RENOVATIO

 

Chi voglia questo mondo risanare,
è diventato del tutto “inattuale”,
come avrebbe detto il mio vecchio amico Nietzsche
nelle sue “Considerazioni” giovanili.

Talora penso di ripudiare il mondo malo,
come un neoplatonico e mistico antico,
che anelava solo a ricongiungersi con l’Uno.
Ma io vorrei farlo in modo differente,
con un ripudio che sia più solidale
verso la gente che come tutti noi deve campare,
e che sta male,
e in più viene ingannata
da furfanti e demagoghi senza pari,
che spesseggiano più della gramigna,
tanto che tanti simil folli, e simil folle
io non ne vidi giammai nella mia vita,
che pure oramai vien da lontano
essendo cominciata quando il famigerato Adolf
invase a tradimento l’immensa steppa russa.

Ora viviamo tutti al tempo del tramonto,
nel quale s’inabissa persino il sole rosso,
dagli Urali sino a casa nostra,
dal comunismo di stato al socialismo moderato,
tramite un’estinzione mai finita:
mentre il sole “verde” appena irraggia,
come luce riflessa che venga dalla luna,
pure se fosse il nuovo “sol dell’avvenire”
come vent’anni fa avevo argomentato
nel Mito della nuova terra,
e come Francia e Germania ora fan sperare.

Ma al “grande meriggio” del sole verde-rosso,
io certamente sarò uno stoccafisso,
anzi in decomposizione da vent’anni:
seppure “l’anima vive ancor”
sicché spero di vederlo dalle nuvole
come i “filosofi improbabili” del caro Magritte.
Mammona trionfava e trionfa nei cuori:
già prevalente prima, or li permea,
come se ivi non ci fosse altro,
in culo ai nostri sogni d’emancipazione,
che in una nuova forma radicale,
o in una forma persino moderata,
concernono le mosche bianche del mercato.

Il punto chiave è la mentalità,
basita in un mondo oramai globalizzato,
oltretutto esploso per ragioni sue
dopo la morte delle vecchie idee
sorte nei cento anni successivi al 1848,
e che ponendo tutti in concorrenza con tutti,
e ciascuno a ridosso di tutti,
quasi vanificando persino i confini,
ha ormai annullato ogni vecchia mappa
svuotando ogni ideale del passato,
addirittura di qualsivoglia colore
presso la grande maggioranza delle genti,
a parte forse i nuovi reazionari,
che vogliono arrestare un flusso inarrestabile,
che si potrà soltanto ritardare,
e che sono votati a peggiorar le cose,
perché quelli che camminan come i gamberi
dentro la storia sono sempre finiti nel fosso,
spesso provocando a loro stessi e a tutti quanti
immani guai,
mostrando che “il tacòn” era peggio “del buso”.

Nella sostanza ci siam rincoglioniti,
poiché tutti gli ideali son falliti,
ben prima dell’irruzione
del maremoto della globalizzazione,
qual fosse ab imis il colore amato
da ciascun cittadino dello Stato;
ma son falliti anche per questo:
perché tutti si erano imputriditi;
e tale vuoto non viene riempito,
non solo per carenza d’idee nuove,
che sono ancora nell’incubatrice
qualunque sia il loro colore,
ma perché troppi sono marci intimamente,
ritenendo persino naturale
il loro vacuo stile esistenziale.
Non è il solo motivo di tanta “décadence”,
ma è quello che ha pesato e pesa più di tutto,
e soggettivamente e intersoggettivamente,
e che infatti grava su tutti quanti noi,
sicché è quello che maggiormente vale
per intender lo scacco
di chi voleva il mondo trasformare.

In sostanza l’oscuro predatore
che sta acquattato pur nell’uomo dio a sé stesso
è risultato il tipo che più “piase”,
specie nel Cielo vuoto dell’”ultimo uomo”,
ch’è senza Dio, ma poi non va oltre l’uomo
introiettando dio dentro sé stesso:
perché preferisce rotolarsi dentro la monnezza
pur di non fare la fatica di cambiare
persino per “diventare quel che è”,
e perciò a scapito della “vita nova”.

Una conclusione pertanto ci s’impone:
la sola rivoluzione che si possa e debba fare
comincia nella testa di ciascuno,
da un singolo a sei miliardi di persone,
perché le altre vie già praticate
o erano illusorie già in partenza,
o son fallite irrimediabilmente,
sicché non vale pestar l’acqua nel mortaio
conoscendo già prima il risultato,
come ogni popolo ha oramai capito,
almeno sinché durerà la memoria del passato,
e pure della fanga del presente.

