Problemi storici della Sinistra nel tempo della vittoria della Destra (Riflessioni politologiche e annotazioni personali)

II) Problemi storici della Sinistra nel tempo della vittoria della Destra. (Riflessioni politologiche e annotazioni personali)

di Franco Livorsi

La terza ragione della sconfitta della sinistra: l’Idea Socialista perduta

Nel 1972, dal PSIUP, confluii nel PCI, e così in cinque anni smisi di essere leninista. Fu appunto “dal vivo”, tra i comunisti, più o meno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso (specie dal 1978), che io mi persuasi del tramonto del leninismo. Avevo preso a meditare, dapprima un poco ingenuamente, ma via via con intensa passione, su Lenin dal 1962, sull’”Idea socialista”, e lo feci con intensa passione, ma alla fine per superarlo, sino al 1979 e oltre.[1] Con ciò non considero Lenin un “cane morto”, magari un agente del Kaiser come credevano Solzenicyn e altri nazionalisti ossessivi “grande russi”, e neppure un puro maestro di dittatori liberticidi, neanche ora. Lo considero un grande leader rivoluzionario della storia, com’è ovvio, ma pure come il vero Machiavelli del Novecento, anche nel “pensiero politico” (che è di prim’ordine), come penso un giorno si riscoprirà ad abundantiam. E si vedrà, leggendolo finalmente senza paraocchi né fascisti né stalinisti che in lui come nel XVI secolo in Machiavelli (nel confronto tra il grandioso pensiero politico democratico repubblicano dei Discorsi della prima deca di Tito Livio, e il brutale realismo politico spinto sino all’autoritarismo de Il Principe, ci sono due teorie molto diverse dello Stato: una volta all’autogoverno proletario e una alla dittatura del partito comunista, anche se erano pericolosamente contigue (sin da Marx), anche se pure in tal caso a pesare sui fatti ha finito per essere, dopo la rivoluzione, la seconda, che in Stalin, e per suo tramite nel comunismo mondiale sino alla Cina d’oggi, ha potuto essere usata come scuola di totalitarismo[2]. Ma per l’Italia e tutto l’Occidente compresi, sin dal 1978, che sarebbe stato meglio, come sinistra, ridiventare tutti un grande partito socialista e democratico (non “socialdemocratico” in senso italiano, ma socialista e democratico). Dopo quindici anni di leninismo (dal 1962) – sia pure a lungo coniugato con l’operaismo marxista – proprio nel PCI intorno al 1977 mi si palesò la fallacia del proposito di ripensare il leninismo nell’ottica del capitalismo occidentale, come proposto da Mario Tronti in un luminoso articolo del gennaio 1964, Lenin in Inghilterra, e, per quel che pensavo io “in Italia”.[3]

Non credetti neanche per un secondo che il progetto marxista e operaista (della democrazia operaia dalla fabbrica al governo dello Stato), tramite un partito leninista, potesse essere realizzato da una setta (o “gruppo minoritario”), anche operaista. Per farlo occorreva rinnovare l’idea socialista, o in un nuovo partito socialista, che agisse come un lievito rispetto a tutta la sinistra (il PSIUP, che “però perì”), oppure sperare che ciò accadesse nel PCI, in cui allo scioglimento del PSIUP, come la maggioranza di quel piccolo partito, nel 1972 confluii. Solo che non accadde.

Ben presto scoprii che il PCI non era e non sarebbe diventato socialista e democratico, sia pure juxta propria principia, cioè in base alla sua lunga storia “riformata” via via. Compresi infatti, con grande malinconia, che nel PCI l’antisocialismo era un archetipo (il “dio” dei socialisti mi perdoni, ma talora persino simpaticamente). Nella Federazione del PCI di Alessandria avevamo un compagno “amministratore”, dalla voce molto profonda da basso (non farò il nome di questo vecchio compagno comunista, e quasi mio amico, scomparso, perché non so se a suo figlio farebbe piacere dato quel che sto per dire, anche se credo di sì). Una volta – sarà stato il 1973 o 1974 – gli dissi: “In fondo anche noi comunisti non siamo forse un grande partito socialista?” E lui: “Franco, non farai mica come dicono dalle mie parti” – era di Ovada – “confondendo la merda con la cioccolata calda?”. Certo il clientelismo e affarismo appresi dalla DC in trent’anni – allora dieci – di unione forniva molti spunti all’antisocialismo, ma – come poi compresi, o credetti di comprendere, pure “en historique” – era una cosa più antica. Allora – e sino alla metà degli anni Novanta – non l’avevo capito, ma la rottura tra comunisti e socialisti, voluta da Lenin come reazione al bellicismo ritenuto imperialista di tanti partiti socialisti al tempo della Prima guerra mondiale, e realizzata con l’Internazionale Comunista dal 1918 e soprattutto dal 1921, è stata come la frattura tra protestanti e cattolici. Entrambi, quando entrino in crisi, diventano più facilmente atei, o magari buddhisti, che non cattolici o protestanti (salvo pochi casi, si capisce), e non si riuniscono neanche nel tempo della “morte di Dio” e del nuovo grande espansionismo islamico quando alla cristianità certo converrebbe molto essere “una”. È per questo che allo scioglimento del PCI i comunisti non sono diventati un partito esplicitamente socialista e democratico, con tutti gli altri, eventualmente persino in proprio dicendosi i “veri socialisti democratici” e riprendendone ideali di liberazione umana e idee, magari pure della sinistra riformista o persino socialdemocratica marxista.

