“Saraceni ad Acqui”

Avvertenze;

I fondamentali del testo – che i Saraceni volessero sfondare ad Acqui per entrare nella pianura padana e che una flotta saracena avesse appiccato incendi nel porto di Genova provenendo dalla Sardegna – è vero e comprovabile, i personaggi del testo sono immaginari o comunque non presenti all’assedio come nel testo si dice.

Giancarlo Patrucco

Con due cose s’acquista un regno, una color seta cinese, l’altra di zafferano:

E’ oro una, impressa con nome di re, è ferro l’altra, temperata nello Yemen.

Chi è mosso da brama di conquistare un regno, di spinta celeste ha bisogno,

Una lingua eloquente, e una mano aperta, vendicativo il cuore e insieme clemente.

Ché è preda il regno che non può ghermire né l’aquila in volo né il vorace leone.

Solo due cose lo possono ingabbiare: scimitarra indiana ed oro di miniera.

Con la spada bisogna conquistarlo, coi denari, se puoi, incatenarlo.

A chi abbia fortuna, e spada, e denari, non serve corpo slanciato, né stirpe regale,

Sapienza serve piuttosto, e munificenza e coraggio,

Ché un regno gratuito il cielo non dà.

(Abu Mansur Muhammad ibn Ahmad Daqiqi)

PARTE PRIMA

Il racconto

I

Il lupo grigio avanzava lentamente, aggirandosi fra i tronchi delle farnie che stendevano i loro mantelli lungo il pendio. Si era messo in movimento al calar del sole, quando il mare rinnova il suo ultimo assalto alla costa prima di acquietarsi nel buio. Aveva atteso quel momento accucciato in una forra, all’ombra, in compagnia dei suoi fratelli. Poi, appena l’aspro sentore del salmastro si era insinuato fin lì, le teste si erano sollevate di scatto e il branco aveva cominciato la sua marcia verso l’interno.

Seguendo una disposizione collaudata nei secoli, i cacciatori si erano dispersi lungo un ampio fronte, avanzando al piccolo trotto nel sottobosco, con tutti i sensi all’erta. Alle prime prede c’era stato il solito susseguirsi di zuffe e di ringhii, mentre il branco si disputava la carne rossa. Poi, col procedere della notte, le pance si erano riempite, gli appetiti si erano calmati e la spedizione era proseguita per istinto più che per necessità. Ora, mentre in alto il cielo accennava a schiarire, il lupo grigio procedeva solitario, muovendo il corpo sinuoso tra i cespugli di felce e di ginepro, macchia appena più chiara fra le tante macchie scure del sottobosco.

Con un balzo leggero scavalcò un grosso ramo abbattuto che si era messo di traverso. Poi si rifece gli unghioli contro un tronco e strofinò la pelliccia lungo la corteccia. Stava già pensando di tornare indietro, un po’ annoiato da tutto quel silenzio, quando le narici colsero nell’aria il fremito di una sorgiva che zampillava più sotto. Solo in quel momento il lupo si accorse di avere sete. Allora, con la lingua penzoloni, si mosse e, a piccoli balzi, caracollò agilmente per la discesa.

Qualche decina di metri più a destra, al limite tra la radura e il bosco, anche i cavalli sentirono l’odore dell’acqua. Quelli in testa alla colonna scartarono irrequieti, il piccolo morello in coda accennò un’impennata e nitrì. L’uomo che lo conduceva al passo tirò le briglie e gli accarezzò il dorso per acquietarlo. – Buono, Farad! Buono – sussurrò in una lingua aspra e musicale insieme. Poi, aiutandosi col chiarore della luna, si girò intorno guardingo. Quando colse il suono dell’acqua, si rilassò e accennò un sorriso. Lanciò un richiamo ai compagni che marciavano avanti e fece piegare il morello a sinistra, conducendolo verso la sorgiva.

Il nitrito arrestò il lupo a metà della sua corsa. Su quei monti non c’erano cavalli bradi e nessuno poteva saperlo meglio di lui che ne era il padrone. Quindi, doveva esserci qualcun altro. Molti altri, anzi, perché i rumori stavano aumentando e lo scalpiccio degli animali si udiva ormai distintamente sul terreno.

Incuriosito e anche un po’ sdegnato, il lupo rinculò con le orecchie frementi e la coda ritta, in attesa di vedere chi erano gli intrusi che osavano invadere il suo regno. Non dovette attendere a lungo. Di lì a qualche minuto, infatti, la colonna fu in vista. Gli uomini marciavano intabarrati per difendersi dall’umidità della notte, circospetti e silenziosi come fantasmi. Al lupo, però, non sfuggì il baluginio dei finimenti e neppure il tintinnio delle armi che portavano addosso. L’odore, poi, lo aveva già sentito: era quello degli incendi, del sangue e della morte che quei predoni portavano con sé lungo le valli.

Al lupo la prospettiva parve interessante. Così si mosse con cautela e iniziò un lungo giro che lo fece arrivare alla polla da sopravvento, per non allarmare i cavalli. Lappò a lungo l’acqua fresca, si rialzò, si diede una scrollatina al pelo e ricominciò le sue manovre, avvicinandosi silenziosamente alla colonna che si era messa in sosta.

Il campo era stato sistemato in una piccola radura tra gli alberi, proprio accanto alla sorgiva. Da una parte si erano raccolti gli uomini, seduti a confabulare in crocchio o distesi sotto le piante; dall’altra pascolavano i cavalli. Soltanto il piccolo morello, ancora irrequieto, se ne stava un po’ discosto dagli altri e il suo cavaliere lo accarezzava, parlandogli all’orecchio.

– Sagitto – disse uno del gruppo, alzandosi e andandogli incontro – gli uomini sono stanchi e vorrebbero mangiare qualcosa di caldo…

– E tu no, Bakthiar? – lo interruppe l’altro con un sorriso ironico. Il morello, da parte sua, abbassò la testa verso il padrone e soffiò rumorosamente dalle froge. Quasi a voler sottolineare la domanda.

– Vedi – osservò Sagitto, voltandosi verso il cavallo. – Anche Farad se n’è accorto.- Poi colse lo sguardo stolido di Bakthiar e capì che il suo sarcasmo andava sprecato. Allora si fece serio e guardò in alto. – Sì – disse – è ancora buio e il fumo non si noterà troppo. Però voglio tutti all’erta perché non si sa mai.

Sentendo una nota di preoccupazione nella voce dell’altro, Bakthiar s’incupì. – C’è qualcosa che non va? – chiese, preoccupandosi a sua volta.

Sagitto ebbe un gesto di fastidio. – C’è sempre qualcosa che non va, Bakthiar – disse, piantandogli in faccia due occhi puntuti come carboni. Quindi riprese la sua aria ironica: – Ma non ti scervellare. Qui siamo al sicuro.

– Certo! – assentì vigorosamente Bakthiar più sollevato. Poi proseguì di slancio: – Certo che siamo al sicuro! E ad Aquae faremo una strage, eh, Sagitto? Con un bottino come non si è mai visto!

– Certo, certo – bofonchiò Sagitto, che sentiva crescere l’irritazione dentro di sé di fronte alla sicurezza dell’altro. – Però, non bisogna mai vendere la pelle del lupo prima di averlo messo in gabbia.

– Ma noi siamo tanti! – osservò Bakthiar – e abbiamo i rinforzi della flotta…

– Appunto – lo interruppe Sagitto. – Vedrai che i tuoi rinforzi ti aiuteranno, specialmente quando ci sarà da dividere il bottino.

Bakthiar masticò a lungo quelle parole, deglutendo vistosamente e incassando la testa tra le spalle nello sforzo di comprenderne il significato. Alla fine, un barlume di comprensione gli accese gli occhi. – Vuoi dire… – mormorò pensoso.

Sagitto rimirò l’espressione intenta dell’altro e pensò che Allah non era sempre misericordioso. Per esempio, di Bakthiar aveva fatto un uomo grande e grosso, ma in quanto a cervello non aveva proprio ecceduto. – Certo che voglio dire – osservò a sua volta.

– Ma quelli stanno con noi! – protestò Bakthiar, col tono di un bambino a cui hanno tolto un gioco. – Sono nostri…alleati!

– Fin che gli fa comodo, Bakthiar. Fin che gli fa comodo.

– Allora… – disse l’omone spalancando la bocca come un pesce. Poi, non trovando altre parole, insaccò nuovamente la testa tra le spalle e lanciò a Sagitto uno sguardo supplichevole.

Sagitto provò pena per lui. Erano stati insieme in mezzo a tanti scontri e Bakthiar, a suo modo, era profondamente leale. Così allungò una mano e gli diede un buffetto sulla spalla. – Ma tu tranquillizzati – disse con tono rassicurante. – Se vogliono farci qualche scherzo, noi glielo impediremo.

Bakthiar lo guardò, ancora dubbioso. – Davvero? – disse.

– Davvero! – rispose Sagitto con aria grave.

