Romano Madera tra Marx, Nietzsche e Jung

Il libro di Romano Madera Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis Edizioni, Milano, 2018, pagg. 236, E. 20) è in gran parte la riedizione dell’opera prima dell’autore: Identità e feticismo, del 1977, scritta tra il 1974 e il 1976. Benché al tempo della versione originaria del libro Madera non fosse ancora trentenne, quel libro aveva concluso un ciclo di sette intensi anni della sua vita, in cui era stato un contestatore di sinistra assolutamente convinto e totalmente impegnato, nel Centro Gramsci, ma pure nella redazione di “Rosso”, a Milano. In certo modo il libro del 1977 concludeva il ciclo più engagé nella vita dell’autore facendo i conti con la teoria ritenuta da lui più importante in Marx: quella del feticismo della merce, espressa nei Lineamenti di economia politica (Grundrisse) e soprattutto nel Capitale, vagliato tramite riferimenti e riflessioni fondamentali su tutti e tre i volumi. Quindi Màdera – poi a lungo ordinario di Filosofia morale e di Comunicazioni filosofiche all’Università Bicocca di Milano, oltre che analista junghiano – prendeva veramente il toro per le corna, esaminando con approccio filosofico non già o non tanto il giovane Marx filosofo hegeliano di sinistra o post-hegeliano del 1841/1847, ma, e soprattutto, quello formalmente post-filosofico, economista in senso forte, preteso scientifico.

   L’edizione attuale è arricchita tramite due elaborazioni nuove o relativamente recenti di Màdera: Quaranta anni dopo Identità e feticismo, un messaggio gettato in mare dentro una bottiglia-libro, del 2017 (pp. 9/17) e il saggio Il codice genetico della civiltà dell’accumulazione nelle scoperte di Marx, del 2011 (pp. 19/32). Nonostante i quarant’anni trascorsi dal 1977 al 2017, l’opera evidenzia una grande continuità di pensiero. Il nucleo della valutazione, oggi espresso con maggiore nettezza e chiarezza rispetto a quarant’anni fa, è manifestato nelle seguenti parole: “L’opera di Marx è una diagnosi straordinaria, ma la prognosi è mediocre e la terapia una nobile speranza, rivelatasi cieca non meno di quelle di Prometeo, l’eroe mitico preferito della sua gioventù (p. 31).”

  Il punto chiave è lo scarto che c’è (o sarebbe) in Marx tra analisi economica della realtà del capitalismo e teoria rivoluzionaria volta a superarlo. La morfologia del capitalismo è convincente e sta in piedi, ed è carica di una vis polemica motivata e implacabile. Ma la luce in fondo al tunnel, la via per superare l’alienazione connessa al feticismo della merce e a tutta l’economia connessa del plusvalore e del profitto, o non c’è affatto o è sovrapposta all’analisi economica, da cui non deriva o deriverebbe affatto.

  L’autore ritiene che la teoria del feticismo della merce sia la base di quella del valore e di tutto il resto della costruzione economica di Marx. Il feticismo vede sempre rapporti tra cose invece che tra esseri umani (pp. 23-24 e soprattutto pp. 116-117). La vita economica e sociale sotto il capitalismo è sempre finalizzata al valore di scambio, al guadagno, al denaro, mentre il lavoro, ridotto esso stesso a merce comperata sul mercato tramite salario, è inteso come un’appendice delle macchine (p. 139n.). Ciò non accade perché, come in Heidegger e altri, l’universo tecnologico sia visto come una specie di mostro che tutto e tutti sovrasta essendo diventato da mezzo dell’uomo fine dell’uomo, ma perché la tecnica stessa è appendice del far soldi vendendo merci (p, 29), sino a rendere appunto merce anche la forza lavoro (salariata), cioè il lavoro umano, e persino l’operare di chi lo sfrutta. Così il lavoro da concreto operare, o arte, diventa un che di astratto, basato su leggi apparentemente oggettive valide per tutti (nella pretesa degli economisti classici, e degli economisti in generale, più o meno come le leggi cui il cittadino deve sussumersi). Non è più il tempo a essere per l’uomo, ma l’uomo ad essere per il tempo. Quel che si fa e soprattutto il modo in cui lo si fa (ossia forma e rapporti di produzione) appaiono qualcosa di ovvio ai servi o subordinati stessi. Se sul piano giuridico in Europa dal 1789 ci consideriamo uguali di fronte alla legge, e poi sempre più uguali nel voto, e tutti legati a un diritto che sembra impersonale, la stessa cosa accade, secondo Marx, anche sul piano economico, in cui il lavoro stesso si sussume a istanze superiori indiscutibili che sembrano valere, e anzi sono “fatte valere”, per tutti, come un lavoro “astratto” ovvio per ciascuno (pp. 98-99). La società che trasforma il denaro in merce, e la merce prodotta in “più denaro”, implica leggi economiche apparentemente oggettive, com’era parso il feticcio di Dio (o il Dio degli idolatri), prima della Modernità, pressoché a tutti quanti. Il “vero” – il meccanismo alienante della mercificazione pretesa fatale dei rapporti umani – può essere colto (Marx crede di averlo colto), ma è confrofattuale: è, insomma, qualcosa che non si vede perché il reale sembra dirci l’opposto, come quando gli antichi o medievali vedevano camminare il sole nei cieli intorno alla terra.