Nel 1974 ebbi modo di parlare della prospettiva di riunificazione socialista della sinistra italiana con un grande storico fiorentino che era il curatore delle opere politiche di Togliatti: un Togliatti che pur con le sue penombre io consideravo un grande leader. Lo considero tale anche ora, pur sapendo bene quanto Togliatti fosse duro e spregiudicato, il vero machiavellico nel senso dei “due” Machiavelli di cui ho detto, animale politico pronto a strapparsi il cuore per una buona causa, credo con tragica consapevolezza tanto era geniale come leader. Ritengo che sia stato la più grande fortuna che abbia avuto il PCI. Forse era un gran figlio di buona donna all’occorrenza, ma un vero timoniere nei marosi della storia. Dunque, come responsabile della commissione cultura e scuola del PCI alessandrino di allora, il 1° settembre 1974 organizzai un piccolo convegno per attivisti a Valtournanche su partito e internazionalismo nel pensiero di Togliatti, in cui io feci l’introduzione e Ragionieri le conclusioni. Il grande storico Ernesto Ragionieri era pure il curatore delle “Opere” di Togliatti, leader storico del PCI che dal punto di vista della biografia politica è stato inquadrato in modo intelligente e accattivante da Giorgio Bocca, e in modo storiograficamente compiuto e convincente soprattutto da Aldo Agosti, ma che dal punto di vista del dinamismo del suo pensiero politico profondo per me è stato compreso meglio di tutti da Ragionieri.[4] Bene, nelle more dei lavori chiesi a Ragionieri che cosa Togliatti, nell’ultimo decennio o negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1964), pensasse della prospettiva dell’unire tutta la sinistra in un solo grande partito socialista. Era stato d’accordo? Ernesto Ragionieri più o meno mi rispose così: “Non solo Togliatti era d’accordo, ma lo riteneva indispensabile e inevitabile. Solo su un punto diceva che si doveva rimanere ben fermi: il centralismo democratico.” Ragionieri diceva di non capire lui stesso il perché. Io credo che Togliatti, che aveva ben presenti le lotte fratricide tra socialisti, e la facilità con cui gli avversari della sinistra ne avevano sempre approfittato, volesse salvaguardare la necessità storica di una sorta di preteso “leninista” principio dell’autorità del Capo o dei capi, che decidevano per tutti pur verificando ogni decisione col voto e discussione ai livelli “bassi” del Partito. In Togliatti, e secondo il responsabile del comunismo occidentale per conto dell’Internazionale Comunista nel 1921-1923, Humbert Droz, nel gruppo dell’”Ordine Nuovo” di Gramsci di Torino, da cui Togliatti veniva, c’era un certo “elitismo” ideologico, un’accentuazione del ruolo sovrano della minoranza dirigente, che Togliatti poi identificò con il “leninismo”, che per lui nella concezione del partito, e solo in quello, era poi stalinismo. Veniva creduto centralismo “democratico”.[5]

Io ben presto, già verso il 1977, con questo “centralismo democratico” non concordavo (e non lo nascondevo affatto), ma avendo vissuto tra frazionisti spinti (sebbene simpaticissimi e creativi), anche nel PSIUP, ritenevo che si dovesse superare tanto lo Scilla del casino perenne dei socialisti quanto il Cariddi dell’unanimismo di partito: un unanimismo “di fatto” che secondo me non consentiva, se non sempre troppo tardi, la correzione degli errori dei “capi”. E su ciò potrei fare cento esempi, non solo en politique, ma pure en historique, ma me ne astengo per frenarmi un poco, perché sto cercando di fare un ragionamento, e non sto tenendo un corso o seminario universitario.

Comunque quando tardivamente, in presenza del crollo di Berlino, Achille Occhetto nel 1989 prese la giusta, seppure tardiva, iniziativa del superamento del PCI, io diedi per scontato che si sarebbe andati verso un grande partito socialista che unisse tutta la sinistra tramite una “Livorno alla rovescia”[6], e per questo, e solo per questo, accettai la proposta di collaborare con la stampa “anche” socialista: senza iscrivermi. Intanto partecipavo, da posizioni totalmente miglioriste, al dibattito sul nuovo partito, sia con saggi politologici che storico-politologici, tra i quali mi piace qui ricordare i seguenti miei scritti, tutti del 1990: Quale forma-partito per l’Italia del 2000?; La forma-partito comunista dalle origini alla Liberazione e La forma-partito comunista negli anni della Repubblica[7]. I punti chiave sottolineati erano: la necessaria unità socialista di tutta la sinistra e l’addivenire ad una forma partito in cui il necessario pluralismo delle tendenze fosse subordinato a regole, di tipo decisamente maggioritario, nella formazione dei gruppi dirigenti di tipo esecutivo provinciali e nazionali, in un assetto di partito che non poteva essere né l’unanimismo comunista né il casino permanente, che poi dà il potere ai capi bastone all’ombra di una sorta di parlamentarismo puro, e che al potere, nazionale o anche solo locale, diventa in molti casi corruttivo, dal Comune allo Stato. Predicai al deserto, ma con la convinzione di fare il mio dovere e che ogni buon pensiero, o quello che ci sembri tale, è come un fiume carsico che seguiti a scorrere.

Ma soprattutto non si volle fare la scelta dell’unità socialista. Talora, nel fuoco della polemica tra Berlinguer e Craxi, non la volle né l’uno né l’altro, ma soprattutto non la vollero i comunisti, per tante ragioni, ora valide e ora speciose. Quelle valide erano certo legate al processo degenerativo che aveva subito il Partito Socialista in un trentennio di connivenza con la DC, anche se a mio parere si è dimenticato che quasi tutto il Welfare State italiano, costruito dal 1962 in poi, fu di segno socialista, spessissimo in un fecondo rapporto di collaborazione sopra e sotto banco con i comunisti, in Parlamento e nei grandi sindacati, e tuttavia con quella levatrice socialista indispensabile, per quanto quella brava levatrice potesse essere personalmente una donnina un po’ troppo “allegra”. Ma senza quell’indispensabile alleato determinante nessuna delle grandi riforme che hanno fatto il Welfare State italiano sarebbe stata fatta. Questo mi sembra semplice e chiaro, come provai ampiamente a spiegare nel 1992.[8] Ma l’antisocialismo è stato per i comunisti un archetipo, da quando a Livorno il loro primo capo – di cui ho scritto la prima biografia politica – Bordiga. Il pensiero e l’azione politica[9] – al congresso socialista di Livorno del gennaio 1921 in una grande orazione disse loro, tra l’altro: “Noi vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni”[10]. Da allora i socialisti furono sempre visti con una certa aura di mal celato disprezzo (o quantomeno di “sufficienza”), persino nei periodi in cui se ne cercava, specie sotto Togliatti, l’alleanza privilegiata (mentre per Berlinguer semmai il primo alleato era la DC, oppure nessuno, se vi fosse indisponibilità o impresentabilità degli alleati, come credette dal 1979 alla morte, forse sperando di dare una spallata come nel ’60 per far passare “in corner” il compromesso storico, che secondo lui era stato fatto fallire in primo luogo da Craxi). I capi, persino al tempo del Fronte Popolare o delle giunte di sinistra pure dei miei tempi, facevano accettare alla base l’alleanza con i socialisti come un’amara medicina. Fu così persino nella fase in cui il segretario dei socialisti, Francesco De Martino, aveva aperto ai comunisti, dopo la reazionaria seconda scissione dei socialdemocratici dopo tre anni di “unità socialista” (1966/1969). Fu proprio ciò che ridiede credito al PSI, abbandonato nel 1969 dai socialdemocratici saragattiani-tanassiani come già nel 1947: credito presso l’elettorato socialista di sinistra che dal 1970 determinò la rapida estinzione del PSIUP.[11]

