Provaci ancora, Renzi

Fedele alla regola aurea che ogni nuovo partito in Italia – di successo o fallimentare – ha da essere personale, anche Renzi sta per varare il suo. Non era stato questo il caso con la conquista del Pd. Malgrado la sigla di Diamanti – PdR – e le intenzioni del fiorentino, quello fu – al più – un partito personalizzato. Con un fortissimo imprint del leader, ma solo fino a quando le cose andarono per il verso giusto. Poi, appena il vento cambiò, il Pd si è sbarazzato di lui. Come accadrebbe nella Lega. Che resterà salviniana soltanto se il Capitano riuscirà a rimontare il clamoroso autogol che si è autoinflitto. Altrimenti, si aprirà anche tra loro la guerra di successione. Il partito personale, nel bene e nel male, è un’altra cosa. Dipende in tutto e per tutto dal suo capo. Renzi ha capito la lezione. A non dargli pace in questi anni, molto più che i clamorosi errori commessi, è il fatto di non aver seguito il suo istinto dopo la sconfitta alle primarie contro Bersani. Oggi, è da lì che riparte. Farsi «una cosa tutta sua». Per valutarne le chance di successo, ci sono tre metri, o criteri.

Il primo è provare a stimare i voti che può raccogliere nell’urna. È il metro più ingannevole. I sondaggisti faranno le loro stime, rilanciate sui quotidiani. Ma ben sapendo che in un elettorato così volatile come quello italiano saranno dati molto aleatori. La prova del budino la avremo solo se – e quando – si andrà a votare. E, per il momento, Renzi non ne ha alcuna intenzione. Anche perché è nella – felice – condizione di avere già con sé un congruo drappello di deputati e senatori. Probabilmente destinato a ingrossarsi se la partenza avesse un certo abbrivio. Con un effetto a valanga che potrebbe, nel volgere di un anno, intercettare parlamentari dai gruppi misti e dai ranghi berlusconiani che non vogliono morire salviniani. Oltre, ovviamente, alla nutrita pattuglia di renziani più soft che restano, per il momento, nel Pd, salvo sganciarsi in un secondo tempo.

Il secondo metro, decisivo, è quello dell’organizzazione. Finora è rimasto avvolto in una nebulosa di comitati civici. Se c’è una vera ossatura, e con quali diramazioni territoriali efficienti, se ci sono fondi consistenti e – soprattutto – se c’è alle spalle una vera e innovativa piattaforma di collegamento web, lo sapremo – forse – alla Leopolda. Nella miriade di partiti personali fondati in Italia in questi anni, gli unici due che hanno «scassato» sono stati Forza Italia e i grillini. Non tanto per la straordinaria capacità oratoria dei leader – in questo, Renzi non è da meno – ma per le infrastrutture operative e comunicative che gestivano. Molto diverse, ma entrambe efficienti. Se Renzi non riuscirà su questo fronte, farà la fine di Mario Monti.

Per ciò che si è visto durante il suo regno da segretario Pd, è improbabile che abbia idee nuove e forze fresche da mettere in campo nella sfida organizzativa. L’unica da cui dipende la durata di ogni partito, collegiale o personale che sia. Si capirà tra qualche mese. La carta – e il metro – di riserva, è giocarsi il suo partitino personale solo sul breve periodo, in quel che resta della legislatura. Che sono, comunque, oltre tre anni. E in cui al governo – se riuscirà a durare – si spartiranno un bel po’ di risorse e nomine. Compreso il nuovo inquilino del Colle. Certo, colpisce che – alla vigilia del lancio di un nuovo partito – Renzi dedichi un’intera intervista alla difesa degli interessi fiorentini. Può darsi che anche questo dipenda dalle lezioni del passato. Il fallimento – e il rimpianto – di Renzi nasce anche dall’aver volato troppo alto. Piuttosto che riprovare il mare aperto, l’ex-sindaco potrebbe accontentarsi di riuscire a rincanalarsi nell’Arno. E il ritorno del rottamatore finirebbe – come spesso in Italia – con tanto rumore per nulla.

(“Il Mattino”, 16 settembre 2019).

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