Il pensiero di Gramsci per la sinistra di oggi

Premessa

Da tempo nel gorgo di una disfatta storica, la sinistra italiana non riesce a darsi una prospettiva. Incapace di riflettere su se stessa per cercare di individuare le ragioni storico-culturali della sua crisi, pigramente si dibatte tra i due ‘classici’ poli: da un lato, quello di adagiarsi in un comodo pragmatismo politico -ritenuto, anche nelle emergenze più gravi come l’attuale, risorsa sempre spendibile- e, dall’altro, quello di rifugiarsi in modo dogmatico in una consolatoria dottrina di riferimento per una illusoria ricerca di senso alla esiguità della sua presenza. Dall’altro, quello di indicare inutili alleanze politiche e governative, pur nella certezza di dover poi svolgere un ruolo subalterno, oppure ridursi ad un minoritarismo pratico sterile . Il tutto ,poi, condito sempre con una fastidiosa esortazione all’impegno e alla lotta rivolta ad un destinatario sconosciuto. Per recuperare il suo ruolo, la sinistra deve, invece, prendere le distanze tanto da una ‘ortodossia’ che non può parlare al nostro tempo e alla peculiarità del nostro Paese, quanto da una lotta politica cieca, senza progetto e senza orizzonte, e attingere alle risorse profonde e originali della sua storia e della sua tradizione intellettuale.

1.- La riflessione di Antonio Gramsci deve essere considerata senz’altro una delle radici più vitali dell’una e dell’altra. A cominciare dalla sua idea ‘generale’ di politica, dal compito di fondo che affida alla stessa politica, dalla nuova natura del conflitto da alimentare. Questa riflessione ci mette nelle condizioni di capire meglio la portata epocale della crisi attuale della politica e della sinistra. Dopo la caduta del Muro, infatti, la funzione della politica si è quasi del tutto azzerata. La rinnovata e proterva egemonia del capitale ha dato vita a forme inedite di privatizzazione del potere, sempre più consegnato nelle mani dei ricchi, di multimiliardari che esplicitamente e direttamente lo esercitano. Prima, Berlusconi da noi, poi Trump della destra americana , ora contrastato nel suo Paese da Mike Bloomberg, un altro plurimiliardario di ‘sinistra’, sono solo gli esempi più clamorosi di un fenomeno si sta rivelando vincente in molti Paesi. La politica non ha più conflitto e si è ridotta a semplice narrazione. Ha ragione Michele Prospero quando sostiene che la politica oggi è alla ricerca di un consenso senza scopo, che il paradigma risultato vincente è quello di Luhmann e che la funzione storica della politica come luogo dello scopo, appunto, e del conflitto è cessata(1)