Anche su questo ho un aneddoto divertente da raccontare. Io, allora, ero il vicesegretario unico della Federazione del PSIUP di Alessandria (il segretario era il mio caro e compianto amico Angiolino Rossa, ma io facevo pure parte della segreteria regionale). In quella campagna elettorale amministrativa facevamo comizi in tutti gli angoli, e le piazze erano quasi sempre piene e plaudenti. Io nel 1970 non divenni consigliere comunale per il PSIUP in Alessandria per 50 voti e Angiolino fu in bilico per diventare consigliere regionale, e poi non lo diventò, sino alle cinque del mattino nel giorno dello spoglio. Vegliammo insieme in Federazione, attaccati al telefono. Angiolino, tra tutti quegli applausi che prendevamo, durante le settimane anteriori a quel finale, ogni giorno, mi diceva sempre: “Prenderemo una valanga di voti!” Invece ne perdemmo un terzo rispetto al 1968. Che cos’era successo? – Una cosa molto semplice. La base comunista, cui l’apertura dei capi loro al P.S.I. “demartiniano”, che per loro era sempre lo stesso anche se la loro voce nel loro partito era inascoltata, erano felici di ascoltare noi, che naturalmente, come sempre, attaccavamo il PSI cercando voti soprattutto in quell’elettorato da cui il PSIUP veniva, oltre che tra studenti e operai contestatori naturalmente.

Oggi è frequente sentir dire che il PCI era un grande partito socialdemocratico. Ma può esserci – anche nome “comunista” a parte – una socialdemocrazia che vota tutto all’unanimità o 95 a 5, dal 1927 al 1989 quando il PCI prese l’iniziativa di sciogliersi, e che mantiene un forte legame con l’URSS dal gennaio 1921 al 1982, senza mai negare mai che là ci fossero “le basi del socialismo”, pure esso ridimensionato, o superato, dopo l’arrivo di Gorbaciov?

Fu questa la vera ragione per cui Occhetto non volle chiamare socialista il nuovo partito. Occhetto era ed è un uomo generoso e intelligente, e più volte mi è spiaciuto averlo criticato in modo involontariamente “cattivo” scrivendo la prefazione del primo libro su di lui[12] (del socialista Mino Lorusso, Occhetto. Il comunismo da Togliatti al PDS), nel 1992. Ma pur essendo stato “l’errante” (Occhetto) un uomo di valore, “l’errore” fu catastrofico. Era legato ai fumi del Sessantotto, con sogno di una sinistra che non fosse né socialista né comunista, che semplicemente non c’era e non c’è; e sino a che nel mondo non arriverà una Rivoluzione del calibro del 1789 o del 1917, ma di chissà quale tratto, non ci sarà (perché la Storia funziona così). Il “non siamo né né”, ma “un’altra cosa”, è stato una catastrofe. Pose le basi per un partito senza identità, culminato nel Partito Democratico.

Ricordo che anche nel loro ultimo incontro Craxi chiese a Occhetto di chiamare “Socialista” il nuovo Partito. Occhetto stesso in tempi recenti ha ricordato che Bruno Trentin, leader della FIOM, l’aveva invitato a chiamarlo Partito del Lavoro, come il Labour Party. Nel mio piccolo nel 1992 fui invitato a parlare dell’unità della sinistra al Festival dell’Avanti! di Alessandria. Con vivo apprezzamento, su ciò, di Guglielmo Cavalli (segretario della Camera del Lavoro), io dissi che per me sarebbe stato bene chiamarlo “Partito dei Lavoratori”, ma “non del lavoro, perché il lavoro è quella roba che uno vorrebbe sempre far fare a un altro, ma appunto ‘dei lavoratori’”. Oltre a tutto il primo nome del PSI, a Genova nel 1892, era stato Partito dei Lavoratori (nel 1893 “Partito Socialista dei Lavoratori Italiani”, e dal 1895 Partito Socialista Italiano).

Contro la volontà di Occhetto, per cui l’essere “di sinistra” era almeno stato un punto fermo (Partito Democratico di Sinistra) iniziò l’era dei ribattezzamenti: Democratici di Sinistra e poi democratici tout court, cioè Partito Democratico. Ma questo significava fare il partito semplicemente della Costituzione, che è di tutti. In altre parole significa fare un mero partito interclassista. Anche sperando che il socialismo sia il sugo della pasta, che però spesso è pasta in bianco, e oltre a tutto al burro, con una grattatina di formaggio di sinistra. Insomma, significa fare un partito troppo povero di identità, una specie di DC di sinistra, in cui non a caso il centro è più forte. I comunisti si erano sempre sentiti superiori; perciò non avevano capito non solo che fondare il PD avrebbe costituito un partito troppo povero d’identità, ma che gli ex democristiani, con cui ci si fondeva, avrebbero loro mangiato la pastasciutta in testa essendo più colti, e più scafati nell’arte di governo (ma pure più spregiudicati, a vero dire).

Questo apre un grande tema dottrinario: quello della cultura di un movimento politico (e sin qui, in questa parte, mi sono intrattenuto su socialisti e comunisti proprio per parlare di cultura e politica nella vita dei partiti veri). Si tratta di un tema che mi è caro da quando sessant’anni fa esatti, dal 1962, presi a collaborare con “L’idea socialista” di Alessandria, e che ho coltivato più di tutti gli altri miei temi pure come studioso dal 1974 a oggi (anche se da un certo punto in poi mi persuasi che sia la coscienza, diciamo la mentalità, superficiale e soprattutto profonda, a fare più di tutto la storia, come avevano capito Freud e Jung a partire dall’inconscio; ma l’aveva capito ancor meglio Vilfredo Pareto, il cui Trattato di sociologia del 1916 andrebbe oggi ristudiato a fondo proprio da tale punto di vista[13]). Su ciò rinvio – a parte innumerevoli articoli e saggi miei in proposito, che non starò a richiamare – ai miei libri: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (1991); Coscienza e politica nel mondo contemporaneo. Le motivazioni dell’azione collettiva dal XIX al XX secolo (2003); Politica nell’anima. Etica, politica e psicanalisi (2007); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XX secolo (2010).[14]

Su ciò voglio fare due osservazioni: una sugli “ismi” e una sul rapporto tra idee e partiti.