A quel punto, la faccia triste di Bakthiar si aprì ad un sorriso. Restituì il buffetto a Sagitto, facendolo quasi traballare, e gli rivolse uno sguardo pieno di fiducia. – Allora vado – disse. – E starò all’erta, come dici tu.

Sagitto lo osservò allontanarsi. Poi diede un colpetto sulla groppa del morello e lo lasciò libero di pascolare. Quindi si sfilò l’arco che teneva a tracolla e si sedette ai piedi di una grossa farnia, appoggiandosi al tronco nodoso.

– Glielo impediremo. – Quelle due piccole parole erano bastate a rassicurare Bakthiar, ma lui, perché non riusciva a mettersi tranquillo? Eppure, le condizioni per fare un bel colpo c’erano tutte. La penetrazione verso l’interno era andata di pari passo con l’arrivo della flotta. Le galee saccheggiavano Genua e, intanto, le bande a terra mettevano a ferro e a fuoco le vallate, spingendosi sempre più verso l’interno.

Uno dopo l’altro erano stati conquistati tutti i centri costieri e, nell’entroterra, erano cadute le rocche di Cario, Millesimo, Cruce Ferrea. Mentre le schiere dei Saraceni scendevano le valli, colonne cariche di rifornimenti salivano per i versanti opposti. Frumento, olio, vino, bestiame, foraggio, ma anche pezzi più pregiati: suppellettili, monili, paramenti sacri e soprattutto schiavi, la merce più preziosa, pronta per essere esposta sui mercati di Damasco e di Baghdad.

Nella loro feroce avanzata i difensori della fede avevano spinto davanti a sé il gregge degli infedeli come fanno i pastori con le pecore. Ora, tutti i profughi e i sopravvissuti alle scorrerie si stavano riversando ad Aquae, l’ultimo e più grande centro del fondovalle. Prenderlo, significava avere la strada libera per le ricche pianure del nord.

Sagitto si leccò le labbra pensando ai tesori che lo aspettavano e alla fama che avrebbe guadagnato. Lui, piccolo montanaro berbero, ricordato come difensore della fede e sterminatore dei miscredenti! Ce n’era abbastanza per essere orgogliosi, paragonandolo con ciò che era quando lo avevano sbarcato su quelle coste, qualche anno prima.

Allora, quando la fusta spagnola lo aveva scaricato a Varagine con un gruppo di altri giovani animosi, si chiamava ancora Alì Khasim el Fezzani. Il nome altisonante, però, non bastava a dargli l’aspetto del guerriero e nemmeno a riempirgli di denari la borsa. Così aveva cercato di mettere a profitto quel poco che possedeva: cervello sveglio per individuare la preda, occhio acuto nel prendere la mira e mano ferma per tirare l’arco. La sorte, poi, aveva fatto il resto.

Durante una delle sue prime scorrerie, lui e la sua banda erano incappati in un brutto guaio. Insieme ad altri gruppi avevano risalito l’entroterra fino ad arrivare ai confini di una stretta valle, immersa nel verde e attraversata da un grande fiume. Il posto sembrava pieno di villaggi e ricco di prede, ma, proprio nel mezzo, era guardato da una torre appollaiata su una rupe inaccessibile. Da lassù le guardie potevano controllare tutta la valle e avrebbero sicuramente intercettato ogni avanzata. Così venne deciso di mandare avanti la banda di Sagitto, per cercare di espugnarla mettendo a tacere i difensori.

Quella notte, il giovane Alì conobbe che cos’era veramente la paura. Col cuore in gola scese nel letto del fiume seguendo i compagni. Poi, cercando di ripararsi alla meglio dietro la cortina della boscaglia, cominciò lentamente a risalirne il corso, orientandosi al tocco e scivolando sulle pietre viscide del greto.

In quella posizione erano difficilmente visibili, confusi tra le piante e il buio, ma bastava che alzassero gli occhi per vedere la sagoma della torre incombere su di loro, stagliandosi minacciosa al chiaro della luna. Era evidente che, nel caso in cui fossero stati scoperti, non ci sarebbe stato ritorno per nessuno. Quindi, mentre si avvicinavano incespicando, ognuno di loro biascicava preghiere e guardava in alto, con l’incubo del fuoco che poteva brillare in ogni momento lassù, in cima.

La strada sembrava non finire mai, mentre il carro della notte correva sempre più veloce. Quando il gruppo lasciò finalmente il fiume, le dita dell’alba già sfioravano i contorni della torre e si insinuavano nel suo grande occhio che guardava il vuoto.

L’ultimo sforzo, il giovane Alì lo fece con il fiato mozzo, risalendo l’erta accidentata e addossandosi allo strapiombo subito sotto la cima. Quella era l’unica zona coperta ma, per arrivare alla base della torre, c’era ancora un breve tratto dove sarebbero stati in vista piena.

Il gruppo esitò, conscio del pericolo che aveva davanti eppure consapevole che, ormai, non poteva più tornare indietro. Poi, il destino decise per loro. Sulla torre, proprio in cima, prese a baluginare una piccola luce che si muoveva avanti e indietro. Quindi una figura si sporse e lanciò un richiamo nel buio. Nessuno rispose, ma la luce cominciò a muoversi avanti e indietro, come se qualcuno maneggiasse un tizzone di brace.

Ormai non si poteva più aspettare. Persi per persi, i Saraceni uscirono dai loro ripari correndo e urlando a perdifiato, agitando le lance e impugnando le scimitarre. Il giovane Alì partì all’assalto con loro, sapendo in cuor suo che era tutto inutile. Che quell’uomo lassù li avrebbe visti e che nessuno sarebbe arrivato in tempo per impedirgli di dare l’allarme.

Poi gli venne un’idea temeraria. Si lasciò andare contro una roccia, si mise in ginocchio e tese l’arco. Con il cuore in tumulto e le mani tremanti, incoccò una freccia e la lanciò nell’aria. Il tutto in un unico movimento, leggero come una danza e rapido come la folgore. La sentinella, là sopra, non se ne accorse neanche, trafitta a morte proprio mentre stava per dar fuoco alla paglia.

Con il tempo, la storia era passata di bocca in bocca, ingigantendosi oltre misura come tutte le storie raccontate al fuoco dei bivacchi. Lui non aveva mai voluto vantarsene, ma aveva preferito lasciare che la fama di quel tiro si spargesse da sé. In un colpo solo ci aveva guadagnato prestigio, una parte di riguardo nel bottino della scorreria e anche un nome nuovo, che correva tra i campi saraceni così come nei villaggi dell’interno. Ora era il capo della banda più agguerrita della costa, aveva gente al suo servizio e una dimora sontuosa, ricavata, non per caso, nella grande torre cilindrica di Eca Nasagò, che svettava sopra Garexio.

Di quei momenti, comunque, rimpiangeva soprattutto l’ingenuità della giovinezza, quel buttarsi a capofitto nelle avventure senza starci troppo a pensare e senza altri calcoli che quelli necessari per battere il nemico. Da troppo tempo non si sentiva più così e temeva che non avrebbe mai ritrovato la vitalità di allora.

Anche l’arco non era più lo stesso. Prese distrattamente quello che aveva posato accanto e lo osservò. Il legno era accuratamente levigato, rinforzato ai lati da lucide borchie d’argento e intarsiato al centro della doppia curvatura. Un oggetto prezioso più che un’arma, ben diversa dal rozzo arco di pioppo con cui si era dato alla ventura.

La corda, poi, era un vero capolavoro. Una volta doveva farsi bastare la canapa e bisognava staccarla sempre dall’arco, per evitare che si allentasse per l’umidità e per la tensione. Quella che aveva tra le mani, invece, era fatta con tendini sottili, strettamente intrecciati, ed era sempre pronta all’uso, anche dopo una notte all’addiaccio. Però era talmente sensibile ad ogni minima variazione del braccio, da richiedere tempo e precisione per la sua messa a punto. Tutto il contrario del tiro istintivo di un tempo.

Sagitto scrollò la testa al pensiero. Anche l’arco si era fatto complicato come la sua vita. Quella flotta di Fatimiti, ad esempio. Lui non aveva niente contro i seguaci della figlia del Profeta, che Dio lo rimeriti sempre, però non si poteva negare che credevano di essere i padroni del mondo. Da quando avevano dato la fonda lungo la Matutiana, dopo l’impresa di Genua, anche l’ultimo dei marinai si era sentito in diritto di guardare tutti dall’alto al basso. Per non parlare dei comandanti, altezzosi e sprezzanti come visir.

Gli erano giunte molte voci su quello che i Fatimiti avevano combinato nelle isole a sud della lunga terra. Si diceva che in Sicilia avessero resa dura la vita ai primi conquistatori, tra cui tanti Berberi come lui. E che avessero sedato senza pietà ogni rivolta, spargendo più sangue musulmano di quello degli infedeli Rumi.

Una cosa, comunque, gli dava fastidio più di tutte le altre. Lui era un veterano del brigantaggio. Col tempo, era diventato un esperto nel tendere agguati e aveva imparato la difficile arte del nascondersi, così come la pazienza di aspettare che la preda finisse nella rete. Questi Fatimiti, invece, sapevano fare una cosa sola: urlare come dei forsennati e andare all’assalto.