  Marx riteneva però che tutta la formazione economico sociale capitalistica fosse un che di storico e di superabile. In casa mia circolava un’edizione UTET del primo volume del Capitale del 1948, in cui Marx in una nota – che non ho poi trovato nella traduzione di Delio Cantimori – diceva di aver scritto l’opera per “far scoppiare i coglioni agli economisti della borghesia”. Quel che Smith e Ricardo avevano detto “naturale” o “scientifico” sarebbe stato transitorio, per quanto di lunghissima durata. Ma lo sarebbe stato solo in una società “collettivista”, in cui tutto prendesse a diventare, e diventasse, “di tutti”, cioè senza valore mercantile: superando il carattere mercificato del produrre e del lavorare. In sostanza finché le merci avranno o abbiano un valore economico, il capitalismo continuerà ad espandersi più forte che mai. Su ciò Màdera portava – sin dal 1977 – una documentazione, tratta da testi marxiani, impressionante (pp. 33-42, p. 125) . In sostanza la società socialista, e tanto più quella evolutasi sino al “comunionismo”, sarebbe quella in cui non vale più la legge del valore.

   Com’è noto, e come in diversi passaggi Màdera ricorda, questa visione era presto stata rimossa persino dal comunismo di stato. Ricordo che ancora in un congresso dell’Internazionale Comunista, credo il terzo (del 1921), Lenin diceva che con l’oro, “inutile metallo”, al compimento della rivoluzione mondiale, ritenuta prossima, sarebbero stati fabbricati cessi. Ma abbastanza presto, specie dal 1926/1928 in poi, il socialismo fu identificato con il capitalismo di Stato dominato dal partito detto comunista, in Russia e poi in tutti i paesi del socialismo reale, in cui tutte le “leggi” del capitalismo – connesse al feticismo della merce, e a valore, plusvalore e profitto – erano confermate (pp. 57-59) e semplicemente gestite dallo Stato. Questo naturalmente è stato legato alla tragica storia effettiva delle rivoluzioni sociali, ma il fenomeno che Màdera mette in luce è ancora più profondo. Marx non solo sarebbe stato “tradito”, ma avrebbe suo malgrado lavorato contro sé stesso dimostrando l’ineluttabilità economica del capitalismo anche per il futuro: un sistema che non solo si regge sul feticismo della merce, che è la base granitica della teoria del valore, plusvalore e profitto, ma che dimostrerebbe – già nell’analisi del Marx economista – di essere sempre più “naturale” (pseudonaturale) per gli stessi sfruttati. (Questi, in effetti, all’inizio erano duramente repressi perché non ne volevano proprio sapere della dissoluzione del mondo artigianale o contadino anteriore, sol che si pensi al luddismo, ma anche alla dura condizione giuridica imposta ai più poveri, come emerge nei Miserabili di Victor Hugo oppure in Oliver Twist o in Grandi speranze di Dickens). Ma via via le “leggi economiche” sarebbero state e sempre più sarebbero interiorizzate. Oggi diremmo che la stessa classe operaia si imborghesisce. Il sentirsi appendice dello strumento tecnico, ossia dell’assetto capitalistico, diventa “normale”. Non è più necessario “sorvegliare e punire” per ottenere obbedienza all’”ordine” borghese. Qui naturalmente ho fatto riferimento a Sorvegliare e punire di Foucault, con cui in Màdera emergono assonanze (p. 211): solo che molte cose relative alla repressione sessuale e all’evoluzione della disciplina imposta ai proletari via via interiorizzate, Madera le aveva evidentemente scritte un po’ prima di Foucault o parallelamente a lui: in parte perché vedeva lontano e in parte per un’influenza da parte di Wilhelm Reich, alias della sinistra freudiana, che operava ed opera all’interno del suo stesso solido junghismo, dapprima trasmessogli tramite analisi fatta con il suo collega e amico Paolo Aite (p. 14).

