Quel mite Salvini che ascoltava la luna…    (appunti su Fellini e Rota, musica e silenzio)*

«La Lettura» del 14 ottobre aveva dedicato la sua originale rubrica “Universi – Visual data” ai film e ai collaboratori di Federico Fellini, con un magnifico commento di Ermanno Cavazzoni. Il quale, per la verità, non dedicava neppure una riga agli esiti della complessa tabulazione, rivelando però, in compenso, generosi dettagli inediti sulle abitudini del Fellini lettore (cui non si può che rinviare: https://www.corriere.it/la-lettura/18_ottobre_14/lettura-359-contenuti). Ma l’interesse supera la  pura concomitanza. Da un lato perché Cavazzoni è, come si sa, l’autore di quel “Poema dei lunatici” (Einaudi, 1987) di cui Fellini si innamorò a prima vista, traendone tre anni dopo il suo unico “instant film” di trascrizione contemporanea, sia pure inventiva (da non perdere neppure le modalità dell’incontro: http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma-puntate/cavazzoni-ladattamento-di-fellini-ne-la-voce-della-luna/251/default.aspx). Dall’altro perché La voce della luna, con cui dettò, senza immaginarlo, una sorta di testamento morale e ideale, oltre che il suo ultimo film, è anche quello in cui si parla più diffusamente, sebbene in apparenza sub specie silentii, di musica. Qui si chiude il cerchio del rinvio al “visual data” del settimanale del “Corriere”, i cui compilatori hanno considerato, tra «chi ha lavorato più volte con il maestro nella sua carriera», sceneggiatori e direttori della fotografia, scenografi, attori e produttori, ma non musicisti. E con ragione, perché il relativo esito sarebbe stato presso che inutile: dei diciotto lungometraggi felliniani 1952-1990 (Lo sceicco bianco > Voce), i primi tredici, consecutivamente, hanno sfoggiato tutti a commentatore esclusivo in note Nino Rota. E andrebbero aggiunti gli episodi di Boccaccio 70 e Tre passi nel delirio, come i due film tv Block-notes di un regista e I clowns, in quest’ultimo caso con Rota parzialmente affiancato da Carlo Savina. Solo la morte prematura del compositore, all’indomani stesso della conclusione del lavoro per Prova d’orchestra, avrebbe impedito che non lo fossero i successivi ultimi cinque: nel ’90, al momento del conclusivo La voce, Rota in vita avrebbe avuto 79 anni, e il fatto che fosse ancora all’opera non avrebbe di per sé, sia pure quasi trent’anni fa, fatto notizia.

Non sarà certo da addebitarsi a questo doloroso imprevisto: ma è un dato di fatto che l’ultimo periodo della parabola creativa felliniana non sia stato, almeno dal punto di vista del botteghino, indipendentemente da qualità e riuscita dei singoli film, un successo. Da La città delle donne (1980) in poi, poco dopo il capolavoro assoluto Casanova (con cui, forse, avrebbe potuto considerarsi concluso quanto “c’era da dire”), pur raggiungendo ancora un esito di totale riuscita quale …e la nave va, Fellini aveva via via perso per strada quella risposta di massa al buio del pubblico, che ne aveva fin lì accompagnato la produzione. Del resto, al di qua e al di là del plebiscito per Amarcord, già soprattutto Satyricon quanto lo stesso Casanova erano stati vissuti come “difficili”. Si ricorda ancora il titolo allarmatissimo del settimanale dell’AGIS: “Un pubblico che rifiuta anche Fellini è malato”, apriva a tutta pagina, proprio riguardo all’esito della Nave, il «Giornale dello Spettacolo» (da che pulpito, veniva ovviamente da pensare al lettore non esercente…).