Non a caso, erano stati loro a insistere per Aquae. Era nella loro indole buttarsi a corpo morto senza tanti calcoli. Sagitto, invece, avrebbe preferito circondare la città, farle terra bruciata intorno e aspettare. Poi, quando il frutto fosse stato maturo, un colpo solo e zac: Aquae sarebbe caduta nelle sue mani.

Senza rendersene conto, accompagnò i pensieri con un brusco movimento dell’arco che stringeva ancora in pugno. Fu sorpreso, dunque, quando qualcuno vicino a lui lo apostrofò.

– Sagitto. Ehi, Sagitto, che fai? La guerra da solo? – disse la voce di Bakthiar. Poi l’omone, sorridendo, gli porse una ciotola. – Tieni – aggiunse. – Ti ho portato un po’ di harisha. Mangia qualcosa anche tu.

Sagitto si riscosse come da un sogno e si maledisse per essersi fatto prendere di sorpresa. Poi si ricompose e allungò il braccio verso la ciotola che l’altro gli porgeva. – Ah, sei tu Bakthiar – disse. – Stavo riflettendo un po’.

– Altri cattivi pensieri? – chiese l’omone, accoccolandosi sui talloni.

– No, direi di no – mentì Sagitto. Quindi, per nascondere il suo imbarazzo, abbassò la testa sull’harisha e cominciò a pescare in quella densa pappa di grano e di montone. Il sapore non era granché, ma almeno era calda. Così Sagitto la trangugiò tutta, mentre Bakthiar lo guardava premuroso.

Finito di mangiare, il piccolo berbero alzò lo sguardo al cielo. – Ormai è quasi giorno – osservò. – Prima della preghiera, voglio che siano spenti i fuochi e legati i cavalli.

Anche Bakthiar guardò in su, verso il cielo che si stava tingendo d’azzurro. – Oggi non pioverà – disse soddisfatto, cominciando a rialzarsi per tornare indietro. Proprio in quel momento, però, si sentì distintamente un fruscio alle spalle dei due uomini. Bakthiar restò immobile dove si trovava, mentre la mano di Sagitto corse alla cintura.

Per alcuni, interminabili istanti, il tempo sembrò fermarsi. Bakthiar stava sospeso a metà, senza osare raddrizzarsi e neppure abbassarsi di nuovo. Sagitto teneva il manico del pugnale così stretto, da farsi sbiancare le nocche delle dita. Quando il fruscio si ripeté, entrambi presero ad arretrare lentamente, con gli occhi incollati alla macchia che si stendeva oltre la radura.

Raggiunto il gruppo, non ci fu bisogno di sprecare parole. Quella era gente abituata a trovarsi in situazioni difficili e a cavarsela in ogni occasione. A gesti, Sagitto fece segno di allargarsi per circondare la zona. Poi avanzò a sua volta, appoggiato da Bakthiar che teneva in pugno una grande mazza ferrata.

Nel sottobosco il lupo grigio avvertì che qualcosa era mutato. Prima, dal suo posto di osservazione, coglieva tutti i piccoli rumori del campo: le voci sommesse, l’acciottolio delle stoviglie, qualche breve risata. Ora, all’improvviso, più nulla, tranne lo scalpiccio intermittente dei cavalli. E gli uomini, dov’erano andati gli uomini? A fare cosa?

Mentre stava lì a chiederselo, la risposta arrivò dalle sue spalle. Avanzando a semicerchio, gli uomini stavano cercando di stanare qualcuno o qualcosa. Sentendo il frastuono che facevano, il lupo abbassò le orecchie disgustato. Poi socchiuse gli occhi, passò la lingua sulle zampe e si rialzò lentamente, mentre tutti i suoi muscoli si tendevano, pronti a scattare.

Il Saraceno non lo vide neanche. Riuscì soltanto a scorgere una massa grigia che gli piombava addosso, atterrandolo. Sentì degli artigli che gli laceravano la giubba e si trovò due occhi gialli piantati nei suoi. Allora si coprì la faccia con le mani e gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. L’urlo lacerò la quiete della foresta, ma il lupo non si scompose. Scavalcò agilmente il corpo steso a terra, orinò contro una pianta tutto il suo disprezzo e scomparve come un’ombra nella macchia. Agli uomini accorsi non rimase che accalcarsi intorno al malcapitato, riportandolo, più morto che vivo, alla sorgiva.

La preghiera del mattino, quel giorno, fu più lunga e sentita del solito. Dopo quello che era successo, nessuno era più disposto a sorvolare sui propri peccati e tutti quei feroci predoni salmodiavano con insolito fervore, lanciando sguardi furtivi intorno nel timore di veder comparire qualche altro spirito cattivo.

Sagitto non era superstizioso e, per quanto lo riguardava, i jinn apparivano soltanto nelle storie raccontate ai bambini. Eppure, quello strano episodio aveva finito col turbare anche lui. Così, mentre pregava, passò la mano sotto il barracano, scostò la tunica e tastò il sacchetto di pelle che portava legato al collo. Dentro, su un pezzetto di pergamena tutta consunta, c’era una scritta: “Non temere, Allah è al tuo fianco.” Visto il momento, un aiuto divino era proprio quello che ci voleva.

 

II

La festa dell’Assunta si annunciò con un sole splendente. Dopo il tempo piovoso dei giorni precedenti, quell’improvviso risveglio dell’estate confortava gli abitanti di Aquae, ma soprattutto i fuggitivi dalle campagne circostanti. Per loro era come trovare un’occasione di tregua, una pausa di spensieratezza in mezzo ai momenti cupi che stavano attraversando. In quei giorni di terrore, di fronte all’invasione saracena che stava montando, anche il cielo, scosso dai tuoni e dai lampi delle folgori, sembrava essersi chiuso alle speranze. Ora, la luce e il calore arrivavano ad infondere nuova fiducia, rianimavano gli spiriti e lenivano gli affanni.

Dall’alba il popolo di Aquae era in faccende. Sulla riva sinistra del torrente Medrico, subito dopo il ponte, c’era mercato nei pressi delle terme e dai bastioni sotto il vecchio castro risuonavano i comandi della rassegna d’armi; lungo la riva destra era tutto un brulichio di panni stesi davanti ai ricoveri dei profughi e di bambini che si rincorrevano in mezzo agli orti, tra il pollame.

In quella zona, cosparsa di ruderi e di case che erano poco più che capanne, spiccava la mole squadrata del duomo, intonacato di bianco. Nel grande spiazzo della chiesa nuova, consacrata a san Pietro, fervevano i preparativi per la novena e per la liturgia solenne che avrebbe concluso le celebrazioni. Una Messa particolarmente sentita quell’anno, perché tutta la città si sarebbe raccolta in preghiera, supplicando la Beata Vergine di preservarla dalla minaccia che si stava addensando. Così, mentre i servi dell’episcopato ripulivano lo spiazzo, alcuni chierici tiravano a lucido la chiesa, preparandola ad accogliere l’omaggio dei fedeli. O del popolo di Dio, come amava dire il vescovo Restaldo, aprendo il volto pacioso al suo solito sorriso, mansueto e soddisfatto.

Quel sorriso, unito all’aria mite e un po’ dimessa, era il modo con cui Restaldo amava presentarsi al mondo. In genere funzionava benissimo con le persone semplici, ma non mancava di conquistare anche i più altolocati. Ad Aquae, ad esempio, se il popolino si inginocchiava al suo passaggio e protendeva le mani a sfiorargli la veste, i maggiorenti cittadini facevano a gara nel cantare le laudi alle sue funzioni. Poi si accalcavano sul sagrato, ben azzimati e parati a festa, disputandosi l’onore di baciargli l’anello.

In tutta la città, l’unico che rimaneva immune da tanto fervore era Aleramo. Lui, di Restaldo aveva un’immagine differente, ricavata dai racconti di suo padre Guglielmo che lo aveva conosciuto quando il prelato stava alla corte di re Berengario, nella cancelleria regia. Lì, Guglielmo aveva visto all’opera un uomo ben diverso da quello che gli Aquesi amavano tanto: ambizioso, intelligente, calcolatore, tenace nel tessere intrighi e abile nel volgerli a suo vantaggio. Allora – borbottava il vecchio– il sorriso non riusciva a nascondere la brama che gli accendeva d’improvviso lo sguardo o gli faceva serrare le mani in un gesto nervoso, come quello di un rapace.

Proprio quello sguardo non aveva permesso ad Aleramo di godersi appieno l’investitura, quando re Ugo e suo figlio Lotario gli avevano conferito il titolo nel palazzo imperiale di Papia. “Conte di Aquae” aveva berciato Ugo porgendogli la mano, con la voce roca per il troppo bere. “Conte di Aquae” aveva detto Lotario, mentre un sorriso stento illuminava il suo volto da malato. “Conte di Aquae” aveva provato a ripetere lui, mentre si rialzava sorridendo e prendeva posto in mezzo ai due sovrani. Poi i suoi occhi avevano incontrato quelli di Restaldo, confuso in mezzo ai cortigiani. E quello sguardo freddo gli era sembrato valere quanto una sfida.

