Quale centrosinistra?

Le ultime settimane di questo caldo agosto, ci consegnano una situazione politica in movimento. Due fatti mi paiono degni di nota, almeno per quanto riguarda la limitata prospettiva italiana. Da una lato l’intervento al Meeting di Rimini di CL da parte di Mario Draghi e dall’altro l’alleanza del PD e dei 5 Stelle per un rinnovato centrosinistra. Prendiamo in esame, pur succinto e rapido, le parole di Draghi pronunciate a Rimini. Esse sono state lungamente commentate da tutti i giornali, l’intervento dell’ex Governatore della BCE è stato coperto da osanna unanimi da parte di grandi giornali, politici, commentatori più vari. Ha riscosso applausi e apprezzamenti sopratutto il passaggio sulle politiche per i giovani, per i quali servono ora meno bonus e più occasioni di lavoro.

Ottimo, e chi potrebbe dirsi contrario a tale disarmante verità, Monsieur Lapalisse!

Ma Mario Draghi è un generale ben superiore a tali banalità. Direi che nel discorso di Draghi, che è stato per sua stessa ammissione intervento etico e non di politica-economica, sono individuabili tre assi che sostengono l’intero ragionamento politico:

  1. La crisi sanitaria ha aggravato tutti i problemi economici preesistenti perché ha introdotto l’elemento dell’incertezza che blocca la ripresa e gli investimenti. La crisi determinerà dei cambiamenti ma non strutturali, il centro della riflessione di Draghi riguarda,infatti, una società di mercato che è in definitiva da preservare.
  2. Dalla incertezza si esce con un rinnovato ruolo degli investimenti che devono sostituire le politiche assistenziali attuali. Gli investimenti dovranno essere sostenuti nelle infrastrutture, nella industria verde, nell’istruzione per i giovani. Pare di capire, ma su questo Draghi non è esplicito, che il ruolo dello stato debba essere solo ancillare e di stimolo rispetto al mercato. Il debito pubblico così prodotto sarà buono e finanziato dai grandi investitori internazionali.
  3. Il multilateralismo e il processo di integrazione europea sono centrali per lo sviluppo di questa visione sociale, l’ordine giuridico resta quello di natura sovranazionale, il mercato è centrale come etica sociale e come meccanismo di sviluppo, che ove saggiamente stimolato dal pubblico, è in grado di garantire coesione sociale e benessere.

Il punto che mi pare debole di tutto il ragionamento è questo: è pensabile che sia ancora il mercato a garantire inclusione e sviluppo con tassi di finanziarizzazione e di indebitamento privato mai visti fino ad adesso? Non sono forse necessarie riforme più incisive sul lato non solo della domanda ma anche dell’offerta, diretta dal settore pubblico; e non è forse necessario modificare il peso che ha nella società il lavoro e i salari ridimensionando il ruolo della finanza? Inoltre, rispetto alla intervista di marzo sul Financial Time, Draghi non appare più così convinto che i tassi di interesse resteranno sempre bassi come è attualmente, ma il credito che i mercati stanno dando ai bilanci pubblici dipende da come saranno impiegati i disavanzi in termini di investimenti o di assistenza pura. Emerge, quindi, nel grande banchiere di esperienza internazionale qualche sbavatura nella rete protettiva delle argomentazioni tese a dimostrare che la logica del Mondo Occidentale è salda e garantita nel tempo. Non vi è, infatti, nessuna evidenza che saranno le imprese e le banche a riprendere gli investimenti in una fase di impegno pubblico dal lato dell’offerta, che resterà comunque debole e troppo schiacciato sulla esigenza di non far troppa ombra al mercato.

Ripeto, ho proprio impressione che servano elementi di cambiamento più profondi di quanto Mario Draghi non osi immaginare.

Passiamo alla politica italiana e in particolare alla politica di quello che si dovrebbe definire Centrosinistra. Molti prospettano dentro il PD, che rimane il maggior partito progressista malgrado tutto e ha le sue origini storiche nel processo che ha portato alla nascita dell’Ulivo, un ‘governo Draghi’, di larghe intese, che isoli le destre populiste e smembri i 5Stelle. Ma un governo siffatto ha due controindicazioni. Da un lato, il programma economico di Draghi spingerebbe il PD ha partecipare ad un governo che sposa le tesi di Confindustria e rompe i rapporti col sindacato e il mondo del lavoro. Sia detto allora con grande chiarezza; non esiste la possibilità di rinnovare e rilanciare il Centrosinistra senza un forte rapporto col sindacato e con le ragioni del lavoro, visto che è questa la base storica dell’Ulivo quando esso prende forma a metà degli anni novanta.