Ci sono tante correnti nel pensiero contemporaneo, e me ne sono occupato a fondo in tanti miei libri. Con particolare riferimento a: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo (Giappichelli, 2007), che in oltre metà del libro fa il bilancio sugli “ismi” della contemporaneità alla ricerca dell’”ismo” emergente nella storia, e dei suoi tratti[15]. Ma ci sono “ismi” e “ismi”: Repubblicanesimo e radicalismo; liberalismo; socialismo e comunismo; nazionalismo fascismo e nazionalsocialismo; cristianesimo democratico; federalismo; ambientalismo, eccetera. Ma gli “ismi” che hanno improntato di loro stessi la storia, ossia che hanno conquistato il cuore di immense masse di persone nel mondo e per quel che ci riguarda in Italia, nel XX-XXI secolo sono stati solo tre: Socialismo, Nazionalismo e Cristianesimo democratico. Tutti e tre hanno una versione democratica ed una autoritaria e, com’è ovvio, più nomi e specificazioni. Gli altri “ismi”, quando siano compatibili, possono solo arricchirli, come variabili dipendenti. Questo ci dice per me la storia di lungo periodo dal 1900 a oggi.

Così il Socialismo nel XX secolo è stato democratico sempre, ma solo se si dimentica che il Comunismo, come la gente non sa, ma ogni studioso sa – non è altro che la corrente rivoluzionaria del Socialismo; una forma al potere – se sia la parte maggioritaria e lo possa fare militarmente – dappertutto autoritaria. Quindi è un po’ troppo rozzo, ma non falso, dire che il Socialismo è bifronte: o democratico riformista o autoritario “rivoluzionario”.

Così il Nazionalismo nacque democratico in Mazzini, benché sarebbe più corretto chiamarlo “patriottismo” (in cui però il nazionalismo covava, sol che si pensi all’”elmo di Scipio” che “s’è cinta la testa” dell’ultramazziniano Mameli, che tutti giustamente cantiamo). Quello di Mazzini era un nazionalismo, o meglio patriottismo, totalmente democratico, anche se già grandi ex mazziniani, oltre che grandissimi garibaldini, come Francesco Crispi “pendevano” in senso autoritario già negli anni Ottanta-Novanta del XIX secolo; ma nel XX secolo il Nazionalismo è stato prevalentemente autoritario e imperialista: e Fascismo e Nazionalsocialismo sono due famiglie del Nazionalismo autoritario.

Ma c’è pure un Nazionalismo democratico, sol che si pensi non solo al repubblicanesimo mazziniano, ma al gollismo, che è stato importantissimo sempre. C’è poi un nazionalismo “sostanzialmente” democratico, però illiberale, soprattutto se si pensa a piccole cose come l’Ungheria di Orban, la Polonia di Jaroslaw Kaczynski, l’America di Trump, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e sino al 2014 pure la Russia di Putin, che oggi è importantissima anche come ex “democratura” che via via dopo il 2014 è diventata dittatura nazionalista con basi di massa, cioè classicamente fascista, tanto che si potrebbe vedere Putin come una sorta di Mussolini russo. (E ciò a prescindere dall’aggressione all’Ucraina, aggressione comunque brutalmente nazionalista imperialista, che si configura come l’evento più pericoloso per la pace mondiale dal 1945 in poi).

Comunque il nazionalismo democratico, ma illiberale, sembra dilagare nel mondo. C’è pure una destra cristiana all’attacco. L’ungherese Orban e i fratelli polacchi Kaczynski, uno dei quali passato a miglior vita, sono gente così. Giorgia Meloni nel famoso discorso a Vox in Spagna, è una così (ma essendo una vera “politique d’abord” sta italicamente mettendo molta acqua di fonte nel vino “nero”, nella logica di quel tale il quale diceva che “Parigi val bene una messa”[16]; anche “Palazzo Chigi”, che solo con astuzia, accortezza e decisione ella potrà conservare per anni, anche se qualora dovesse perderlo tornerebbe subito agli antichi o recenti amori, dichiarati a “Vox”, perché così è la vita). A livello di nazionalismo democratico non vanno scordati i rosari di Matteo Salvini. E chissà come sarà la Chiesa dopo questo grande papa, che cerca di convertire la cattolicità al neo-francescanesimo sanamente e santamente riformatore, moralmente risanato, ecologista e pacifista, sarà purtroppo diventato un angioletto? Intanto noi italiani abbiamo votato come Presidente della Camera uno come Lorenzo Fontana (pare ispiratore del “rosarismo” di Salvini, un “rosarismo” però in Fontana sincero).

Il vento della storia purtroppo è questo, come qui qualche tempo fa ho sostenuto in un mio articolo, “per me” tra i più rappresentativi di quel che penso, significativamente intitolato Note sull’Antisessantotto.[17] Credo che siamo nel mondo in una tempesta del genere: la contro-rivoluzione avanza.

Ora per me è palmare che gli “ismi” politici di massa sono quei tre. In linea generale si può dire che il Socialismo (democratico e riformista oppure autoritario e rivoluzionario), è “sinistra”; il Nazionalismo è “destra” e il “cristianesimo” è il “centro”.

Se un “ismo” non si rinnova, o lo fa il meno possibile, può solo o tirare a campare (se il mare della storia sia calmo), o essere travolto (se il mare della storia sia grosso). Perciò ogni generazione è impegnata a rinverdire le radici del proprio “ismo”: togliere le erbacce dal campo, ripiantare le piantine rinsecchite, innaffiare, e di tanto in tanto cambiare le cose da coltivare con sana rotazione. Ad esempio io sono convinto che, nel divenire della storia, il Socialismo da “rosso” dovrà diventare “rosso-verde”; e, tenendo conto del fatto che il puro interesse non ha potuto cambiare l’uomo né rovesciare il capitalismo, ma anzi ha sempre imborghesito, o burocratizzato l’uomo, e alla fine reso possibile la disfatta del Socialismo o comunque la sua crisi profonda nel mondo (oltre che in Italia), mi sono convinto che il primo, sebbene mai solo, locus del mutamento sia “in interiore homine” (e “in interiore societate”). Sono persuaso che questione sociale, questione ecologica e questione spirituale siano decisive per il “sol dell’avvenire” del XXI secolo (e oltre), come ho sostenuto ne Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi della nuova terra (2000)[18] e soprattutto in Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo (2021)[19]. L’ultima opera seleziona, lima e completa una serie di venticinque articoli da me pubblicati su “Città Futura on line”, sotto il titolo comune, non certo casuale, “Filosofia del Socialismo”. Avrei anche potuto dire “Filosofia del nuovo socialismo”, ma l’aggettivo “nuovo” provoca in me l’orticaria, tanto è abusato. A mio parere, se mai qualcosa di me sopravviverà, questo libro Il Rosso e il Verde ne farà parte. Siccome sono ormai un ottuagenario, lasciatemi un poco “sognare”: questo libro è arrivato con piedi di colomba (come avrebbe detto Nietzsche), ma resterà. Anche se per ora di esso importa e importerà a ben pochi.