Eppure, la nuova carica rappresentava un bel passo avanti. Due anni prima aveva già ottenuto la corte di Auriola, ma Aquae…Aquae aveva un peso ben diverso: era qualcosa di speciale. In quelle terre desolate, a ridosso della costiera ligure, si giocavano i destini del regno. Di lì arrivava la minaccia saracena, che dominava il mare e risaliva verso l’entroterra cercando di stabilire un caposaldo nella pianura. Tenere Aquae significava lasciar fuori i Saraceni, chiudere le porte delle ricche città del nord in faccia agli infedeli. E, chi avesse compiuto queste gesta, lo avrebbe fatto sotto gli occhi della Cristianità intera.

Aleramo si sentiva nel pieno delle forze, pronto a cogliere la sua grande occasione. Non poteva lasciarsi intralciare da uno come Restaldo; quindi, tanto peggio per lui se ci avesse provato. Così, risoluto a farsi valere, era partito per la città, determinato a combattere i nemici dentro, come quelli fuori. Al seguito, un manipolo di uomini a cavallo, decisi e ben armati, guidati da Folco, il suo fidato scudiero.

Per la verità, Folco era ben più di uno scudiero. Dove andava Aleramo, un passo indietro c’era Folco, si trattasse di uno scontro armato, di una partita di caccia oppure di un semplice viaggio per affari. Qualunque cosa fosse, Folco era sempre lì, silenzioso come un’ombra e massiccio come una quercia, con le mani che parevano vanghe e un cespuglio di peli rossi che gli nascondeva il viso, rendendolo ancora più somigliante a un orso bruno. Aleramo si era così abituato ad averlo intorno, che a volte se ne scordava. Taciturno di carattere, riusciva quasi a specchiarsi nei silenzi dell’altro, rivedendo in lui molti dei suoi pensieri. Così, le poche parole dette sembravano l’eco di un lungo discorso a cui entrambi avevano partecipato.

Arrivando ad Aquae, però, ciò che videro tolse loro la voglia di dire anche quelle parole. Le vecchie mura romane della zona occidentale erano tutta una rovina. D’altronde, non erano state costruite per resistere a degli eserciti, ma per arrestare delle improvvise scorrerie. Non avevano camminamenti, feritoie o torri che rendessero possibile una difesa. Soltanto un muro, che i secoli avevano consumato e i saccheggi avevano provveduto a smantellare. L’amministrazione cittadina aveva cercato invano di ripristinarlo, puntellandolo qua e là, ma ne era risultata una protezione tanto misera, da convincerla a ritirarsi nella parte opposta.

Lì, una difesa poteva appoggiarsi su elementi di forza ben maggiori. Prima di tutto, l’altezza. In quel punto il profilo della collina s’innalzava bruscamente, rendendone difficile la risalita. Così, seguendo il profilo dell’erta, era stata edificata una nuova cinta, che racchiudeva al suo interno molti degli edifici più importanti della città. A destra rimaneva fuori soltanto l’antico complesso delle terme, proprio accanto al torrente Medrico. Era un punto nevralgico per la difesa, ma il corso d’acqua e la palizzata che ne delimitava il tragitto rappresentavano comunque due formidabili protezioni. A sinistra, infine, c’era il castro costruito dai Romani, là dove la via Aemilia si biforcava per aggirare l’abitato. Le sue fortificazioni erano ampie e solide, provviste di un profondo fossato e di un torrione che si profilava massiccio al centro del cortile.

Non era la prima volta che Aleramo aveva a che fare con i Saraceni e sapeva per esperienza che le postazioni fortificate li mettevano in difficoltà. D’altronde, non avevano quasi mai il tempo e neppure la capacità di costruire le macchine necessarie ad espugnarle. Quindi, decise subito quello che bisognava fare. Per prima cosa, rinforzare le mura orientali e presidiare il castro. Poi, all’arrivo dei nemici, abbattere l’unico ponte che univa le due rive del Medrico e rinserrarsi al riparo di quelle difese. Se la città fosse riuscita a resistere ai primi attacchi, i Mori avrebbero dovuto accontentarsi di saccheggiare le campagne intorno, prima di far ritorno ai loro covi.

Il piano sembrava ad Aleramo semplice e ben congegnato. Data la situazione, era anche l’unico possibile. Peccato, però, che tutti i lavori in corso fossero concentrati nell’altra zona. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire chi avesse potuto commettere un errore così insensato. Poi, mentre risaliva ancora una volta il tratto occidentale, Folco stese il braccio in avanti e indicò qualcosa. Aleramo si raddrizzò sulla sella, aguzzò gli occhi e, oltre la palizzata in costruzione alla sua sinistra, scorse in lontananza la sagoma di un grande edificio in muratura, con una croce in cima. Allora diede di sproni al cavallo, s’infilò in un varco della cinta e partì di gran carriera.

La chiesa risultò parte di un complesso più vasto, ubicato in uno spiazzo che si allargava quasi a toccare la sponda del torrente, lungo il percorso della via Aemilia in uscita dalla città. Riparati da bassi muretti a secco, c’erano alcune vasche per l’acqua, una stalla, un frutteto, un capanno e un magazzino. Tutti in perfetto ordine e nuovi nuovi, come se fossero stati appena costruiti Né Aleramo, né Folco ebbero bisogno di chiedere da chi.

Il vescovo non venne menzionato neanche durante l’incontro che Aleramo ebbe a palazzo regio con gli Aquesi. L’amministrazione cittadina ascoltò le sue ragioni, prese nota delle richieste e se ne andò, facendo molti inchini, ma dando poche rassicurazioni. Gli incontri successivi ebbero lo stesso esito, anche se Aleramo perse più volte la pazienza e trattò in malo modo i notabili presenti. Eppure, per mettere a punto le sue difese gli servivano soldati, rifornimenti, armi, attrezzature. E poi fabbricieri, carpentieri, capimastri, sterratori, che facessero i lavori di scavo, alzassero i terrapieni, rinforzassero i bastioni. Tutta gente che dipendeva dalla città e non era mai disponibile per lui, anche se lavorava alacremente nell’altra zona. Così, dopo settimane di inutili cipigli e di penose lamentazioni, aveva dovuto arrendersi. Il messaggio era chiaro: passare da Restaldo e vedersela con lui.

Combinare un incontro non era stato facile. C’era voluto tempo, e molta diplomazia, persino per trovare una sede adatta. Se il vescovo non riteneva confacente il palazzo regio, il conte dal canto suo preferiva evitare la residenza episcopale. Finalmente, dopo un fitto scambio di messaggeri, entrambe le parti avevano convenuto di potersi ritrovare nel castro.

Restaldo c’era arrivato in pompa magna, con tanto di portantina e pastorale. A sottolineare la sua posizione e il suo rango, aveva risalito l’erta della rocca seguito da uno stuolo di paggi e accompagnato dall’intero consiglio cittadino. Una volta dentro, aveva accettato l’ossequio della guardia e si era diretto verso la sala grande del torrione con l’incedere di un re.

Aleramo si era ripromesso più volte di mantenere la calma, ma quel codazzo e quella pompa lo infastidirono alquanto. Così, dopo che tutti si furono accomodati intorno al tavolo di noce che campeggiava in mezzo alla stanza, decise di andare direttamente al punto: – La situazione è particolarmente grave, Eminenza – disse con foga. – Da un momento all’altro potrebbero arrivare i Mori e noi dobbiamo prepararci a fronteggiarli.

Restaldo stava seduto su uno scranno coi braccioli, in mezzo ad un notaio che si chiamava Agicardo e a uno scabino che di nome faceva Roffredo. Alla nota d’urgenza nella voce del conte, rispose ostentando la massima tranquillità. Sollevò le mani inanellate, le congiunse sotto il mento e alzò gli occhi paciosi verso il suo interlocutore. – Se lo dite voi – fece con aria imperturbabile.

Visto il tono, Aleramo capì che sarebbe stata una giornata lunga. Così tirò un respiro e tenne a freno la rispostaccia che gli era salita alle labbra. – Non lo dico solo io, Eminenza – ribatté con più calma. – Lo dicono i loro movimenti, la direttrice dei loro attacchi e i profughi che continuano ad affluire. I fatti, insomma.

Un sorriso beffardo sfiorò le labbra di Restaldo. – Ah, i fatti – disse. – Sì, sono d’accordo con voi, conte. I fatti sono importanti. Ma, è un fatto anche che non stiamo parlando di un villaggio qualsiasi. Aquae è una grande città e ci vuole ben più di una banda di predoni per conquistarla.