Sarebbe poi seguita l’angosciosa parabola di decadenza e morte del fatale 1993, che indusse ulteriormente a fasciare, nella memoria, di un velo mortuario difficile da sollevare la fase finale della creatività e della vita stessa del Maestro. Velario, insieme, uguale e diverso dal leggendario ma tremendo ammonimento rivoltogli da Gustavo Rol, secondo cui l’insistere nella realizzazione del Mastorna l’avrebbe condotto prematuramente ma in modo inesorabile alla fine. Fellini finì per rinunciare dolorosamente all’ambizioso e protratto progetto, ma il sacrificio non gli è valso…

Vidi La voce della luna al giorno stesso dell’uscita, 31 gennaio 1990. Mi trovavo con amici alessandrini a Verona, in visita alla mostra di Vasco Bendini: lo ricordo perché uscimmo a mezzanotte dalla sala perplessi, senza saper bene cosa dirne e pensarne. Infatti, stranamente, nel tornare a piedi in albergo non ne scambiammo parola. (Ricordo particolarmente questa coincidenza, perché da anni era ferreo rituale non scritto assistere ad ogni nuovo Fellini o Woody Allen con Enrico Foà, allo spettacolo tardopomeridiano della prima domenica di programmazione, discutendone poi in pizzeria. Fu l’unica trasgressione in proposito, e purtroppo non ci sarebbe più stata concessa un’occasione di recupero, né dal Maestro né soprattutto da Enrico!).

 L’attesa per il nuovo Fellini -che nessuno avrebbe mai potuto immaginare estremo: aveva compiuto da pochi giorni i settanta!- era stata forte. Passati già cinque anni dalla sorpresa -melanconica ma convincente- di Ginger e Fred, l’interludio solo melanconico di Intervista era parso appunto tale e, nel clima che il paese attraversava (governo Andreotti-Martelli: ripensato oggi sembrerebbe il paradiso terrestre!) in molti ci si aspettava una ripresa di quel discorso denunciante la sua progressiva e irreversibile berlusconizzazione, che il film con la coppia danzante Masina-Mastroianni aveva con molta nettezza impostato. Erano ancora i tempi del suo slogan “non s’interrompe un’emozione”, pronunciato toto corde nonostante i “rigatoni!” Barilla, il “bel paesaggio” Campari e lo stesso Villaggio riscritturato in nome e per conto dell’allora Banco di Roma. Veltroni l’avrebbe vanamente  tramutato nel grido di battaglia culminato in quel referendum sulla tv 1995 con cui l’elettorato italiano, da poco e momentaneamente affrancato dal governo Berlusconi I, avrebbe cominciato a far capire di che pasta ne fosse la maggioritaria profondità “silenziosa”.

Strano e particolarissimo, La voce: col fedele Pinelli e sé stesso, Fellini aveva inconsuetamente coinvolto in sceneggiatura appunto Cavazzoni. Rivisto oggi continua ad essere, almeno per me, una sorta di oggetto singolarissimo, difficilmente classificabile, ma che comunque colpisce per almeno due motivi estrinseci, oltre a confermare che l’ultimo Fellini aveva perfettamente intuito dove stessimo andando a finire. Il primo è quello ricordato in apertura: il secondo, suggestivo e potente, la eco, amplificata dal senno di poi del lungo periodo intercorso, del richiamo al silenzio che l’autore affida al personaggio di Benigni quando, nell’ultima brevissima sequenza, torna speranzoso -luna piena tacitamente incombente- alla stesso pozzo in mattoni attorno a cui la narrazione era iniziata, ammonendoci, ma quasi a mezza voce: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire».

Non sono sicuro che quanti abbiano vista a suo tempo l’opera ultima felliniana (anche perché, a occhio e croce, temo che in pochi provino l’impulso di rifarlo) ne ricordino bene nei dettagli i protagonisti. C’è la contrapposizione, su di uno sfondo di desolate assurdità/surrealtà quotidiane, tra due personaggi: il mitissimo, svagato e candido Benigni, che dialoga con la Luna (la quale peraltro lo prende in giro e si autointerrompe “per la pubblicità”…) e l’astioso e vendicativo “prefetto Gonella” impersonato da Paolo Villaggio (l’ultima incarnazione, virtuale, dello stesso Mastorna vagheggiata da Fellini). Ma quanti tra gli spettatori ricordano ancora che il primo personaggio, che in Cavazzoni ha cognome Savini, nel film prende invece quello di Salvini (anzi: “cosiddetto Salvini”, come gli dice la Luna)? Difficile concepire un contrasto più assoluto e stridente tra l’immaginario felliniano di allora e la realtà concreta di oggi!

