“Ecco perché siamo tutti cattivi” di Rolando Pizzini

Ha un titolo insieme bizzarro e provocatorio ‒ Ecco perché siamo tutti cattivi (Edizioni del Faro) ‒ l’ultimo saggio di Rolando Pizzini: docente liceale ed esperto in arti marziali. Esso in primo luogo contesta decisamente l’idea di Rousseau che l’uomo nasca, in natura, come un buon selvaggio e che poi venga incattivito dalla società, per usare un termine caro a Pizzini. Un’idea, a suo avviso, cara non solo all’illuminismo ma pure alla postmodernità; in quanto, secondo il nostro autore: “viviamo in un’epoca nella quale spesso la cattiveria si spiega come un effetto di società ingiuste o causate da traumi psicologici, da infanzie infelici, quindi come una sorta di prodotto generato da forze contrarie capaci di corromperci”. Teoria questa ritenuta da Pizzini semplicistica, se non fuorviante. In ogni caso, credo sia opportuno precisare cosa egli intenda con le parole cattiveria e cattivi, utilizzate qui per alludere in generale al male che gli esseri umani possono procurare ad altri umani.

Tali termini fanno infatti riferimento alla notevole aggressività che dall’età paleolitica alle soglie del terzo millennio indubbiamente ci caratterizza. È stato detto strumento evolutivo a permettere non solo la sopravvivenza della nostra specie su tutte le altre del pianeta, ma anche a farcene signori, finendo tuttavia per divenire mezzo di oppressione nei confronti dei nostri stessi simili. Come a dire hobbessianamente: homo homini lupus, tramite un comportamento che purtroppo rimane ancor’oggi diffusissimo ovunque ad onta di questo o quel contratto sociale, dell’etica e del progresso. Riflessione pessimistica? Realistica, direi; come l’osservazione che, per vivere, ogni essere vivente ha bisogno di nutrirsi mediante il cibo costituito da altri esseri viventi o di eliminarli per legittima difesa. Detto in parole povere: l’uomo “ha bisogno di uccidere”; se non altro i virus.

L’aggressività, chiamata altrimenti da Pizzini energia primordiale, può manifestarsi però anche come invidia, gelosia, rancore, odio, e chi più ne ha ne metta. In stati emozionali, cioè, inclini a tradursi sin troppo spesso in azioni violente nei confronti del prossimo. Il freno deputato a bloccare tali cattiverie trova le sue origini nell’educazione/formazione familiare e scolastica, intesa a promuovere la cultura altruistica del rispetto reciproco e della fratellanza solidale; conscia della necessità di superare l’egoismo istintivo, non per meri fini moralistici, ma giusto nella consapevolezza della generale ed ineludibile interdipendenza, allo scopo di attuare un’ecologia integrale, sconvolta dall’antropocentrismo.

Belle parole, si dirà. Ed è in effetti quanto sostiene Pizzini, secondo il quale, più che di teorie, ogni giovane homo sapiens sapiens ha bisogno di prassi educative e percorsi formativi di crescita armonica, che lo portino a controllare la propria aggressività (cattiveria) per: “trasformarla in schegge di coraggio, in modo tale da disporre di energie prorompenti per migliorare i mille aspetti della sua vita: il sociale, l’economico, il sessuale, il culturale e così via”. È dunque auspicabile una pedagogia innovativa che tenga conto e/o si occupi non solo del cervello ‒ imbottendolo a scuola e a casa di nozioni ‒, ma pure del corpo tramite un incremento della cosiddetta educazione fisica, i giochi di gruppo, la partecipazione ad attività sportive (non sempre e solo agonistiche), e persino l’esercizio delle arti marziali, dove si impara a combattere i propri limiti e le proprie paure prima dell’ avversario: da trattare come una persona, non già come un rivale/ostile.

Certo, educare (che non significa solo istruire) è compito difficile ed in parallelo ‒ dice bene Pizzini ‒: “non esiste un manuale sicuro, un elenco preciso delle qualità che deve possedere l’educatore”, sia esso insegnante, sia esso genitore. Tre cose il nostro autore ritiene comunque deleterie: l’eccesso di iperprotezionismo materno/paterno oggi imperante; il do ut des nella forma di malcelato quanto, ahinoi, assai praticato ricatto (mai dire, ad esempio, se fai i compiti ti lascio poi fare questo o quello); infine la tendenza ‒ da evitare come il corona-virus ‒ a proiettare sui figli le proprie ambizioni/aspirazioni, simile a quella di vivere i loro successi o insuccessi come vittorie o sconfitte genitoriali.

Riassumendo in una formula il saggio, opterei per questa condivisibile affermazione: “Educare significa aiutare a vivere serenamente la vita”. Ciò comporta l’importanza di apprendere quanto prima da parte dei cuccioli umani l’accettazione della sofferenza, vista/vissuta come evento naturale, e la virtù della tolleranza/accoglienza, che ci permette di considerare l’altro non come un alieno o un nemico ma come un fratello in umanità. Queste le basilari indicazioni educative di Pizzini, affinché i nuovi adulti non divengano tutti cattivi.

Francesco Roat

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