– E’ vero, Eminenza – concesse Aleramo – Aquae è una grande città. Però rappresenta un passaggio obbligato verso l’interno. Quindi, verranno in tanti. Non una banda di predoni, ma un vero esercito, perché da Aquae passa la strada che conduce ad altre prede, ancora più grandi e ricche.

– Se quello che dite è vero – osservò Restaldo con cautela – dovremmo avere un po’ di respiro. Un esercito non s’improvvisa. C’è bisogno di tempo per radunarlo, armarlo, metterlo in marcia…

Aleramo non lo lasciò finire. – Tempo, dite? – e alzò un braccio a indicare la finestra che aveva di fronte. – Vedete, Eminenza, il sole s’incarica di darvi la risposta. In effetti, se ogni giorno piovoso di quell’estate strana aveva rappresentato un intralcio per le bande saracene, l’arrivo del bel tempo capovolgeva completamente la situazione. Il sole che entrava a fiotti nella sala significava che la marcia dei nemici si sarebbe fatta più spedita, i rifornimenti più celeri e la resa dei conti più vicina. Aleramo ne era sicuro – Il sole li aiuta – ripeté. – Saranno qui fra qualche giorno al massimo, se non prima.

Per la prima volta dall’inizio del colloquio, Restaldo parve sconcertato. Seguendo il braccio del conte, guardò fuori e assunse un’aria meditabonda.

A quel punto, Aleramo provò ad incalzarlo. – Credetemi, Eminenza – continuò – arriveranno presto e non abbiamo difese sufficienti per respingere il loro attacco. – Poi, per rafforzare la sua affermazione, spiegò una pergamena che stava sul tavolo e indicò la mappa che vi era tracciata. – Vedete: questo è il Borbore e questa è Aquae. Ora, capite anche voi che è un’estensione troppo vasta per essere difesa. E non abbiamo tanti uomini da sacrificare.

In quegli anni, oltre alla cura delle anime, Restaldo non aveva tralasciato quella dei corpi. Specialmente il suo. Così, con qualche difficoltà, sporse la pancia dallo scranno e abbassò la pappagorgia sulla mappa. Lo scabino e il notaio si curvarono a loro volta, aggrottando la fronte nel tentativo di decifrare un documento così diverso da quelli a cui erano abituati.

Aleramo li lasciò nell’imbarazzo per qualche momento, poi coprì con la mano la parte sinistra della mappa e disse: – L’unica cosa da fare è abbandonare questa zona.

Restaldo rimase immobile, come impietrito. Il suo sguardo andò dal viso del conte alla mappa e, quando lo rialzò, i suoi occhi erano ridotti a due fessure. – Sotto la vostra mano c’è la mia chiesa! – sibilò. – E le mie proprietà, anche!

– Scusate, Eminenza – scattò Aleramo – ma non l’ho costruita io la chiesa in quel punto! E nemmeno il resto! Siete stato voi, se non sbaglio.

Per un momento, Restaldo accusò il colpo. Abbassò la testa e fece tremolare la pappagorgia. Poi lanciò al suo interlocutore uno sguardo pieno di astio. – Non sbagliate, conte. Ma a voi spetta difenderla – disse seccamente.

– Sì, ma non a costo dell’intera città – replicò subito l’altro.

Restaldo sembrò meditare su quella risposta. Quando parlò, però, il suo tono era più conciliante. – Certo Certo – disse, sulla difensiva. – Il buon pastore si prende cura del gregge. Ma questo…questo è…

– Un sacrificio, Eminenza – osservò una voce piatta dall’altro capo del tavolo. – Di cui Dio vi renderà merito.

Preparandosi all’incontro, Aleramo aveva deciso di mettere in risalto le sue prerogative militari. Così, oltre che dall’inseparabile Folco, si era fatto accompagnare dai comandanti della piazza. Il più vecchio, un tipo robusto dall’aria dura, portava la casacca verde e rossa degli arcieri genovesi, con il berretto attraversato dalla piuma. L’altro, più giovane ma anche più snello, indossava una giacca grigia che frusciò leggermente mentre si alzava. Avvicinandosi al vescovo, il ricamo sul giustacuore brillò per un momento sotto i raggi del sole.

– Purtroppo il conte ha ragione, Eminenza – aggiunse, indicando a sua volta la pergamena. – Quello è il nostro lato più esposto, dove non abbiamo difese.

Restaldo lo guardò come se volesse incenerirlo. – Anche tu, Leonardo! – esclamò con una punta di risentimento nella voce. – Anche il comandante degli armigeri…contro di me.

Il giovane abbozzò un sorriso. – Non io, Eminenza…la situazione – disse, allargando le braccia in un gesto di scusa. – Che è quella che vedete.

– Non sempre le situazioni sono come sembrano, giovanotto – ribatté Restaldo con un sorrisetto enigmatico. Poi si girò verso Aleramo e continuò: – Voi, conte, lo sapete certamente meglio di me.

Aleramo, preso di sorpresa, non seppe cosa rispondere. Allargò le braccia a sua volta e scosse il capo. – Può essere – disse con cautela. – Anche se non capisco bene a cosa intendete riferirvi.

Gli occhi di Restaldo ebbero un lampo. – Non sta forse scritto che “il prudente conta più del robusto”? E che la saggezza è la virtù dei forti? – disse sporgendosi in avanti. – Pensateci, conte. Un uomo come voi sa che, a volte, la pace conviene…comprarla.

Quella parola restò sospesa nella sala a lungo. Dopo averla pronunciata, il vescovo aveva ripreso la sua aria imperturbabile. I notabili, imbarazzati, si guardavano la punta delle scarpe; Leonardo rimaneva fermo, in piedi, come folgorato. Soltanto Aleramo si contorse sul suo sedile, sentendosi improvvisamente a disagio. Nessuno meglio di lui sapeva che Restaldo aveva detto il vero. Più di un nobile, in quegli anni difficili, aveva pagato per avere ciò che non poteva ottenere con le armi. A volte si era trattato di evitare un assalto, una scorreria, un saccheggio condotto a fil di spada. In altri casi era stato anche peggio e l’argento era servito a comprare temporanei alleati da scatenare contro i vicini. Non era stato forse Berengario a pagare gli Ungari perché risparmiassero il suo ducato del Friuli? E non era stato forse l’attuale re, Ugo di Provenza, a venire a patti con i Saraceni? Di quelle cose si poteva parlare soltanto sottovoce, ma erano ben note in ogni corte. E Restaldo era stato un grande cortigiano.

Cercando di ragionare in fretta, Aleramo provò a mettere ordine nella ridda di pensieri che gli affollavano la mente. Prima di tutto, vista la disparità delle forze in campo, non poteva essere uno scambio alla pari. I Saraceni avrebbero comunque preteso un prezzo altissimo che l’argento, da solo, non avrebbe potuto soddisfare. Forse, addirittura la capitolazione, la resa incondizionata e l’abbandono della città, perché soltanto questo avrebbe consentito ai Mori di usarla come base per la loro avanzata nella pianura. Tutto ciò Restaldo doveva ben saperlo e, allora, perché se ne era uscito con quelle parole velate, quell’allusione ambigua, quell’accenno che diceva poco, ma lasciava intendere molto? Era veramente convinto di riuscire a cavarsela tanto a buon mercato?

Aleramo si passò una mano sui lunghi baffi chiari e se li lisciò con le dita, mentre il suo naso prominente fremeva, come quando era a caccia e si trovava incerto sul sentiero da imboccare. Così decise di saggiare il terreno intorno. – Scusate, Eminenza – disse – ma, se ho capito bene, voi proponete di aprire delle…trattative. Di andare ad un incontro, insomma.

– Un’ambasceria – replicò subito Restaldo.

– E per farne che? Per proporre quali soluzioni?

– Ma conte – esclamò Restaldo sorridendo. – E’ difficile dirlo ora. Ci vuole ponderazione, riflessione, pazienza. Intanto, finché si parla non si muore.

– Questo è vero – riconobbe Aleramo ricambiando il sorriso – e fa parte del vostro ufficio. Pertanto, presumo che l’ambasceria vorrete guidarla voi…

Restaldo gli scoccò un’occhiata in tralice, quasi divertita. – Suvvia, conte – sbuffò – sapete bene che la Chiesa non viene a patti con gli eretici, né coi miscredenti. No. La Chiesa li tratta con lo zolfo e col fuoco. Io mi limito a interpretare i desideri…anzi …le attese del popolo. Che è qui, ben rappresentato dagli uomini che mi accompagnano. – E fece un gesto vago con la mano.

In risposta, dalla parte del notaio venne un colpo di tosse che attirò l’attenzione di tutti. Sentendo su di sé tanti sguardi, Agicardo si contorse sul sedile, tormentando lo zuccotto che teneva in mano. Poi tossì di nuovo. – Qualcosa bisogna pur fare prima…prima del disastro – balbettò, tenendo gli occhi bassi.

– E’ vero! – lo interruppe lo scabino dall’altra parte. Quindi proseguì in tono risoluto: – Come dice il mio dotto amico qui, qualcosa dobbiamo pur fare. Siamo angosciati. Soprattutto per le nostre famiglie.