Ma già al termine dell’incredibile danza volteggio-vintage col Bel Danubio blu che interrompe il rave party degli attoniti e poi plaudenti ragazzi, lo stesso “prefetto”/Villaggio li aveva a sua volta avvertiti: «Che ne potete sapere voi? Avete mai sentito il suono di un violino? No, perché se aveste ascoltato le voci dei violini come le sentivamo noi, adesso stareste in silenzio, non avreste l’impudenza di credere che state ballando».

Certo, il “messaggio” dell’ultimo Fellini è “conservatore” e se si vuole regressivo: basti pensare a Prova d’orchestra. E altrettanto certamente la lode del silenzio è un topos, del quale peraltro oggi avremmo disperatamente bisogno. Non solo come spettatori ormai troppo distratti (la musica della rétina di cui parlava Stan Brakhage: dov’è mai finita la capacità di gustarla?), ma come cittadini perseguitati quotidianamente dall’inarrestabile riecheggio giornalistico e televisivo dell’instancabile Salvini – quello vero  (ma la sua clonatrice mediatica è Iva Garibaldi, come Ivo era il “Salvini” felliniano!) col suo clone Di Maio in disperato quanto vano inseguimento. Ma in ogni caso possiamo ritrovarci una volta tanto tutti d’accordo: almeno sull’idea che il silenzio sia prerequisito indispensabile per raggiungere, ascoltare e apprezzare qualsivoglia musica autentica.

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 «Federico Fellini non sopportava la musica» ha scritto Paolo Russo («la Repubblica», ed. Firenze, 5 novembre 2011): «Lo toccava così profondamente da sconvolgerlo: gli bastava, come ricorda lui stesso, “che qualcuno battesse un tempo con le dita su un oggetto per esserne turbato”. Sola eccezione: quando serviva al cinema».
Ad ammetterlo fu il regista in persona, la mattina del 10 gennaio 1979, ospite di “Voi ed io”, fortunata trasmissione di lungo corso, affidata quel giorno da Radio Due ai modi affabili e colti di un nome adorato da chiunque ami la musica e il cinema: Nino Rota. «Era, quella» notava ancora giustamente Russo «al pari della tv d’allora, una radio di servizio pubblico per davvero: la facevano o l’avevano fatta anche persone come Carlo Emilio Gadda, Roberto Longhi, Emilio Cecchi, Umberto Eco. E non aveva paura, quella Rai, di affidare a Rota una fascia strategica e difficile, nella quale, per giunta, il musicista conversava con figure di spicco della cultura e dello spettacolo italiani con acuta, incantevole brillantezza. Il timore che la arbasiniana “casalinga di Voghera” non avrebbe capito, e dunque neanche apprezzato, non teneva ancora in ostaggio i palinsesti e i loro manovratori». Vale la pena ascoltarne una selezione, breve ma assai significativa (8’ su 40’: http://www.teche.rai.it/2015/12/nino-rota-e-federico-fellini-dialoghi-musicali/) dell’integrale proposta  alla Scala di Milano dal 3 al 5 dicembre 2011, nel quadro le celebrazioni per il centenario della nascita di Rota. Dopo l’anteprima –appunto in forma ridotta- al toscano festival “Europa Cinema” che allora si teneva al pucciniano auditorium “Caruso” di Torre del Lago, esattamente un mese prima.

Nella lunga galleria di rapporti artistici che il musicista intrattenne, quello con Fellini occupa il posto specialissimo già rammentato: una simbiosi creativa  – e un’ ininterrotta, fraterna amicizia – forse senza precedenti né ulteriori esempi. Rota ricordava il loro primo incontro per  lo Sceicco, sottolineando il fatto che, mentre lui al momento aveva già all’attivo oltre cinquanta colonne, Fellini fosse presso che un esordiente. Come tale, gli chiese di sostituire i suoi immutabili amori musicali (la circense “Marcia dei gladiatori”, “La Titina”…), con temi originali: «Se non fossi riuscito  a sostituire le musiche tanto care a Federico, legate al mondo del circo e a Chaplin, probabilmente il nostro sodalizio sarebbe finito sul nascere. Al contrario le nostre amicizia e collaborazione non si sono mai interrotte. Non è che Federico sia insensibile alla musica: è che ne rimane troppo colpito». Fellini, incantato dal dono rotiano di vivere letteralmente dentro la musica tutto il tempo, così replicava: «Tu caro Nino, quando scrivi musica sei capace di ascoltare la radio e sentire un suonatore ambulante che fa il suo concerto. Io invece voglio essere come un cane che vaga tra i cartocci e li annusa qua e là senza seguire nessuna regola. E non voglio essere imbrigliato dalla perfezione in nessun modo, è per questo che la musica mi incupisce, perché rappresenta la perfezione».