La questione dell’essere SOCIALISMO ha poi un avvitamento ulteriore assolutamente fondamentale: è appunto il legame cultura-politica nel fare un partito vero, e non un piccolo autobus per fare un pezzo di strada, come quello che serve a tante mezze calzette vestite da festa che agitano la coda solo per quel che si sa.

Cultura e politica sono interconnesse, non in senso scolastico, ma come anima e corpo. Lenin diceva che base del partito era la dottrina rafforzata dalla disciplina e dalla divisione dei compiti. Ormai è troppo (la “dottrina” è “una pretesa”: con buona pace di chi credeva di possedere, nel marxismo, una scienza sociale politica sicura come quella di Newton, Galileo o Einstein, com’erano stati, tra tanti, Lenin o ancora Althusser[20], per non dir di Bordiga, che ci credeva più di tutti).

A parte il leader e i leader, e un assetto interno che contemperi pluralismo e unitarietà, ci vuole insomma, per fare qualcosa che nella storia venga da lontano e vada lontano, un comune sentire, una specie di religione civile, un mito collettivo, un insieme di idee forti, una narrazione, una concezione del mondo, un ideale comune (per me Gramsci è “tutto qui”, nell’aver trasformato in istanza di nuova cultura o persino di “concezione del mondo” en marche, e quasi di religione civile dei lavoratori, quello che negli altri comunisti e socialisti marxisti pretendeva di essere scienza economico-politica di tipo “oggettivo”)[21]. Se non c’é questo, se non c’è una grande cultura politica, e in altri tempi religiosa, come base comune; se non c’è un pensiero forte condiviso; o se c’è, ma è volatile, se è qualcosa che evapora in cielo, non dico come cosa per non essere volgare, non si va da nessuna parte.

Vale per tutti e tre gli “ismi” egemonici, in forma democratica o autoritaria, dal 1900 a oggi, a livello delle grandi masse: Socialismo, Nazionalismo e Cristianesimo politico. “Non di solo pane vive l’uomo”. Se non ha una grande fede che gli scaldi il cuore, e per cui pensi che potrebbe lottare una vita, talora sino alla morte, l’uomo diventa una canaglia. E se è vero che ormai ciò è impossibile, vorrà dire prevalgono le canaglie o, peggio ancora, le nullità. Ma non è così: solo che in questa fase la fabbrica del futuro non è più a sinistra, finché questa non riuscirà a rinnovarsi profondamente, come forse hanno fatto i suoi avversari, naturalmente a fini opposti ai suoi.

Sembra un discorso astratto, ma non lo è: il Socialismo vuole un mondo senza padroni; vuole risolvere la questione sociale; vuole dare lavoro e rendere lavoratori tutti, e dare a tutti i lavoratori il potere, dal luogo di lavoro allo Stato (da sempre). Il Nazionalismo vuole indurre tutti i cittadini, talora strattonandoli parecchio (magari a legnate, con o senza parlamentarismo), a collaborare tra loro come fossero un tutt’uno (una fratellanza nazionale), in modo da affermare il primato della nazione, dentro la testa di tutti i cittadini e ove sia possibile nel mondo, in cui si dovrà almeno fare in modo di essere ascoltati e rispettati. Il Cristianesimo democratico vuole affratellare tutti esso pure, ma in modo volontario e su una base di reciproco amore, o simpatia, senza lasciare nessuno indietro, e senza costringere nessuno, per quanto possibile.

Se uno dei “tre ismi” ricordati decresce, l’altro ne prende subito lo spazio (il posto). Così sembra andare tutta la Storia contemporanea. Potrei fare molti esempi, ma ve li lascio immaginare.

Ciò posto, andiamo al dente che ci duole di più: la grande crisi della sinistra. L’evaporare del Socialismo, anche in Italia, ha fatto il gioco o del Cristianesimo “politico” oppure del Nazionalismo (ma ciascuno degli “ismi” può provare a ragionare così a partire dal “proprio”, perché il ragionamento che propongo è politologico). Il PD, a furia di aggiungere acqua al vino rosso del Socialismo (di cui ho detto or ora il MCD), è diventato “Centro”, una specie di DC “laica”; ma il Centro, tanto più dopo essere sempre stato al potere quasi sempre nella storia della Repubblica, e quindi essendo arrivato già nel 1994 e oltre se non “nudo alla meta” solo in slip, snaturandosi ha dato sangue al Nazionalismo. Moltissimi operai votano Lega, essendo iscritti alla CGIL, oppure votano Fratelli d’Italia. Tanti anni fa un vecchio studio aveva mostrato come in una grande città operaia e rossa della Germania, gli abitanti, negli anni Trenta del Novecento, fossero diventati, da comunisti, nazisti[22].

Si dice che questo accade perché non si è più andati tra gli operai, eccetera eccetera. Ma perché non ci si è più andati, e se uno lo facesse davvero come quaranta o cinquant’anni fa, quando la “classe operaia” andava “in paradiso”[23], perché apparirebbe uno svitato?

È presto detto. Se tu smetti di avere l’ideale pratico di un mondo senza padroni (socialista), in cui i lavoratori siano padroni nell’economia e nello Stato, o quantomeno le imprese diventino cooperative più o meno ugualitarie “per davvero”, o partecipino in modo forte agli utili e qualcuno di loro sia nei consigli di amministrazione, e tutti possano lavorare, e i servizi sociali siano per tutti, e smetti insomma di avere – come Partito – un grande sogno redentivo comune, perché dovresti andare tra i proletari? Solo per portare i vestitini ai bambini come una volta la San Vincenzo con i più poveri? Non scherziamo. Chi lo fa ha tutta la mia ammirazione, e forse se avessi vent’anni lo farei pure io, ma la Storia non muta così.