Gramsci ritiene che la politica moderna abbia a che fare organicamente con un quesito capitale: quello, così riassunto da U. Cerroni, <<se si voglia conservare o sopprimere il rapporto fra governanti e governati e cioè il rapporto della lacerazione non solo sociale ma politica del genere umano>>(2). E’ questo poi il tema di fondo che lo porta a polemizzare con le dominanti teorie elitiste di Mosca, Pareto e Michels, mettendone in luce i limiti teorici e l’incapacità di spiegare le ragioni storiche profonde di quella lacerazione. Nella teoria degli elitisti Gramsci vede una nemica mortale della stessa democrazia perché ritiene di risolvere i molti problemi che la democrazia pone sopprimendola. Per Gaetano Mosca, infatti, la democrazia ha una natura ingannevole. La convinzione che anche in un sistema democratico siano sempre esigue minoranze a governare lo porta a negare la validità e la stessa possibilità storica della democrazia. Per Mosca la democrazia è impossibile, una pericolosa illusione destinata all’inevitabile declino e la sovranità popolare una menzogna: perché è un fatto << naturale>> che <<dove ci sono uomini, ci sia una società, e che, dove vi è una società, ci sia anche uno Stato; cioè una minoranza dirigente ed una maggioranza che da essa è diretta>>(3). Come sostiene F. Jonas, anche per Vilfredo Pareto non esiste una società storica: la società non è <<una realtà di specie propria; essa deve bensì essere vista, scientificamente, come un aggregato di individui, i quali si debbano a loro volta analizzare come esseri naturali>>(4). Scrive Pareto:<<Piaccia o non piaccia a certi teorici, sta di fatto che la società umana non è omogenea, che gli uomini sono diversi fisicamente, moralmente, intellettualmente>>, e che proprio da questa diversità naturale discende la distinzione “eterna” fra élites e non-élites. Così –continua- non ci resta allora altro da fare che <<dividere la società in due strati, cioè uno strato superiore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati>>(Trattato di sociologia generale, paragrafi 2025 e 2047). Egli nega la democrazia non solo perché “impossibile”, ma perché addirittura pericolosa in quanto, volendo eliminare la distinzione tra chi deve comandare e chi deve ubbidire, finisce col privare la società delle sue migliori energie, di coloro che valgono veramente. Con la sua <<legge ferrea dell’oligarchia>> anche Robert Michels si muove sostanzialmente lungo lo stesso solco. Anche lui ci consegna un messaggio fortemente scettico. Anche per lui la democrazia è impossibile, non ci sarà mai, perché la contraddizione tra valori democratici e organizzazione pratica della società è ineliminabile. La sua conclusione è che <<il formarsi d’oligarchie in seno alle molteplici forme di democrazia è un fenomeno organico e perciò una tendenza a cui soggiace necessariamente ogni organizzazione, anche socialista, perfino quella libertaria >>(La sociologia del partito politico nella democrazia moderna -1911).

2.- Per Gramsci <<la “democrazia politica” tende a far coincidere governanti e governati>>. La <<tendenza democratica>>, infatti, significa <<intrinsecamente>> che <<ogni “ cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure “astrattamente” nelle condizioni generali di poterlo diventare >>(Quaderni del carcere, Torino, 1975, p. 501). Gramsci vede nel suffragio universale lo strumento più potente dell’accelerazione della mobilità delle classi e il punto culminante della democrazia politica. E’ convinto del valore e della portata rivoluzionaria del diritto di voto, nonché della necessità di preservarlo tanto dal disprezzo della teoria elitista quanto dalla grave sottovalutazione della teoria socialista. Non ritiene teoricamente importante ragionare sulla estinzione dello Stato, ma cogliere la peculiarità del rapporto governanti-governati nel contesto nazionale concreto in cui occorre operare: capire come le classi dirigenti esercitano la loro egemonia nell’epoca dell’affermazione della borghesia e dell’affermazione del principio storico <<della parificabilità di tutti i membri del genere umano, tra cui né la natura ha posto alcuna discriminazione civilmente insormontabile né Dio ha infuso la grazia>>(5). Gramsci coglie la peculiarità del conflitto nell’età moderna. <<La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella concezione dello Stato>> ha mutato profondamente il rapporto fra gli uomini e ha fatto crollare la precedente concezione piramidale del mondo. Mentre le classi dominanti precedenti <<erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe “tecnicamente” e ideologicamente: la concezione di casta chiusa>>, la classe borghese invece <<pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa “educatore”>>(Quaderni …, p.937). Con l’avvento della borghesia la piena “universalizzazione” dell’individuo è corredo intrinseco, principio tendenzialmente da praticare e per il quale è inevitabile battersi. Il mondo moderno borghese opera ,come si è detto, una rottura profonda, radicale con l’intera storia premoderna: <<1. Contro il mondo antico si fa valere l’idea cristiana che gli organismi politici e sociali non sono organismi di natura ma creazioni artificiali umane; 2. Contro l’idea cristiana che queste costruzioni siano investite dalla volontà divina si fa valere l’idea che esse sono invece costruzioni laiche e contrattuali degli uomini in quanto dotati per natura di una indistruttibile soggettività autonoma>>. Certo, le differenze fra gli individui continuano ad esserci, ma esse, ormai, <<non suppongono più né l’antica formale discriminazione del genere umano in due sezioni (i dominanti e i dominati), né il cristiano rinvio oltreterreno di ogni ricomposizione universale>>(6)