Totale e assoluta affinità per opposizione, quindi. L’unica presumibile ragione per la quale Rota non avesse firmata già l’opera prima di Fellini (Luci del varietà, 1950), è la sua coregìa, un po’… minoritaria, con Lattuada. Probabilmente  il più sperimentato compagno d’avventura -che “guidava” anche quale produttore, era di cinque anni più anziano e aveva già già sette film alle spalle- preferì in quell’occasione, forse anche per ragioni di budget, affidarsi al padre compositore, Felice, peraltro musicista assai in vista, stimato e seguito in quello stesso ambiente (il Conservatorio “Verdi” di Milano) in cui si era formato poi anche il giovane Giovanni Rota Rinaldi, nato una trentina d’anni dopo di lui. Del resto anche il di lui figlio regista non era reciprocamente sconosciuto a Rota, anzi: gli si era già rivolto ai suoi esordi (La freccia nel fianco, 1945; Il delitto di Giovanni Episcopo, 1947; Senza pietà, 1948) e avrebbe continuato a farlo anche successivamente (Anna, 1951; Mafioso, 1962).

Questi, per parte sua, era stato un bambino prodigio: già in età di undici aveva all’attivo una prima operina, Linfanzia di San Giovanni Battista, eseguita con successo in Italia e in Francia. Dall’esordio del 1933 (Treno popolare di Matarazzo: era appena tornato da un viaggio di formazione negli Stati Uniti e ne aveva solo 22), all’estremo (Uragano: Troell, 1979) avrebbe firmato oltre centocinquanta spartiti per lo schermo. Tanti per il cinema commerciale, ovviamente: ma anche con Castellani,  Soldati, Zampa, Comencini, Eduardo, Monicelli, Visconti, Bolognini, Pietrangeli, Damiani, Petri. Per limitarsi agli italiani: se si estendesse ancora l’elenco oltre frontiera, bisognerebbe partire dai due primi Padrini di Coppola, pure anche lui con un padre musicista, il leggendario maestro Carmine, a carico…

Dopo la scomparsa, quasi “a tradimento”, di Rota, Fellini sarebbe rimasto come disorientato. Avrebbe cambiato musicista, sulle prime, quasi a tentoni: Bacalov per l’infelice La città delle donne; Plenizio con l’assai più meditato e risolto e la nave va. Quando, con gli ultimi tre titoli (tra l’85 e il ’90: Ginger e Fred, Intervista, e appunto il conclusivo in tutti i sensi La voce della luna) sarebbe parso ritrovare un punto d’appoggio dialogante plausibile e gradito, nella persona del “più degno”, Nicola Piovani,  una nuova scomparsa repentina -ma stavolta addirittura la sua- avrebbe troncato in via definitiva ogni ascolto e ogni discorso. E quell’ispirato invito al silenzio mai sarebbe riuscito tanto inascoltato come oggi, ventotto anni dopo.

* il presente testo -con qualche variazione rispetto a Diari di Cineclub, 66, novembre 2018– riproduce  l’intervento tenuto a Tortona (Music Island Auditorium dell’Associazione “Paolo Perduca”) il 6 ottobre 2018, nell’ambito del 18° Festival Internazionale “Angelo Francesco Lavagnino – Musica e cinema” (direttore artistico Luciano Girardengo), con la partecipazione dei Cameristi dell’Orchestra Classica di Alessandria, (musiche di Lavagnino, Morricone e Rota a commento di sequenze da Fellini, Visconti, Leone e L.F. d’Amico), e dell’Ing. Federico Savina, storico tecnico del suono di Fellini. Voci narranti: Loretta Ortolani, con lettura di testi da Fellini e Rota, e Andrea Sisti quale presentatore.

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