Se si vogliono conquistare le masse bisogna ritornare al Socialismo, certo rinnovandolo perché le minestre riscaldate non sono mai buone. Non bisogna rifondare per l’ennesima volta lo stesso partito, ma ad esempio cambiare il Partito Democratico in Partito Democratico Socialista avrebbe molto senso. O se non si fa questo si dovrebbe fare un vero Partito Democratico e Socialista a misura dei problemi del XXI secolo, mentre sembrano volerlo solo i malinconici reduci di mondi scomparsi, che in qualsiasi ambito ideale sono patetici. Comunque – ovviamente in forme rinnovate, e non certo “reducistiche” – l’Idea Socialista, come l’Idea Nazionalista o l’Idea Cristiana, hanno un senso. Il Socialista che perde l’A, B, C del Socialismo, il Nazionalista che perde l’A, B, C del Nazionalismo, il Cristiano democratico che perde l’A, B, C del Cristianesimo, non hanno potuto, non possono e non potranno riconquistare o conquistare il cuore di grandi masse se non in modo effimero. Oggi puoi essere al 30 e domani al 10% o al 5%. Perché il consenso è occasionale, come “la donna mobile qual piuma al vento” della nota aria d’opera[24]. Ma se il consenso non diventa o ridiventa stabile o “abbastanza” stabile, puoi fare un po’ di cronaca, ma non “la storia”.

Dovrebbe pure essere un partito che consenta i gruppi o correnti, ma ponendo paletti, norme, ben fissi. A sinistra, dove non c’è il mito del Capo, ma della distruzione del Capo (anarchico), le regole ci vogliono. Il grande Nello Rosselli nel 1927 scrisse il libro Mazzini e Bakunin. Il movimento operaio in Italia dal 1860 al 1872.[25] La nostra sinistra ha radici libertarie (i nostri simpaticissimi archetipi). Ma il parlamentarismo puro, che Marx a livello di Stato nel 1850 chiamava cretinismo parlamentare[26], dentro il partito trasforma una bella attitudine libertaria in una maledizione del cielo. Quindi ci vogliono leader forti, idee socialiste rinnovate (per me rosso verdi e spirituali, ma non è detto che le idee socialiste non possano e debbano essere, a confronto, anche altre, ma all’ombra di regole di convivenza certe).

Il concretismo

Se ci sono tali dati, il pragmatismo democratico di governo, quello caro a Calenda, ma pure a Fabrizio Barca, o a Renzi, o a Draghi, o ad altri, paga. E se no, non basta: perché per quanto decisivo, assolutamente decisivo, il concretismo riformista non basta a cambiare la storia. Napoleone diceva che la guerra era una cosa troppo seria per lasciarla fare ai suoi generali. Ci vogliono, ma non bastano. Così sono i costruttori di progetti concreti, i cui campioni sono gli esperti, e in specie gli economisti (ma pure i bravi giuristi). Gli esperti, specie economisti e giuristi, in particolare studiosi di istituzioni politiche comparate, politologi delle forme della rappresentanza e della divisione e bilanciamento dei poteri, sono indispensabili – anche se demagoghi e cialtroni non lo capiranno mai – ma sono indispensabili inseriti e integrati nel gruppo dei politici e nella comunità dei militanti, con i loro leader elettivi e la loro vision comune. Allora anche le specifiche leggi per difendere le bollette per l’energia o per aiutare i senza lavoro e persino i renitenti al lavoro, o per combattere l’evasione fiscale, o gestire i migranti, o garantire l’ordine pubblico, o fare accordi europei, o migliorare la sanità pubblica, o dare un’educazione seria e al passo con i tempi, trovano l’aria buona che dà al concretismo la base necessaria.

Su ciò io riconosco una storica superiorità del Partito Democratico, che proprio in quanto erede dei primi due partiti della prima Repubblica (ex DC e ex PCI), sa governare meglio, con gente che ha capito quanto tali cose siano importanti. Purtroppo senza “tutto il resto”, o quasi, ciò non basta sia a essere partito di maggioranza, sia – come avrebbe detto Filippo Turati nel 1920 – per “Rifare l’Italia”[27].

Culture politiche che diminuiscono e culture che crescono

Comunque se un “ismo” diminuisce, l’altro “ismo” cresce e si pappa pure il meglio del tuo tesoretto. Certo anche per ragioni pratiche, ma non solo. In queste settimane ho partecipato a un convegno dell’Università del Piemonte Orientale in onore del mio amico ex preside e ordinario della mia disciplina in tale Ateneo, Corrado Malandrino, andato lui pure in pensione (ma, essendo meno vecchio, venuto al mondo nove anni dopo di me, andatovi ben dopo di me, che vi andai nel 2010). Nel preparare la mia relazione, in pratica su talune tendenze illiberali ed elitiste presenti nel socialismo italiano prima del fascismo, mi sono imbattuto in un’intervista del grande economista e sociologo Vilfredo Pareto del 1913, richiamata in un saggio di Malandrino. Pareto vedeva criticamente l’affermarsi del socialismo ultraparlamentare e diceva che i popoli hanno sempre bisogno di una religione (nel senso di “fede collettiva”). Se il socialismo, degenera in una modalità d’essere che un tale socialista riformista di Castellazzo Bormida quand’ero giovane sintetizzava nella formula “La politica l’è ‘n cumèrsi”, Pareto diceva che cresce la religione del nazionalismo.[28] Già il “leghismo” era ed è nazionalismo, o dell’immaginaria “Padania” oppure d’Italia. Naturalmente accade per ragioni profonde, nel senso che dà o sembra dare qualcosa che il Socialismo non dà più o dà solo troppo poco. Storia mondiale ed ora nazionale danno a quel ragionamento di Pareto un tocco persino troppo attuale.

Ma perché è accaduto, e soprattutto perché accade?

Al proposito distinguiamo, metodologicamente, tra il lato culturale e il lato politico della faccenda.

Può darsi che il Nazionalismo abbia saputo rinnovarsi, nel mondo, più del Socialismo o del Cristianesimo “politico”. Ho l’impressione che almeno sul terreno del pensiero politico minimamente pragmatico su scala macrostorica il Socialismo e il Cristianesimo democratico, non siano riusciti a rinnovarsi, ma o abbiano conservato i talenti dati loro dai padri o li abbiano sempre più buttati via. Non dico che non vi siano stati o siano apporti importanti, ma non su un terreno concernente l’idea socialista (o comunista). In Italia è persino scomparsa come identità ideale di riferimento.

Ma allora bisogna rimettere l’Idea Socialista, ripensata in base alle istanze ecologiche e federali-pacificatrici dell’oggi, e per me anche psicologico-spirituali, al cuore della politica. In caso diverso ci si estingue.