   Questo junghismo, che in Màdera incorpora pure componenti reichiane, è anche una conseguenza dell’analisi di cui si è detto. Marx, almeno come economista, finisce per essere stato più un involontario apologeta del detestato capitalismo (mostrandone ineluttabilità ed espansività mondiale), che non un suo superatore (almeno nel decisivo e vastissimo Capitale). La sua teoria della rivoluzione – legata “per li rami” alla dialettica hegeliana, e anche a istanze redentive, morali e sociali (per quanto “negate” come tali) – sarebbe sovrapposta alla critica dell’economia politica: economia che in lui darebbe sempre luogo ad una dimostrazione senza uguali dell’invincibilità economica del capitalismo in base alle sue “leggi” di sviluppo. E la storia avrebbe poi – lo si è detto – aggravato il quadro.

  Ma l’istanza della “renovatio” e post-capitalistica resterebbe: solo che essa potrebbe riproporsi solo su un terreno morale e spirituale (individuo per individuo). Si porrebbe il problema ineludibile di una “rivoluzione antropologica” (p. 25). Su ciò avviene pure l’incontro, in Màdera decisivo, tra Marx e Nietzsche (ovviamente anche loro malgrado). Marx comprende che solo un uomo rivoluzionario, e che fa la rivoluzione (p. 169n.), potrebbe – qui quasi come un deus ex machina – spezzare il meccanismo infernale del feticismo della merce e della relativa legge del valore o della produzione delle merci per denaro, quasi con uno scatto antifysis rispetto alla “normalità” del sistema economico. Nietzsche, per parte sua, pone il problema dell’oltreuomo. Ma quest’istanza di trasformazione dell’uomo, avant tout (anche se il tout, cioè il post-capitalismo, dovrà poi arrivare), per Màdera passa attraverso la rivoluzione psicoanalitica (pp. 15-16). Passa attraverso l’istanza nietzscheana e junghiana del “diventare quello che si è” (che è poi l’individuazione, ma anche “l’ideale” dell’analisi). Passa attraverso la “biografia” intesa come concretezza del singolo che lavora su di sé (ma nella storia), come già ci dice l’uomo che si fece Dio (Gesù Cristo, come mito di autorealizzazione infinita di sé, p. 17). Qui, in Madera, c’è una torsione finale che sembra essere più prossima, tramite l’influsso di Hadot, alla morale degli antichi di tipo stoico che al nietzscheano spirito dionisiaco (p. 216, p. 228) in cui il singolo prova il “sentimento oceanico” di superamento di sé (già ammesso da Freud, ma solo come caso limite, in dialogo con Romain Rolland all’inizio del Disagio della civiltà del 1929). Forse però l’istanza di infinitizzazione, che al Nietzsche più dionisiaco si connette (si pensi allo stupendo capitolo quasi finale del Così parlò Zarathustra intitolato L’ebbra canzone), potrebbe essere valorizzata persino di più, connettendo il forte bisogno di nuova morale sociale individualizzata (p, 232) ad una nuova religiosità in cammino. Credo che Màdera oggi concorderebbe totalmente, ma quarant’anni fa forse tali istanze erano solo in fieri.

 

(Il presente articolo riproduce, con variazioni assolutamente minime volte ad evidenziare il titolo del libro in oggetto nelle prime righe, la recensione di FRANCO LIVORSI al libro: Romano Madera, Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche, Mimesis Edizioni, Milano, 2018, pagg. 236, E. 20, comparsa su “rivista di psicologia analitica”, n. 46, vol. 98, 2018, pp. 330-334).

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