3.- La tendenza ad una coincidenza fra governanti e governati è per così dire tra le potenzialità già esistenti, nell’insieme dei valori elaborati dalla modernità, nella visione del mondo che si va affermando, nella progressiva crescita della consapevolezza di ogni essere umano. La democrazia politica in un certo senso “lavora” per la ricomposizione del genere umano se, però, qualcuno “lavora” per tutelare le condizioni per farla lavorare. Per questo essa contiene la radice del socialismo e per questo il socialismo non deve rinviare, a data da destinarsi, non deve fare “dopo” la sua rivoluzione, ma la deve fare già “oggi” proprio potenziando la democrazia politica basata sul suffragio universale. Non c’è una astratta e lontana società che si “autoregola” nell’avvenire, né l’attesa di uno Stato che si estingue, ma una operatività storica immediata tesa a ridurre –fino a farla scomparire- la distanza fra massa ed élite (7).

Il partito politico è per Gramsci lo strumento principe di tale operatività storica. A condizione che sappia sentirsi erede dell’alto livello di civiltà nel quale opera. Esso stesso, tra l’altro, deve sentirsi anche “risultato” del passato nobile su cui intende costruire un nuovo avvenire, e deve conoscere la storia e la cultura di tale passato. <<Nel mondo moderno>> –scrive- << un partito è tale, integralmente e non, come avviene, frazione di un partito più grande, quando esso è concepito, organizzato e diretto in modi e forme tali da svilupparsi in uno Stato (integrale e non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo>>(Quaderni…, p.1947). Non è che Gramsci non ammetta che i partiti siano <<la nomenclatura delle classi>>, ma questa natura classista appartiene alla loro fase economico-corporativa, dopo di che devono sapere reagire sulle classi stesse <<energicamente…per svilupparle, assodarle, universalizzarle>>(Quaderni…, p.387). E’ proprio in questa funzione di universalizzazione delle masse che consiste il compito storico del partito(socialista). Pur con le cautele di linguaggio a cui è costretto dal controllo del regime fascista, egli lo dice espressamente: <<E’ da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente elaborano l’etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da “sperimentatori” storici di esse concezioni>>. E conclude: i partiti sono <<il crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica, intesa come processo storico reale>>(Quaderni…, p.1387). Come si vede, ricorre assai poco alla critica socialista tradizionale dello Stato, della rappresentanza e dello stesso partito. Su di essi matura invece una concezione assolutamente nuova. Non esita a sostenere che, dal momento che per un tempo ancora lungo e indefinito permarranno le condizioni storico-materiali date, è politicamente -e teoricamente, anche- improduttivo parlare della estinzione dello Stato e della fine della rappresentanza. Ciò che ritiene necessario è riuscire a cogliere la natura e, per così dire, la ‘qualità’ del rapporto governanti-governati in una determinata società e le modalità con cui un gruppo sociale esercita la propria supremazia. L’avvertenza metodologica che ci consegna è che questa supremazia si manifesta storicamente in due modi: <<come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”>>. E approfondisce: <<Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati>>; oppure può essere <<dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche “dirigente”>> (Quaderni…,pp.2010-2011). E’ qui delineato il tema, tutto gramsciano, dell’egemonia – fondamentale nelle società moderne- : vale a dire come una classe riesce a dare forza ideale allo Stato e universalizzazione storica al proprio “dominio”. Ha proprio ragione Cerroni quando sostiene che per questo tema dell’egemonia –appunto, come una classe esercita il proprio dominio, l’equilibrio e lo squilibrio tra consenso e dominio, la preponderanza del primo sul secondo e viceversa- Marx e Lenin non siano stati di grande aiuto a Gramsci. Perché egli elabora, non applica. Il suo marxismo e il suo leninismo non sono la ripetizione di niente, perché innova profondamente. Egli sta nella storia del pensiero politico europeo, nella storia del socialismo, nella storia del marxismo in modo assolutamente originale.