La quarta ragione della sconfitta della sinistra: l’incapacità di far vivere le diverse tendenze di sinistra, collaborazioniste come antagoniste, in relazione di unità nella diversità

Non si può far vivere un grande partito “senza identità”. Questa, però, è molto difficile da realizzare nel PD perché lì, volendo mettere insieme comunisti e democristiani cercando quel che li univa, si è fatto il partito “costituzionale”, in cui il “socialismo” è scomparso (com’è pure scomparso il comunismo e il cristianesimo democratico). Il problema, però, è che questo Socialismo non solo non è più l’anima del maggior partito progressista (potrebbero essere “cavoli suoi”), ma è che in Italia il Socialismo non è rinato neanche altrove, nonostante tanti tentativi, da Rifondazione Comunista a Sinistra Ecologia Libertà, alla Sinistra Arcobaleno, alla Sinistra, ai Verdi, a Azione (che si diceva “liberalsocialista” e legata al Partito d’Azione). Per me il punto chiave – che quando più di vent’anni fa abbiamo fatto la piccola associazione alessandrina Città Futura di Alessandria mi ha indotto a chiedere e ottenere che nello Statuto ci fosse l’opzione per una “sinistra inclusiva” – è che una grande forza d’ispirazione socialista si basa necessariamente sull’essere “plurimi in uno”, e non sulla “logica” del “Vengo anch’io, no tu no!”, presa splendidamente per i fondelli nel 1968 nella divertente e intelligente canzone di Enzo Jannacci. Per questo ci vogliono norme interne per regolare il pluralismo, ma soprattutto un grande rispetto reciproco e una grande simpatia tra compagni di tutte le correnti. E proprio questo non c’è. Eppure è il punto chiave del socialismo prima e dopo il comunismo nel mondo: l’amore della diversità interna, ponendo pure paletti, norme, contro gli eccessi del frazionismo e per ciò a favore di un governo interno elettivo, ma “forte”. Ma è soprattutto la cultura dello stare insieme che è da riapprendere. Ad esempio la DC ce l’aveva: certo perché il potere dà tante chances e quindi frena le tendenze reciproche a beccarsi l’un l’altro, ma anche per una cultura cristiana dell’accoglienza. Nel comunismo il diverso ha sempre messo a disagio e ingenerato pulsioni escludenti o settarie. Ma i grandi partiti socialisti e persino democratico progressisti sono stati e sono così (plurimi in uno), specie il laburismo (Tony Blair e Jeremy Corbin) e il democraticismo americano (Hilary Clinton e Bernie Sanders). Qui non si riesce a capire che le due ali opposte, per quanto possano ringhiare l’una contro l’altra, sono indispensabili alla vittoria del loro insieme. Invece qui non è mai stato così. E infatti la sinistra si è quasi sempre auto-sconfitta, in primo luogo per lo spirito di divisione, che avrebbe senso solo in un contesto insurrezionale, in cui la forza che vuole il potere dev’essere come un piccolo esercito. Ma dove la violenza rivoluzionaria sia da escludere, perché impossibile e persino dannosa alla “causa”, gli opposti dell’area debbono imparare ad armonizzarsi o sono fottuti entrambi. Questo ci mostra la storia, e persino la microstoria.

(Segue)