Aleramo guardò l’uomo dritto negli occhi e, come tante altre volte in quei giorni difficili, il pensiero andò alla sua, di famiglia. Alla moglie e al piccolo Oddone che lo aspettavano nella rocca di Auriola. Per il momento erano al riparo, ma la loro sicurezza dipendeva anche da Aquae e dalle sue vicende. Il cuore del regno, ormai, sembrava una cittadella assediata. Mori e Ungari chiudevano la piana italica in una morsa di ferro e di fuoco e persino la capitale, Papia, aveva subito l’onta del saccheggio. Cercare di resistere, di ributtarli indietro, non era solo interesse delle città più esposte, ma anche di quelle che lo sarebbero state subito dopo. Accettando la nomina, Aleramo si era assunto quell’onere ed era ad Aquae per assolverlo. Altrimenti, dove sarebbero finiti il suo prestigio e le sue ambizioni?

Per lo scabino e per gli altri come lui, era difficile capire tutto questo e impossibile accettarlo. Aleramo stava cercando il modo migliore di dirlo, quando una voce si fece sentire alle sue spalle: – A Genua non siamo scappati e non abbiamo intenzione di farlo adesso! – disse l’arciere in divisa rossoverde, alzandosi. Poi si levò il berretto, si avvicinò e mostrò una cicatrice rossastra che correva lungo la tempia, proprio sopra l’orecchio destro. – Ecco, vedete? – aggiunse.- Questo è un ricordo di quei cani e io sono qui per ricambiarlo!

L’uomo non era molto alto, ma la sua corporatura massiccia e l’atteggiamento risoluto lo facevano torreggiare su tutti gli altri. Al suo cospetto, il notaio Agicardo si raggomitolò ancora di più sullo scranno. Lo scabino Roffredo, invece, tentò una difesa. – Fate presto a dire, voi, capitano Grimaudo – sibilò – ma sono i nostri beni e i nostri figli ad essere in gioco…

Grimaudo non lo lasciò proseguire. Abbassò su di lui due occhi pieni di fuoco e lo prese per le spalle. – E voi credete – disse con voce terribile – che potrete salvarli con qualche acrobazia diplomatica? Pagando un pedaggio? Se credete tutto questo, siete un illuso! Voi e tutti gli altri come voi -. Quindi lasciò la presa sullo scabino e si rialzò. – Anche a Genua qualcuno pensava le stesse cose – continuò. – Molti dei miei concittadini preferivano non vedere…persino quando le fontane cominciarono a mutare l’acqua in sangue. Se c’era da pagare, si pagasse pure. Un onesto tributo, si diceva, in cambio della vita di sempre. Finché non è arrivata la flotta dei Fatimiti. Gente che veniva da lontano, che non sapeva dei nostri piccoli baratti, degli ammiccamenti, dei sotterfugi e non aveva alcun interesse ad accettarli.

Inoltrandosi nel racconto, la voce del capitano Grimaudo si era persa pian piano in un sussurro, ma l’accenno ai Fatimiti rinfocolò la sua rabbia. – Così ci piombarono addosso tutti insieme. Tutti amici! Tutti fratelli! Perché Fatimiti, Saraceni, Mauri sono della medesima razza – urlò di nuovo. – Predoni da ricambiare col ferro, non con l’argento!

Dopo quella sfuriata, la sala piombò in un silenzio colmo di imbarazzo. Soltanto Leonardo si mosse, avvicinandosi a Grimaudo. Ancora immerso nei ricordi, il capitano fissava un punto davanti a sé e non prestava attenzione a quanto aveva intorno. Allora il giovane lo prese gentilmente sotto braccio e, con delicatezza, lo riaccompagnò al suo posto.

Aleramo attese che si fossero seduti. Quindi si girò verso Restaldo, perché era arrivato il momento delle decisioni e tutto quello che c’era da dire era stato detto. – Eminenza – cominciò – vedete anche voi che il pericolo è grave. Soltanto se saremo uniti avremo la forza di affrontarlo.

Il vescovo lo osservò pensoso e ascoltò con attenzione. Poi annuì lentamente.

– Allora – proseguì Aleramo, rincuorato dal consenso dell’altro – converrete con me che io non posso sottrarmi ai miei obblighi. Come rappresentante del re, ho il dovere di difendere la città, non di venderla ai suoi nemici.

– La città, avete detto? – fece Restaldo.

Difendere la città…intera è impossibile – replicò subito Aleramo. Poi gli sfuggì un sorriso. – Ci vorrebbe un miracolo, ma quello è più di vostra competenza, mi pare.

– State pur certo che il Signore degli eserciti non vi abbandonerà! – lo interruppe Restaldo. Quindi, allungò una mano e strinse convulsamente il braccio del conte. – Intanto, avrete gli uomini, le armi, i cavalli. Tutte le risorse di cui Aquae dispone. Voi tenete alto lo scudo, come fece Giosuè, e i pagani non prevarranno!

Aleramo guardò la mano che gli serrava il braccio e udì la nota di urgenza nella voce dell’altro.

– E sia – disse. – Vi prometto che, almeno, ci proverò. Voi, però, dovrete rassegnarvi ad abbandonare la chiesa.

A quest’ultima osservazione, il viso di Restaldo s’incupì di nuovo. – Abbandonare?! – ripeté tristemente. – Abbandonare?!

Eminenza – proseguì Aleramo con calma – vi ho appena assicurato che ci proverò. Ma voi sapete bene quanto la vista delle nostre cose più sacre scateni quegli infedeli.

Restaldo assentì vigorosamente. – Avete ragione, purtroppo! – disse in tono tetro. Poi proseguì infervorandosi: – Gli arredi, le reliquie, le ampolle…Niente! Niente deve essere lasciato a quei demoni! Solo zolfo e fuoco!

– E noi glieli daremo – confermò Aleramo.

Restaldo lo scrutò dubbioso ancora per un momento, poi scrollò le spalle e si alzò. – Il Signore dà e il Signore prende – sospirò, allargando le braccia. – D’altronde, se le cose stanno così, il mio dovere è quello di preservare gli oggetti della Sua casa, custodendoli in un luogo più sicuro.

– Senza dubbio – confermò Aleramo, alzandosi a sua volta.

– Dove pregherò l’Onnipotente perché vi dia la forza di respingere il male – concluse Restaldo.

– E Lui vi ascolterà – rispose Aleramo compunto, facendosi il segno della croce. Poi offrì il braccio al vescovo e lo accompagnò cerimoniosamente all’uscita, con il suo seguito.

Quando tornò nella sala, l’aria compunta era sparita. – Almeno ha smesso di fregarsi le mani – commentò con un sorriso. Quindi si rivolse a Leonardo che sorrideva a sua volta. – Ti ringrazio per l’aiuto, messer Leonardo – disse – ma credo che con questa mossa tu ti sia giocato il posto.

L’altro alzò le spalle. – In tempi come questi, un uomo d’armi fa comodo – osservò con noncuranza – e, per il momento, credo che me la caverò. Voi, piuttosto, avete fatto una promessa impegnativa…

– Già – disse Aleramo, tornando subito serio. – Molto impegnativa. Eppure, non mi sembra che ci fossero tante alternative.

Leonardo ci pensò su un poco. Poi sorrise ancora. – No, mi sembra di no – disse, scrollando il capo.

Aleramo guardò quel volto aperto che lo osservava e si rilassò. Da quando era arrivato ad Aquae, Leonardo era stata uno dei pochi a mostrargli amicizia e l’unico che lo aveva realmente aiutato. Purtroppo, la milizia ai suoi ordini era poca cosa. Alcune decine di armigeri, più avvezzi a trattare con gli ubriachi che ad affrontare un combattimento contro nemici veri, e qualche rinforzo mandato dal contado. Gente coatta, spedita ad assolvere un obbligo, armata alla meglio e ansiosa di tornare a casa.

Per resistere ad un assalto di quel genere, ci voleva ben altro. Ora, però, le cose sarebbero cambiate e, col beneplacito del vescovo, lui avrebbe potuto contare su forze ben più cospicue. In mezzo ai profughi e agli Aquesi c’erano parecchi tipi tosti. Montanari robusti, abituati a vivere tra quei monti e a menar le mani. Insieme ai suoi uomini e agli arcieri arrivati da Genua, avrebbero rappresentato un bell’osso da rodere anche per i Saraceni più arrabbiati.

Il pensiero degli arcieri lo portò a voltarsi verso l’altro suo ospite. Grimaudo aveva ancora l’aria un po’ sofferente, ma, all’occhiata di Aleramo, alzò il viso. – E pensare che molti vescovi affrontano il nemico sui bastioni – commentò scuotendo la testa.

Aleramo si strinse nelle spalle. – E’ vero, capitano – disse – ma non il nostro. Lo avete visto, non è il tipo.

– Voi, però, non gli avete detto proprio tutto.

– E cosa gli ho taciuto, di grazia?