Forse potrà passare pure ‘sta nuttata,
non solo in questa nostra cara Italia,
ma in tutto il mondo che è detto civile,
per non parlare di quello miserabile;
o forse è il mondo stesso in quanto tale
a vivere in una notte senza fine,
come le pantegane o i barbagianni,
che son di casa nell’oscurità,
benché la nostra luce artificiale
sembrasse un tempo ogni strada illuminare,
tanto che credevamo venisse dal sole,
ovverossia dal reale più reale,
mentre forse era una nostra proiezione,
che aveva dalla sua ogni ragione,
per la quale aveva senso la scommessa
della totale emancipazione umana,
che però poggiava su una fragile premessa,
solo fondata sulla “volontà di credere”,
e che infatti in conclusione finì e finisce male.

Se non vogliamo da soli ingannarci,
come da sempre fanno gli ominicchi,
pare che quello che possiamo fare
sia sol mutare in interiore homine,
ché questo –
oltre ad aiutar noi stessi –
si è sempre riverberato sull’esterno;
pure sapendo che “i più” di ciò si fottono,
spesso scambiando ogni “trarse fora”
dal lor lottare per cazzate immani
con una qualche superbia intellettuale,
od egoismo attribuito facilmente
a chiunque faccia parte per sé stesso,
anche se uno cerchi il sommo bene
con atti e con parole a ciò conformi,
buone per sé, ma pure per il prossimo,
qual “animal cortese e benigno”
pure con le canaglie impenitenti.

Ciascuno deve rivoluzionar l’anima sua,
cercare lì il tesoro che dentro si nasconde,
che con pazienza ognuno può trovare,
ma solo con la pena del cercare,
perché per accedere alla natura naturante,
ch’è la più nostra e che ci fa felici,
quanto si possa dentro il nostro mondo,
bisogna lavorarsi “dentro”, nel profondo,
come allorquando si operava fuori,
perché pure per rinascere a sé stessi
in verità “non si danno pasti gratis”.

Ma questo ai più pare e parrà sempre cosa vana,
da abbandonare in un battibaleno –
sia partecipata lettura filosofica e religiosa,
o analisi o autoanalisi volte al Sé,
oppure una meditazione profonda
volta a svelare pur dentro di sé
l’eterno Sé alla radice della mente:
vite credute dalla folle gente
una palese dissipazione del tempo,
un crogiolarsi in sé stessi vanamente
“come non avessimo null’altro da fare”.

Invece chi lo fa si apre all’infinito,
all’eterno e pure all’empatia,
come se fosse inesausto scalatore
che cerca sempre la vetta del suo cuore,
o della mente che fonde logos e pathos:
il compimento dei sogni che facciamo;
l’uno ineffabile che noi pure siamo
come individui e come specie umana.

Quel che più vale comunque è nella mente.

Se lì non late, non c’è da alcuna parte
E potrà emergere soltanto di lì,
pure dentro la vita ch’è di fuori,
individuale ed anche sociale.

Nel Sé d’ognuno vive l’alfa e l’omega,
qual essere o quale presenza mentale,
ma sia essere o psiche poco cale
a chi viva a fondo una dimensione tale.

Ivi sono comunque ognor latenti –
sempre in attesa di essere accolti
dentro una volonterosa coscienza recettiva –
l’infinito, l’eterno e l’empatia,
che da quel buio possono irradiare
illuminando la caverna oscura
(mentre “da fuori” non emergon mai,
ché posson rimbalzare solo da dentro).

Per quello che concerne nostra psiche,
risana solo chi sia risanato,
e ciascuno l’aveva sempre intuito,
ma la ragione pragmatica l’aveva negato
sapendo che i più sono obnubilati,
e i consapevoli sono sempre troppo pochi,
perciò credendo che saremmo mutati
spezzando le catene che son fuori,
proprio così trasmutando i valori
diventando solidali intus et in cute,
rinati qual Fenice dalle ceneri.

Purtroppo è risultata un’illusione,

Infatti la via esterna è ognor fallace,
a meno che non venga dal cuore-ragione,
da un’anima intimamente trasformata:
al passato, al presente ed al futuro
(ché i due primi conducono a quel terzo).

Ciascuno nel suo essere profondo
può essere amico di tutti e del tutto,
del prossimo e della Natura sempre viva,
in ogni attimo della vita sua,
che nel suo Sé
è tutta pregna d’empatia, d’infinità e di eternità,
pure insidiate dalla contingentia mundi
persino dentro quei sacri recessi:
nell’intimo più intimo che è suo,
in cui s’annida minuscolo e terribile
pure il male di vivere,
e striscia anche l’animale irriducibilmente irrazionale,
da lasciar sibilare oppur latrare come Cerbero,
sino alla fine della vita nostra,
o quantomeno sino a che si possa,
senza pestare il cobra che giace con il Sé,
che raggomitolato solitamente è semiaddormentato,
e misteriosamente ha un ruolo nell’essere,
ma è periglioso come puro arsenico;
e senza risvegliare il can che dorme,
lupo mansueto o lupo famelico
pronto a aggredire il galantuomo passatore
se questi lo minacci col bastone
o lo sevizi con quel suo randello
pretendendo d’insegnargli a stare al mondo,
e proprio per tal via ingoiato dalla bestia,
come Cappuccetto rosso, ma senza il cacciatore.