  1. Rinvio ai seguenti miei contributi: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, Alessandria, n. 3, 3 novembre 1962, p. 3; Lenin e l’attuale estremismo di sinistra, ivi, 19 ottobre 1963, p. 3; Attualità di Lenin, ivi, n. 4, 1970, p. 3; Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe” (Edizioni Dedalo), a. III, n. 4, giugno 1971, pp. 325-389; Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin, Tirrenia Stampatori, Torino, 197), pp. 169-231; “Liberazione sociale e liberazione delle coscienze nella storia del socialismo e del comunismo. Note e riflessioni”, in: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 155-252.
  2. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1512/1517, ma postumo 1531), Introduzione di G. Sasso e note di G. Inglese, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984; Il Principe (1513, ma postumo 1532), con un saggio di R. Aron e nota introduttiva di F. Melotti e note di E. Janni, ivi, 1986. Con ciò rifiuto pure la lettura che vede il “vero” Machiavelli nel primo testo relativizzando il secondo, mentre avere il senso della complessità e unità significa cogliere la necessità dottrinaria e politica di entrambi. Ad esempio non mi ha convinto il Machiavelli repubblicano a tutto tondo di Maurizio Viroli, studioso per altro di primissimo livello, prima in Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 1999 e poi in Machiavelli: filosofo della libertà, Castelvecchi, Roma, 2013. Tanti anni fa, intorno al 1994, quando questo notevole studioso venne a tenere un seminario alla Facoltà di Scienze Politiche (in cui allora ero professore associato), apprendendo che era nato vicino a Predappio (Forlì) scherzosamente gli dissi, al bar, che veniva “dalle terre in cui era facilissimo confondere la repubblica con il principato”.
  3. L’articolo cit. di Mario Tronti apriva la serie del mensile “Classe operaia” ed è compreso nel suo libro Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966.
  4. G. Bocca, Togliatti, Laterza, Bari, 1973.A. Agosti, Togliatti, UTET, Torino, 1995. Ho discusso tale opera di Agosti nel mio articolo: Togliatti nella storia, “Il pensiero politico”, a. XXX, n. 1, gennaio-aprile 1997, pp. 90-94.E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, 1976. Raccoglieva le vaste introduzioni ai primi volumi delle “Opere” curati dal grande storico fiorentino, stroncato da un infarto nel 1975.
  5. Per il riferimento si veda: J. Humbert-Droz, Il contrasto tra l’Internazionale e il PCI (1922/1928), Feltrinelli, Milano, 1969.
  6. Il congresso di Livorno del gennaio 1921 era stato quello della scissione tra comunisti e socialisti. Una “Livorno alla rovescia” avrebbe dovuto riunificarli. Questo tra l’altro avrebbe pure offerto ai socialisti una chance di rinascita, realizzando quello che era stato dal 1946 prima il sogno di Lelio Basso e poi di Rodolfo Morandi: pervenire a un grande partito socialista di sinistra e democratico che unisse tutta la sinistra in un’ottica di alternativa, pure in contesto marxista occidentale.
  7. F. Livorsi, Quale forma-partito per l’Italia del 2000? ,“Il Ponte”, n. 4, 1990, pp. 7-21; La forma-partito comunista dalle origini alla Liberazione, ivi, n. 8-9, 1990, pp. 34-50; La forma-partito comunista negli anni della Repubblica, ivi, n. 10, 1990, pp. 34-50. Si veda pure la mia discussione del libro di Giorgio Napolitano “Al di là del guado” edito da Lucarini a Roma nel 1990: L’alternativa di sinistra e socialista di Giorgio Napolitano, “Il Ponte”, n. 5, 1991, pp. 68-77. Integra la mia Prefazione a un libro su Occhetto di cui dirò, pure autocriticamente. Tutti questi testi, direi di sociologia politica del comunismo italiano, mi sembra che possano essere considerati come parti di un tutto.
  8. F. Livorsi, I socialisti autobiografia della nazione, “Il Ponte”, n. 5, maggio 1992, pp. 17-57.
  9. Editori Riuniti, Roma, 1976.
  10. “Discorso di Bordiga”, in: Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito socialista Intaliano, Livorno 15 – 20 gennaio 1921, con l’aggiunta dei documenti sulla fondazione del Partito Comunista d’Italia, Edizioni Avanti!, Milano, 1962, pp. 271-296. che riproponeva tal quale il resoconto che il PSI pubblicava dopo ogni congresso (più l’appendice cit. sulla fondazione del PCI). Le posizioni dei comunisti “puri” scissionisti, furono illustrate da due grandi discorsi per la mozione (come per le altre): uno, conclusivo, è qiuello citato di Bordiga e l’altro, di prima presentazione della mozione, di Umberto Terracini, pp. 165-205. Di entrambe le orazioni, neanche di quella di Terracini, decisivo in quell’assise, non c’è traccia nel libro sulla scissione di Ezio Mauro, La dannazione 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo. Feltrinelli, Milano, 2021. Fu proprio la permanenza nello stesso partito dei riformisti socialisti, che per questo non poterono andare al governo con i riformisti liberali, nel 1919 come nel 1921, a lasciare senza sbocco politico democratico la grande crisi sociale e politico del primo dopoguerra. In generale le scissioni a sinistra sono sbagliate, ma l’idea del poter tenere insieme chi predicava la rivoluzione “come la Russia” e chi voleva governare con Giolitti non ha base storica. Chi bloccò, come un catenaccio, la situazione, furono i massimalisti, che tenendosi stretti ai riformisti ottennero di impedire sia che il comunismo nascesse come partito maggioitario, sia che i riformisti non andassero al governo con i liberaldemocratici. Queste cose in seguito furono chiare a Turati, come risulta dal suo discorso “Il primo maggio dell’Unità Socialista” (1930), in: F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. 1878-1932, cit., pp. 532541.
  11. Naturalmente sul PSIUP è fondamentale: A. Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013. Si confronti pure con: F. Livorsi, Una storia del Psiup, “Critica marxista”, sttembre-ottobre 2014, pp. 72-79.
  12. M. Lorusso, Occhetto. Il comunismo da Togliatti al PDS, Ponte alle Grazie, 1992. La mia Prefazione era alle pagg. 7-19.
  13. I riferimenti fondamentali in proposito sono: S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, 1979; i due volumi delle “Opere” di C. G. Jung “Civiltà in transizione verso la catastrofe” e “Civiltà in transizione dopo la catastrofe”, ivi, 1985, 10-1 e 10-2, che raccolgono gli scritti psicosociali; V. Pareto, Trattato di sociologia, Barbera, Firenze, 1916, ora in: “Scritti sociologici”, a cura di G. Busino, UTET, Torino, 1966 (da approfondire soprattutto per la teoria dei residui).
  14. F. Livorsi, Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Vallecchi, Firenze, 1991; Coscienza e politica nel mondo contemporaneo. Le motivazioni dell’azione collettiva dal XIX al XX secolo, Giappichelli, Torino, 2003; Politica nell’anima. Etica, politica e psicanalisi, Moretti & Vitali, 2007; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XX secolo, ivi, 2010.
  15. Si veda il lungo capitolo, quasi un libro nel libro, “Correnti del pensiero politico contemporaneo dal XIX al XX secolo e tendenze emergenti nel secolo XXI”, in: F. Livorsi, I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, 2007, pp. 181-359.
  16. Enrico IV di Borbone era dal 1572 erede al trono di Francia, ma i parigini, al culmine dello scontro tra “ugonotti” (calvinisti) e cattolici, essendo cattolici non volevano farlo entrare in città e lasciarlo incoronare a Notre Dame come re di Francia. Allora nel 1594 egli abiurò formalmente la fede ugonotta dicebdo che “Parigi val bene una messa”.
  17. “Città Futura on line”, 26 luglio 2022.
  18. F. Livorsi, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi della nuova terra, Giuffré, Milano, 2000.
  19. F. Livorsi, Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem, Torino, 2021.
  20. Per quest’aspetto del pensiero di Lenin si veda il suo saggio del 1894 Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici, Rinascita, Roma, 1951 (e Editori Riuniti, ivi, 1972). Ma pure, dello stesso Lenin, K. Marx (1914, ma 1915), in: “Opere complete”, Editori Riuniti, 1956, vol. XXXVI, pp. 37-79. Ma si veda pure: L. Althusser, Per Marx (1965), Editori Riuniti, 1972, e soprattutto Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969. Per il socialismo preteso “scientifico”, di tal genere, la storia sarebbe quale le leggi economiche la fanno essere, di cui volenti o nolenti i singoli sarebbero “longa manus”, meri strumenti di un’economia in divenire che in prima o ultima istanza li travalica sempre. Questo scientismo, in lui con forte anti-idealismo e anti-volontarismo, era proprio di quello che per molti anni parve a parecchia gente, ma non a me, il maggior filosofo marxista in Italia, Lucio Colletti, autore di Il marxismo e Hegel, Laterza, 1969. Di smentita in smentita del necessitarismo storico, divenne berlusconiano, e oggi alla Camera c’è una sala a lui intestata in cui si riunisce la destra.
  21. A. Gramsci, Quaderni del carcere (1929-1935), Edizione dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi.
  22. W. S. Allen, Come si diventa nazisti, Einaudi, Torino, 1965 (ma ripubblicato con Introduzione di L. Gallino nel 2005). Esamina minutamente una cittadina operaia di 10.000 abitanti, Nordheim, nell’Hannover, diventata tra 1930 e 1935 da roccaforte della sinistra roccaforte del nazismo.
  23. E. Petri, La classe operaia va in paradiso: film del 1971, tra le maggiori espressioni del mito operaio di quel tempo.
  24. Si tratta di una famosa aria del Rigoletto di G. Verdi, del 1851.
  25. Einaudi, Torino, 1972.
  26. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 157.
  27. F. Turati, Rifare l’Italia (26 giugno 1920), “Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932”, Introduzione e cura di F. Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 359-406.
  28. Si tratta di un’intervista di Pareto del 1913 che C. Malandrino cita nel suo saggio Pareto e Michels: riflessioni sul sentimento del patriottismo, in: pp. 363-382 in: Fondazione Luigi Einaudi, “Economia, sociologia e politica nell’opera di Vilfredo Pareto”, a cura di C. Malandrino e R. Marchionatti, Olschki, Firenze, 2000, pp. 363-382.

 

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