Passeggiata nel Corso anni ‘50

Marina Elettra Maranetto

Passeggiata nel Corso anni ‘50

 

Si diceva che le Alessandrine avessero belle caviglie e gambe dritte, e che la passeggiata nel Corso fosse uno spettacolo d’eleganza.

Eccomi bambina, vestita di tutto punto, con la mamma che certo non sfigurava tra  la sfilata di dame: cappello, veletta, guanti lunghi di chevreau appena arricciati sul polso, borsetta al braccio mentre l’altro accompagnava lievemente il passo.

Già alle bambine si insegnava il portamento. “Cammina avanti… fammi vedere ..”. Schiena dritta,  mento alto, attente ai piedi in dentro o in fuori come papere che sono un vero orrore. Anche per loro gli abiti erano confezionati dalle sarte: gonne a pieghe, cappottino blu doppio petto, scarpe di vernice, guanti anche d’estate, cappellino da collegiale in feltro o in paglia secondo stagione.

Le calze d’inverno arrivavano al ginocchio. S’imparava a soffrire il gelo  al pari dei maschi che indossavano pantaloni corti, al massimo “all’inglese”. Quelli lunghi erano un riconoscimento d’ingresso all’età adulta, come lo era per le femmine indossare le prime calze di nylon, il reggicalze e la sottoveste di seta.

Avevo quattordici anni e quella mattina mi rimiravo allo specchio: un viso da ragazzina travestita  da donna e con la fretta di crescere. Poi il primo tailleur attillato, i primi  tacchi, e la passeggiata nel Corso con l’amica non più scortate dalle madri, libere di soffermarci davanti alle vetrine che conservavano l’eleganza delle origini: fregi dorati, ottoni, ferro battuto, nelle insegne elaborate di  preziosa fattura, “rinnovate” poi per inseguire una tendenza dozzinale di modernità.

Il bar “Vittoria” apriva la “vasca”, come in gergo si diceva della passeggiata in Corso Roma. Oltre ad essere luogo d’incontro prettamente maschile, era il punto di riferimento della “Befana del Vigile”, un’usanza che per un giorno rendeva amichevole il rapporto tra cittadini e tutori dell’ordine. I pacchi si ammucchiavano proprio davanti alle sue vetrine, lasciati da automobilisti sorridenti al vigile che lì stazionava in alta uniforme. Per un giorno, forse, si sentivano graziati.

Sotto i portici di fronte uno specchio decorato con la scritta “Punt e mes Carpano” invitava a  consumare lo storico aperitivo torinese al bar. Accanto, la modisteria “Valizzone” esponeva cappellini di originale fattura da riprodurre su ordinazione, mentre l’ortopedia “Visetti” confezionava su misura guepiere e stringivita con stecche di balena che se non stavi dritta ti trafiggevano il costato come il martirio di San Sebastiano. Ci si rassegnava fin da ragazzine per dare slancio al busto e modellare il punto vita. Le sarte cucivano addosso le giacche e gli abiti attillati; le ragazze funambole, con le decolleté dal  tacco alto, camminavano in equilibrio sui marciapiedi ghiacciati, sfidando temperature polari fino alla Piazzetta, dove si esponevano agli apprezzamenti non sempre galanti dell’universo maschile dei “piazzettari” appostati all’uopo. Stivali e collant stavano nel futuro, le calze velatissime si smagliavano con facilità tanto che in Via S. Giacomo c’era un piccolo negozio dove si rimagliavano. I pantaloni, concessi solo nei luoghi di villeggiatura, erano considerati trasgressivi e dunque vietati nei luoghi di lavoro.

Opposta ai portici l’antica drogheria “Negri”, cui si accedeva salendo stretti gradini, si era guadagnata l’onore del Corso per la particolarità dell’offerta merceologica che da tempi remoti spaziava dal particolare all’universale.

Proseguendo sulla destra, “Tannenbaum” era un richiamo a partire dal nome e dalla vetrina di biancheria dai preziosi ricami, meta obbligata per il corredo da sposa e la parure nuziale, i completi per neonati e il portenfant in organza per il battesimo che neanche a Buckingam Palace ne avevano uno così.

Più o meno di fronte, “Piero Sport” esponeva capi di alta qualità oltre gli articoli sportivi, mentre l’antiquariato “Beltrami” scintillante di cristalli che illuminavano dall’alto oggetti e mobili di preziosa fattura, educava alla raffinatezza. A seguire “Alvigini giocattoli”, un richiamo per tutti i bambini cui era concesso desiderare o, al massimo, esclamare “che bello mamma quel bambolotto… Lo vedi? Lo vedi mamma?”,ogni volta col cuore sospeso per non trovarlo più. Quel Natale mi aspettava sotto l’albero e lo amai come il figlio tanto desiderato da non volerne altri. Avevo sette anni ed ancora lo conservo intatto.

La “SEDRA”, che offriva un assortimento di stoffe di prima qualità, fronteggiava “ABITEX”,  primo negozio di confezioni maschili con una sobria offerta di capi femminili, poiché si preferiva l’accurata confezione artigianale. Le sarte erano padrone del campo, alcune tanto abili e contese da nulla invidiare alle stiliste più celebri delle riviste di moda da cui traevano ispirazione. Ai balli si andava in abito da sera, anche ai ricevimenti in casa, un disastro economico per le famiglie con le figlie “da figurare” in società. Non si indossava lo stesso abito due volte di seguito con la segreta speranza d’azzeccare un buon matrimonio, l’impiego più sicuro per le donne di allora.

Proseguendo verso la Piazzetta, l’ombrelleria  “Tagini” e, accanto, il negozio di timbri ed altri articoli da ufficio, entrambi pervenuti con lo stile delle origini . Di fronte, la pasticceria “Romano” in stile anni trenta, e “Marchina”, il più lussuoso negozio di scarpe della città: marmi, specchi e decori all’altezza della fama. Di alcuni citati, a guardar bene, sono rimaste tracce dell’antico che oggi striderebbe con l’esposizione di capi d’abbigliamento anonimi, se non di qualità scadente.

Cito per ultima la vetrina “Borsalino”, testimonianza superstite di un commercio in agonia per l’arroganza dei centri commerciali, degli empori da poco prezzo e le offerte dell’immenso mercato digitale, dove tutto si divora e si espelle senza più poesia.

 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*