Grimaudo si arricciò i baffi, scoprendo i denti in un sogghigno. – Beh, ad esempio, che per cercare di salvare la chiesa dovremo distruggere tutto il resto. I miei arcieri hanno bisogno di spazio per i loro tiri.

Aleramo rise di gusto. Quell’uomo gli piaceva e il suo aiuto era giunto a proposito. Perciò guardò il capitano con rinnovata simpatia. – Qualche pianta in più o in meno – disse con noncuranza – che volete che sia?

– Piante, magazzini, depositi, granaglie… – elencò Grimaudo, contando sulle dita.

– Tabula rasa, insomma – intervenne Leonardo.

Aleramo guardò entrambi e sorrise. – Dopo l’Assunta, però – disse con aria candida. – Lasciamogli almeno il conforto della celebrazione.

III

Era stato Sagitto ad avere l’idea di marciare di notte, in ordine sparso. Con questo, non è che confidasse in un arrivo di sorpresa. Sapeva benissimo che ad Aquae stavano sul chi vive e che molti occhi avrebbero spiato le loro mosse. Tuttavia, sperava di confondere almeno un po’ gli infedeli e disorientarli sulla vera entità delle forze che avevano di fronte.

Durante il consulto dei capi che si era tenuto prima della spedizione, tutti avevano prontamente accolto la sua proposta. Era costume dei Saraceni, d’altronde, colpire all’improvviso, apparendo e scomparendo nel nulla. In territori ostili quello era un buon modo di combattere e, soprattutto, di uscirne vivi. Gli unici a recalcitrare erano stati i Fatimiti, che non ne vedevano lo scopo; ma i Fatimiti erano stranieri in quella terra e avevano già dimostrato altre volte di capirci poco. Così i Saraceni lì avevano lasciati sulla costa, a pavoneggiarsi davanti alle loro navi, mentre le bande risalivano come il vento lungo le montagne.

Sagitto aveva scelto un percorso che gli era ben noto, puntando decisamente a nord, attraverso il colle di Cadibona fino a Cario, per poi deviare a est, passare da Crixia e scendere verso la piana dove si trovava Aquae. Era una strada lunga e difficile, fatta di piccoli sentieri che si perdevano in una vegetazione intricatissima. Però era sicura e, soprattutto, permetteva di arrivare in vista di Aquae sbucando proprio dalle alture che sovrastavano la città, lontano dalle principali vie di comunicazione e al riparo da occhi indiscreti.

Il piccolo berbero non si era mai spinto tanto avanti nelle sue scorrerie. Fino ad allora aveva visto soltanto villaggi: poco più che manciate di baracche, sparse sul mare o abbarbicate in collina. Questa volta, invece, si trattava di un’urbe vera e propria e Sagitto fremeva dalla voglia di vedere i palazzi, i templi e le statue di cui aveva soltanto sentito raccontare davanti ai fuochi dei bivacchi.

Man mano che la pista s’inoltrava, la sua impazienza crebbe, spingendolo a viaggiare anche in pieno giorno. Poi, quando la vegetazione cominciò a diradarsi annunciando la fine del bosco, lasciò addirittura le redini di Farad e raggiunse quasi correndo la cresta. Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi gli strappò un grido di meraviglia.

Sotto di lui c’era una piccola valle, chiusa tra il verde delle colline. A sud correva il Borbore, con il suo nastro scintillante che s’incuneava sinuoso tra i pioppi delle rive. Poco sopra, il nastro più scuro della via Aemilia si snodava lungo il fiume, mentre un tratto piegava a nord, salendo verso le alture. In mezzo, come cullata in quell’abbraccio, stava Aquae baciata dal sole.

Sagitto si accoccolò sull’erba della cresta e la rimirò a lungo, riparandosi gli occhi con le mani. In vita sua, mai aveva visto una città più grande e mai una più bella di quella che si stendeva ai suoi piedi. Le case che aveva saccheggiato, o quelle dove si era fermato la notte, erano per lo più capanne in argilla, con i muri di cannicciato e il tetto di stoppie. La sua stessa torre, a Garexio, di cui menava vanto, era fatta di rozzi blocchi di pietra tenuti insieme con la malta e gli sembrava, ora, del tutto indegna delle costruzioni che vedeva sotto.

Specialmente nella parte orientale, molte case sembravano fatte di mattoni veri, a più piani, con i tetti ricoperti da nere lastre di ardesia o da scandole di legno. C’erano piazze, vie, mercati e s’indovinava un certo movimento nelle strade. Anche se la furia delle guerre aveva lasciato molti segni, c’erano ancora i vecchi templi, di cui si scorgevano qua e là alcuni colonnati. Il sole giocava sui loro marmi bianchi e quel riflesso arrivava fino a Sagitto, prendendogli il cuore.

Quella città doveva essere sua! Se la sentiva dentro, mentre un nodo di bramosia gli stringeva le viscere e un alito caldo gli faceva pulsare forte il sangue nelle vene. Lui era Sagitto, rais dei Saraceni. Non c’era villaggio intorno in cui la fama delle sue imprese non corresse di bocca in bocca. E non c’era città, come Aquae, degna di accoglierlo e di inchinarsi nel suo nome. Subito, però, un altro pensiero s’insinuò nella sua mente. Un brivido freddo, che gli prese la nuca e la strinse in una gelida morsa. Come poteva, un misero pastore del Riff, stare alla pari con tanta opulenza? E come poteva pretendere che quella civiltà così antica si prostrasse ai suoi piedi? Mentre il brivido scendeva, gelido, lungo la sua schiena, al piccolo berbero sembrò che la città, là sotto, ridesse silenziosa. Allora, per la prima volta dopo molto tempo, si sentì inerme e indifeso, come quando era sbarcato su quelle coste, tanto tempo prima.

Accovacciato sui talloni, ai margini dell’altura, strinse gli occhi, riducendoli a due fessure. Quindi scrollò le spalle, si girò di scatto e tornò dai suoi, gridando ordini perché mettessero il campo al coperto, ai margini della radura.

Anche gli uomini erano eccitati per l’azione imminente. Il brusio delle loro voci correva intorno al bivacco, mentre masticavano le razioni di formaggio di capra e galletta dura. Sagitto si sforzava di ascoltarli e di scambiare qualche battuta, ma aveva l’aria distratta di chi pensa ad altro, lo sguardo puntato verso la cresta davanti a sé. Poi, appena scese il silenzio, attraversò nuovamente la radura e tornò a guardare la città che dormiva al chiaro della luna.

Sentiva fremere in lui l’istinto del cacciatore e non vedeva l’ora di scendere nella valle per rimirare ancora più da vicino la sua preda. Così allo scoperto, però, avrebbe corso troppi rischi e c’erano ancora molte cose che doveva sapere, prima di tentare l’avventura. Impiegò la notte intera a passarle in rassegna tutte, calcolando ogni mossa e cercando di prevederne i risultati. All’alba, finalmente, fu soddisfatto e chiamò i compagni intorno a sé per spiegare il suo piano. A gesti, prima indicò la via Aemilia e poi una strada che partiva dalla città e puntava dritta verso nord. Soltanto da quelle parti potevano arrivare soccorsi ad Aquae, perché le strade permettevano spostamenti rapidi, anche di grossi contingenti. Dunque, bisognava perlustrare attentamente quelle zone e risalirle per un buon tratto, ma senza dare nell’occhio.

Sagitto fu particolarmente insistente su questo punto. La sorpresa era vitale per la riuscita dell’attacco. Le pattuglie dovevano marciare al coperto, al riparo dei boschi e, soprattutto, evitare qualsiasi razzia ai danni di fattorie o di viandanti. Agl’infedeli tutto doveva sembrare come sempre e la minaccia saracena restare non più di un filo di fumo, destinato a perdersi nell’aria. Ci sarebbe stato tempo dopo per il bottino e nessuno avrebbe avuto di che lamentarsi.

Questa rassicurazione piacque agli uomini, che assentirono e sogghignarono rumorosamente. Poi, dopo la preghiera e il pasto del mattino, il gruppo si divise in due: una metà, guidata da Bakthiar tornò sui suoi passi per risalire al nord; l’altra, al comando di Sagitto, piegò dalla parte opposta, cercando un passaggio che permettesse di accedere alla valle. Al campo furono lasciati soltanto due uomini, con il compito di montare la guardia e attendere l’arrivo delle altre bande.

Anche se era il primo mattino, faceva già caldo. Sagitto e i suoi cominciarono a scendere lungo un canalone, con le tuniche incollate al corpo e i sandali che sollevano piccoli sbuffi di polvere, scivolando sulla ghiaia. Man mano che il fondo si avvicinava, i cavalli, forse per il richiamo del fiume vicino, presero ad agitarsi nervosamente. Poi, a un gomito del sentiero, i Saraceni sentirono il mormorio dell’acqua che scorreva davanti a loro. Lungo la sponda cresceva un bosco di albare. Al loro riparo il gruppo riunì gli animali e cercò di calmarli, mentre Sagitto s’inoltrava nel folto.

