interrogativo investe il quadro delle alleanze interpartitiche che attraversano il parlamento europeo, riverberandosi su quelli nazionali. Ieri, per la prima volta da quando è esploso il conflitto, i media occidentali hanno notato il brusco mutamento di ruolo del capo di governo polacco. Messo al bando – fino a poche settimane fa – come leader di un regime autoritario cui L’Espresso, in Ottobre, aveva dedicato un dossier di durissima denuncia espellendolo dalla famiglia democratica per crimini contro i diritti, e che ieri il solito Biden ha apostrofato come «fratello». Una volta che si tratterà di spartire profughi, armamenti e bollette, quale nazione condurrà le danze? La Polonia esce enormemente rafforzata sullo scacchiere geopolitico, e sfrutterà al massimo il vantaggio. Che faranno i suoi alleati sovranisti, a cominciare da quelli italiani? Per non parlare dell’Ungheria, un altro stato guardato con sospetto da tutti gli alfieri democratici e oggi inopinatamente rilanciato in un ruolo di frontiera e cerniera?

Il terzo interrogativo va al cuore dello spirito del nostro tempo: con quali leader affronteremo l’inverno delle nostre illusioni? La prima mano di questa svolta epocale è stato il duello mediatico tra Putin e Zelensky, vinto dal presidente ucraino per kappao tecnologico. La seconda si svolgerà a novembre, nelle elezioni di midterm in Usa. Che succederà se Biden esce sconfitto? E cosa accadrà se Trump, dopo essersi ripreso il congresso, tornasse alla Casa Bianca? Sappiamo tutti – anche se pochi ne parlano – che con Trump nella Camera ovale la guerra avrebbe preso un’altra piega. Forse addirittura opposta. L’America ha pesato moltissimo, è stato il fattore decisivo nel compattare il fronte antirusso. Cosa farebbe l’Europa in assenza di questo collante, e questa sponda? C’è un leader che possa prendere il posto – e il vuoto – lasciato dalla Merkel? È forse la domanda più drammatica. La prima cui noi italiani dovremmo provare a rispondere. Perché siamo noi l’anello debole. Tra un anno torniamo al voto. Difficilmente Draghi potrà – o vorrà – restare in campo. E vengono i brividi al pensiero dei partiti che ripeteranno la pantomima andata in scena a gennaio. Senza neppure poter contare sul sacrificio di Sergio Mattarella.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 28 marzo 2022).

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