Non bombardiamo il vulcano che brontola
pensando d’evitare l’eruzione.

Ma superato cautamente quel periglio,
la porta stretta si può spalancare:
così si tange il più intimo Sé,
si accede a un essere intimo e totale,
per nulla differente da noi stessi,
infinito, eterno e pure empatico:
un Sé che è in tutti “umano troppo umano”,
fallibile nell’intimo d’ognuno,
e accompagnato a una mala bestia aperta al male,
ma che è pure latentemente “oltre l’umano”,
con l’infinito, l’eterno e l’empatia,
che sono propri del dio che si fa uomo,
annidato pure nell’ultimo fesso della terra,
anche se lui preferisca imbestiarsi,
e sol per questo potrà dirsi fesso,
invece d’inoltrarsi sempre avanti
seguendo la “stella della redenzione”
che alluma la ragione e insieme il cuore.

Siamo siffatti in modo naturale:
fusione strana tra la bestia e il dio,
ma il nostro essere sortendo di fuori,
tra mille problemi e allettamenti del campare,
da più millenni sceglie l’animale,
la forma umana della serpe o cane,
il dio che si fa serpe e si fa cane,
a scapito dell’infinito, dell’eterno ed empatia
che per quanto latenti sono in noi.

In tale modo s’imbestia il dio interiore,
e l’uomo scambia l’infinito,
a cui per sua natura tende sempre,
con la Mammona dea dei nostri sensi
quando rimuovano le vette della mente:
l’eterno, l’infinito e l’empatia,
che sono poi, in tre, la stessa cosa.

Invece nel vissuto umano deve trionfare
il dio immanente che è pure latente,
ma che spesso si dissolve in fosca luce:
l“essere” infinito, eterno ed empatico,
il Sé che è rivoluzionario per natura,
libero e creatore intimamente,
riformatore pure dentro il cuore,
fiero di sé, ma solidale con ciascuno,
che è ognora raggomitolato nel suo divino stato,
oppure vivo e operante nel mondo terribile
al quale offre la luce che ha,
per quanto i più preferiscano “le tenebre”,
sebbene il buio pesto in cui l’anima è ammazzata
non sia mai stato status necessario,
neppure allorché venne Gesù Cristo,
per me non fatalmente crocifisso.

Era venuto per darci la Parola,
discorso sulla montagna e la rinascita offerta a Nicodemo,
e a insegnare a buttar fuori i propri demoni,
e non per farsi accoppare dai malvagi.

Ma se da molti punti d’infinito
può riversarsi quest’intimo Sé
che in ciascuno è “vero Dio e vero uomo” –
infinito, eterno e solidale;
se uno non opti per la serpe o per il cane
come migliore scelta esistenziale –
viene a mutare tutto quanto il mondo:
quello ch’era diviso si può anche ricomporre;
emerge la segreta armonia tra i nostri opposti,
suscitando pace, solidarietà e allegria,
in cui eros ed ethos fanno sempre festa,
sino a convertire il nostro pianto in riso,
e morte atroce in gioia di vivere,
e l’egoismo nella pura empatia,
e la guerra perpetua in fratellanza manifesta,
in interiore homine
e poi anche inter homines,
se necessario o salutare
mandando pure il mondo politico a fa’ in culo,
che forse è la sua destinazione vera.

Solo chi a sé e nel Sé rinasce
può ogni giorno mutare
il mondo intorno,
semplicemente diventando,
e essendo,
quello che è
alla radice del cuore e della mente,
che a vero dire in noi sono un tutt’uno:
sensazione e intuizione, sentimento e ragione,
indivisibili nella natura naturans dell’uomo,
tanto che razionale e irrazionale
dentro il profondo dell’essere umano
in tutti quanti noi giocano a palla.

A quanto pare un’altra via non c’è.
Oggi è inattuale qualunque via diversa,
e forse era illusione persino nel fuoco della lotta
dal 1848 sino ai giorni miei.

Solo noi ci possiamo trasformare,
e in tale caso muta pure il mondo,
come nella rivoluzione protestante,
che ancor si sente in tutto quanto il Nord,
persino dopo la “morte di Dio”:
perché ogni luce –
sia una candela, una pila, una lanterna o un faro in mare –
irradia sempre su tutto il mondo intorno
così aiutando gli esseri nell’Essere,
che nel Sé di ciascuno sono “uno”,
e forse “Uno”,
mentre camminano nella fosca notte,
che solo il rinascente può allumare,
mentre procede nella sua “selva oscura”,
da cui comunque si deve passare,
anche senza la “grazia” di nessuno.(1)

(1) Il 20 novembre il mio amico Pippo Amadio, che pubblica su Facebook anche autoironici “stornelli pippolari”, scriveva:
“Fior di liquame / mi piacerebbe assai sapere come / si possa ribaltar sto mondo infame”. Risposi in modo “spontaneistico” lì con la prima versione di questa poesia, poi profondamente rielaborata.

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