4.- Anche nello studio dello Stato moderno ritiene necessario rovesciare il metodo: per comprendere come una classe organizza il potere, come utilizza il sistema di valori che la modernità indica e fa maturare nel corso del suo progredire, serve non una teoria generale dello Stato, ma l’analisi concreta, storico-critica, di un Paese concreto. La storia d’Italia diventa così l’oggetto del suo interesse non per ragioni astratte, di studio fine a se stesso, ma per capire perché sia caduta nel nazionalismo fascista e perché il movimento operaio –la nuova classe storica- non sia riuscito a tenere aperta una prospettiva di cambiamento e sia stato, invece, sconfitto. Gramsci porta avanti una riflessione complessa della storia d’Italia e della società italiana perché per lui non può esserci azione politica efficace né un progetto di riscatto dalla condizione di avvilimento creata dal fascismo senza la capacità di cogliere proprio la specificità, starei per dire l’”originalità”, della storica debolezza dello Stato italiano. La conclusione , che per molti versi rifonda la scienza politica e la teoria dello Stato, è che tale specificità risiede proprio nella diversità del rapporto fra dominanti e dominati, fra classi dirigenti e classi subalterne rispetto agli altri Paesi capitalisti dell’Occidente. Per meglio far emergere le differenze, tenta anche di darci un quadro sintetico, di abbozzare, una <<analisi comparata>> delle varie egemonie negli altri Paesi: vale a dire i “lineamenti” del processo della presa del potere da parte della borghesia in Francia, Germania e Inghilterra. Così riassume rapidamente: << In Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi attivi e positivi. In Germania il processo si svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del 48 fallisce per la scarsa concentrazione borghese… e perché la quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale>>, che viene risolta con una specie di ‘compromesso’: <<la borghesia ottiene il governo economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell’esercito, nell’amministrazione e sulla terra>>. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese è nata per prima, <<abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il vecchio e il nuovo; la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi>>(Quaderni…,pp.2032-2033). In Italia, invece, la borghesia non riesce a organizzare un potere centralizzato e a dar vita, come altrove, ad uno Stato nazionale. In un passaggio illuminante così scrive Gramsci: <<La borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici(umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita>> (Quaderni…,p.658). E’ da qui che viene lo sviluppo di una storia del tutto anomala. Sulla scia di Machiavelli, Gramsci ci consegna una analisi formidabile delle anomalie della nostra storia: di un Paese dalla grande precocità della sua economia, della sua cultura, del suo pensiero, e dal grave ritardo politico. Di un Paese con una grande cultura ,che rimane cosmopolita e non diventa nazionale, e privo di una Stato nazionale. Gli italiani: primi in tutto, perfino nella elaborazione della teoria dello Stato moderno, e ultimi nella capacità di rispondere alla necessità storica di una unificazione statuale. E’ mancato sempre il soggetto storico capace di immettere in un circuito politico unitario il valore di una cultura e di una creatività uniche.

5.- Da qui la peculiarità italiana del dominio di classe indicata da Gramsci che l’azione rivoluzionaria del movimento socialista deve saper tenere presente. La frattura fra cultura e politica, l’assenza di una cultura nazionale, il ritardo plurisecolare di uno Stato unitario hanno reso le classi al potere solo dominanti e con scarsa egemonia: classi senza consenso diffuso e senza capacità di direzione storica. In molti altri Paesi le classi al potere hanno saputo esercitare più egemonia che dominio. In Italia ci sono state sempre classi dirigenti che hanno esercitato un dominio senza egemonia, senza consenso: classi solo dominanti perché prive di una cultura espansiva. Partendo da questa natura storica del potere, Gramsci dà al movimento socialista l’indicazione di una azione politica inedita, originale, che innova la pratica e la teoria del movimento operaio: benché subalterno, questo, specialmente in un contesto in cui il potere è senza egemonia, senza consenso, deve saper diventare classe egemone pur non avendo “potere” e “dominio” e pur essendo ancora classe ”dominata”. La possibilità per fare questo è data dalla storia stessa del Paese nel quale si opera, dalla sua “cultura”, dal livello alto della sua civiltà . Il movimento operaio non ‘immette’ cultura dall’esterno, ma deve sapersi nutrire di quella esistente per rielaborarla e rilanciarla. Per Gramsci, nella società moderna evoluta e con una ricca tradizione culturale, non solo il potere si conquista col consenso, ma conquistare il consenso è già conquistare il potere. Non ha senso dunque l’attesa dell’ora X per fare la rivoluzione: dove il potere si conquista col consenso, la rivoluzione è soprattutto una permanente competizione ‘culturale’ fra le classi. Questa “teoria della rivoluzione”, che nell’intera tradizione del socialismo –teorico e pratico- nessuno prima aveva messo a fuoco, fa di Antonio Gramsci il vero teorico della rivoluzione socialista in Occidente(8).