Il programma di Draghi porterebbe il PD a subire ulteriori e pericolosissimi salassi elettorali che quella organizzazione non può, ormai, più permettersi. Inoltre, non si comprende su che basi si fonderebbe tale ministero di ‘larghe intese’, non su basi elettorali certamente, perché le larghe intese le si comporrebbero con forze politiche centriste che sono minoranza rispetto alla destra della Meloni e  alla Lega di Salvini.

Ma anche in parlamento non vi sono numeri sufficienti e capacità per fare accordi politici solidi al fine di costituire un governo ‘del centro’ il quale si avvii a fare riforme socialmente dolorose e isoli i sindacati da un lato e la destra populista dall’altro; insomma una prospettiva parlamentare è del tutto irrealistica. Si delinea così un bivio al quale è posto di fronte il centrosinistra tutto e il PD italiano: scegliere la strada di una ricostruzione di una alleanza di centrosinistra imperniata sulla alleanza con i 5Stelle e con i moderati alla Renzi, oppure scegliere una definitiva deriva moderata alleandosi con liberali, berlusconiani per favorire il riaggregarsi di un centro politico in parlamento e nel paese.

Nel primo caso il PD tornerebbe ad essere un partito di sinistra per avere un ruolo in una nuova coalizione articolata in cui i democratici non possono lasciare il ruolo della difesa di certi ceti sociali ai grillini. Tale prospettiva è avversata dall’interno del partito di Via del Nazareno dai moderati che vedono in ciò la fine del progetto di partito a vocazione maggioritaria di natura veltroniana. Nel secondo caso, un grande partito di centro porrebbe comunque fine al PD per come è stato concepito fin dalle origini, ovvero compagine che non può definirsi se non esiste un campo di centrosinistra, e certamente una alleanza di centro e di ‘larghe intese’ porrebbe fine a qualsiasi idea di grande alleanza di centrosinistra nel paese.

Si tratta della crisi strategica e identitaria del PD che giunge finalmente al suo esito esplicito e non più mascherabile dietro inutili tatticismi. Del resto che cosa è se non il sintomo di tale impasse strategica il dibattito che si è acceso di fronte all’articolo che Goffredo Bettini ha vergato per il giornale il Foglio, che ha coinvolto in piccate risposte alle tesi lì esposte dal dirigente democratico parte dei moderati del Partito Democratico, in testa fra tutti Giuseppe Fioroni.

Non faccio il riassunto qui delle tesi di Bettini, che è sostenitore di un ritorno della distinzione fra moderati e sinistra, e di Fioroni, che, invece, continua a vedere nel PD il contenitore di centro e sinistra. Del resto su questo rimando ad un recente e ottimo articolo di Antonio Floridia sulla rivista online ‘Striscia Rossa’. Faccio solo alcune considerazioni finali. Chi crede ancora nel PD a vocazione maggioritaria e come forza politica che include sinistra e centro, non può fare finta che non siano consumati i due cardini di tale progetto politico; il partito ‘centrale’ nelle istituzioni e nel paese attorno a cui ruota tutto il sistema politico non ha più da tempo le dimensioni per tale ruolo, quindi, può essere centrale solo nella fantasia di dirigenti politici che rimuovono i dati della realtà. Inoltre, una rimonta elettorale del PD verso vette confacenti alle ambizioni sopra descritte richiede una forza politica coesa e di forte identità, non un partito lacerato, che ha vissuto per tanto tempo di forza non sua ma di rendita che le forniva più la storia della sinistra operaia che il cattolicesimo democratico, rendita consumata con drammatica leggerezza. Una deriva centrista e moderata non potrà che garantire il declino inesorabile della centralità del PD e non un suo rilancio, determinando dello stesso la subalternità a governi tecnocrati e alle destre di varia estrazione.

Di contro, il rilancio del centrosinistra con il PD come gamba sinistra di tale alleanza richiede, da parte dei dirigenti politici che sostengono tale schema, la capacità di rilanciare un progetto strategico di sinistra, chiarezza degli obiettivi di questa, ma, sopratutto, l’esigenza di rispondere alla domanda che cosa è la sinistra e che tipo di società essa si pone di ricercare con le sue forze e il suo impegno etico.

Sono temi per un congresso straordinario, come alcuni hanno anche richiesto, che però sarebbe bene che si svolgesse con le vecchie regole di un tempo e non con i personalismi e le chiamate plebiscitarie del popolo democratico a ratifica di decisioni già prese in altra sede. Se ciò avvenisse, credo che sarebbe il primo congresso utile a sinistra da molti anni a questa parte.

Alessandria 23-08-20                                                                                Filippo Orlando

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