E’ l’analisi che conduce sulla peculiarità della nostra storia che dà a Gramsci la spiegazione dello sbocco fascista dello Stato. Esso segna la sconfitta tanto della borghesia quanto del movimento socialista. Della borghesia: perché è stata erede indegna di una alta cultura universale ed ha scollegato la sua politica proprio dalla vitalità di questa cultura. Del movimento socialista: perché, aderendo ad una concezione ‘volgare’ e banale del materialismo, non ha compreso che negli anelli forti dello sviluppo capitalistico bisogna saper superare il riduzionismo economicistico e salire al momento della <<catarsi>>, cioè della capacità di tenere insieme politica e cultura. La catarsi, spiega Gramsci, è proprio <<il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini>>(Quaderni…,p.1244). Dunque, al contrario della concezione dominante, non solo <<la filosofia della praxis>> non esclude la storia etico-politica, ma lo stesso <<contenuto economico sociale>> è dentro la <<forma etico-politica>>: <<si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici>>(Quaderni…,p.1237).

6.- Proprio queste riflessioni, benché rinchiuso in una cella fascista, fanno sentire Gramsci un combattente attivo. Il rapporto organico esistente fra cultura e politica lo porta alla convinzione che il fascismo è un regime provvisorio, che non può durare a lungo, in quanto estraneo alla grande tradizione culturale universalistica del nostro Paese. Un regime povero di cultura, incapace di cogliere il valore di un patrimonio storico-culturale grandioso come quello dell’Italia, è inevitabilmente condannato ad una radicale sconfitta storica. L’indegnità culturale del fascismo è anche la ragione della sua indegnità politica. Si chiede Gramsci:<<Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare?>> La risposta è, naturalmente, negativa, per la ragione decisiva che il fascismo è un corpo estraneo all’intera storia dell’Italia. Lo sbocco fascista <<è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche>>. E incalza:<< Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata>>. Che è quella del movimento operaio, il cui internazionalismo appare l’erede naturale delle tradizioni cosmopolitiche dell’Italia. Per cui, <<il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo>> e si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali (Quaderni…,p.1190).

Come detto all’inizio, Gramsci si rivela una delle radici culturali più vitali e creative che la sinistra mette a disposizione del Paese per la sua crescita civile, politica e culturale. E perché non rischi di rassegnarsi alla sconsolante deriva dei nostri tempi.

Egidio ZACHEO

NOTE

  1. M. PROSPERO, La fine del conflitto e l’età della narrazione, relazione svolta al convegno promosso da “Futura umanità” e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università “La Sapienza”- Roma, 7 febbraio 2020.
  2. U. CERRONI, Lessico gramsciano, Roma, 1978.
  3. G. MOSCA, Teoria dei governi e governo parlamentare, Milano, 1968, p.11.
  4. F. JONAS, Storia della sociologia, Bari, 1970, pp.485-486.
  5. U. CERRONI, op.cit., p.124.
  6. Ivi, p. 127-128.
  7. Cerroni è lo studioso che meglio ha saputo mettere a fuoco il rapporto fra democrazia, cultura e socialismo in Gramsci. Si veda anche il volume di M.PROSPERO, La scienza politica di Gramsci, Roma,2016. Mi sia consentito segnalare i miei volumi: Gramsci, la democrazia, la cultura(1991); L’identità divisa. L’Italia e il nostro debole spirito pubblico (2013); La sinistra finisce. Dal populismo di Vendola e Renzi al governo gialloverde (2019).
  8. Cfr. Cerroni, op.cit, passim.

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