Facendosi schermo con le piante, arrivò al greto del Borbore. In quella posizione il suo sguardo poteva spaziare fino alle mura meridionali della città. Si accorse subito, così, che tutto il tratto oltre l’altra sponda era completamente nudo, ripulito da qualsiasi traccia di vegetazione. Senza piante, cespugli e forre per nascondersi, nessuno poteva sperare di avvicinarsi non visto. In più, nessuno poteva appiccare incendi per snidare gli Aquesi col fuoco.

Sagitto era un guerriero e non poté fare a meno di rivolgere un silenzioso complimento a chi aveva avuto quell’idea. Lui, però, restava con il problema di proseguire. Così, rimuginando tra sé, tornò sui suoi passi e diede il segnale di partenza, cominciando a scendere il fiume. Il gruppo avanzò tra le albare per un buon tratto, finché si trovò la strada sbarrata da un altro corso d’acqua. Era un piccolo torrente che scendeva dalle alture alle loro spalle per gettarsi nel Borbore. Gli uomini ne approfittarono per rinfrescarsi e far bere i cavalli, prima di passare oltre.

Dall’altra parte, il sottobosco cresceva così rigoglioso che faticarono non poco a farsi largo in quell’intrico. Fu così che vennero colti di sorpresa quando videro improvvisamente un muro gigantesco svettare oltre le piante davanti a loro. Le mani corsero subito alle armi, perché i Saraceni pensavano di essere giunti per sbaglio sotto i bastioni. Sagitto, però, sapeva che era impossibile e li tranquillizzò. Poi si fece avanti per investigare.

Il muro si rivelò essere un pilone. Ce n’era una fila che si allungava a intervalli regolari verso il greto del Borbore, in direzione della città. In alto, appena a tiro di freccia, i piloni erano collegati da lunghe arcate regolari. Qualcuna, però, aveva ceduto e il terreno intorno era ingombro di macerie.

Sagitto si lambiccò il cervello a lungo, aggirandosi tra i piloni e tentando di comprenderne il significato. Quella era una costruzione troppo grande per essere soltanto un ponte e il Borbore un fiume troppo piccolo per richiedere un’opera di tali dimensioni. Persino nei periodi di piena. Tra l’altro, a pochi passi da lì, in mezzo all’acqua affiorava un isolotto che formava un guado naturale. Quindi, perché darsi tanta pena? Poi ricordò che, una volta, aveva sentito parlare di qualcosa di simile. Si diceva che gli antichi Rumi facessero volare l’acqua su quei ponti e che fossero lunghi miglia e miglia. Sagitto aveva riso, perché nei campi si raccontano molte storie e l’acqua, lui l’aveva sempre vista sotto, non sopra. Ora, però, davanti a quei piloni giganteschi, non ne era più tanto sicuro. Così scrutò a lungo all’insù, quasi si aspettasse di vederne cadere una goccia. Quindi sorrise della sua dabbenaggine, si ricompose e tornò indietro a chiamare gli uomini per riprendere la marcia.

Il camminò proseguì a lungo, senza intoppi. Ogni tanto, Sagitto s’infilava tra le piante e raggiungeva la riva per controllare se si poteva passare non visti. Dall’altra parte, però, c’era sempre lo stesso terreno piatto, senza nascondigli. Così sbuffava e tornava indietro, scuotendo la testa insoddisfatto.

Il gruppo aveva compiuto ormai un ampio giro e il sole era già molto alto nel cielo quando il piccolo berbero intravide una possibilità. Oltre il Borbore, a ridosso della via Aemilia, si vedevano in lontananza alcune case: una frazione di Aquae, probabilmente quella che aveva visto dalla cresta, proprio dove la strada si biforcava prima di entrare in città. Erano poche capanne basse, a un piano, ma nessuno aveva pensato di abbattere le piante intorno e la loro ombra copriva una vasta porzione di terreno.

Sagitto ci pensò sopra. L’unico tratto in vista era quello del fiume. Però, se avessero attraversato in fretta, il rischio sarebbe stato minimo. Restava la possibilità che qualcuno li vedesse dalla frazione, ma, per quanto aguzzasse lo sguardo, non riusciva a scorgere alcun movimento. Le case stavano lì, ferme sotto il sole, e sembravano vuote. Il piccolo berbero scrutò l’abitato a lungo, poi decise di tentare. Si fece portare Farad, gli salì in groppa e s’inoltrò lentamente nel fiume, dopo aver raccomandato ai compagni di fare meno rumore possibile.

L’acqua non era molto alta e la traversata fu agevole, anche se gli zoccoli dei cavalli tendevano a sdrucciolare sui ciottoli del fondo. Sagitto trattenne il respiro per tutto il tempo, temendo che qualcuno, da un momento all’altro, potesse dargli la voce e mettersi a gridare. Ma non ci fu alcun allarme. Così i Saraceni poterono risalire sull’altra sponda e guadagnare il riparo delle piante, indisturbati.

A quel punto avevano una base sicura da cui partire per allargare la loro ricognizione. Sagitto mandò un gruppo a battere i boschi lungo la via Aemilia, per verificare se c’erano truppe in avvicinamento. Gli altri li dispiegò verso le colline a nord, con il compito di completare l’aggiramento della città e controllare qualsiasi movimento sospetto. Quanto a lui, guardò le case dietro di sé e sorrise. Da una posizione simile avrebbe avuto un’ottima vista di Aquae e delle sue fortificazioni orientali. Proprio quello che cercava. Così mise l’arco a tracolla e si avviò, lasciando l’unico uomo rimasto a far la guardia ai cavalli.

La frazione era deserta, proprio come aveva pensato. Gli abitanti dovevano essere andati via in fretta e furia, portandosi dietro soltanto l’indispensabile. Infatti, davanti alle case, nei cortili e nei recinti c’era un’indescrivibile quantità di masserizie di ogni tipo: ciotole, secchi, otri, paioli, tratti di corda, vecchi finimenti da bestiame. E, ancora: vanghe, rastrelli, sacchetti di sementi, lettiere di paglia, gabbie per gli animali. Persino una logora tunica grigia, che pendeva da una stecca di legno sopra un paio di calzari tutti sfondati.

Sagitto capì subito che cosa era successo. La frazione era così vicina alla città che i suoi abitanti non l’avevano abbandonata del tutto. La notte dormivano sicuramente ad Aquae, ma durante il giorno dovevano fare qualche scappata ogni tanto, per controllare le loro case e, magari, prendere qualcosa nell’orto. Quel pensiero lo preoccupò, non per i contadini, ma perché potevano arrivare con qualche guardia di scorta. Quindi riprese ad avanzare con maggior prudenza, attento a ogni movimento e a ogni minimo segnale di pericolo. Fu così che non rimase affatto sorpreso quando, davanti a sé, udì una voce.

Era quella di un uomo, bassa e raschiante come di chi ha il respiro affannoso. Gli rispose subito un’altra voce, più sottile e quasi querula.

– Ehi! Rico! Ehi, dico a te – fece la prima voce. – Maledizione! Molla quel sacco e vieni a darmi una mano.

– Accidenti a te, Baldo! – rispose la seconda voce. – Sei proprio un buono a nulla. Mai che tu faccia qualcosa da solo.

Nascosto dietro il muro di una capanna, Sagitto stava ad ascoltare. Nessun’altra voce, però, si unì alle prime due e, man mano che l’alterco proseguiva, il piccolo berbero si rilassò, sollevato. Quelli non erano certo soldati. In più, potevano avere qualche notizia utile e lui era intenzionato a spremerli per bene.

Il primo a vederlo, quando svoltò l’angolo, fu quello grosso che rispondeva al nome di Baldo. Era piazzato a gambe larghe davanti a una casa e prendeva a bastonate l’uscio. Quando si accorse di Sagitto, rimase col bastone sospeso per aria, deglutì vistosamente e arretrò sbattendo contro il muro. Poi, con la voce quasi rantolante, disse: – Ehi, Rico! Rico! Guarda cosa c’è qui!

L’altro, un piccoletto segaligno con una gran zazzera di capelli rossi, non se ne diede per inteso. In mano aveva una gallina che starnazzava furiosamente e cercava di infilarla in un sacco, steso ai suoi piedi. Tutto preso da quell’operazione, non alzò neanche la testa. – Lì c’è uno stupido! – urlò di rimando. – Non ho bisogno di vedere. Lo so già.

A Sagitto scappò un sorriso. Dunque, non erano neanche contadini, ma miseri ladri di polli che approfittavano della situazione per fare una razzia. Il piccolo berbero li squadrò con disprezzo, poi sfilò l’arco e prese una freccia dalla sacca che portava a tracolla.

Vedendo quel movimento, il grosso si lasciò scivolare contro il muro e cadde ginocchioni. – Gesù, Giuseppe e Maria! – biascicò, facendosi il segno della croce.

Il rosso, allarmato da quell’invocazione disperata, alzò finalmente la testa. Quando vide Sagitto fece un salto, s’imbrogliò con i piedi nel sacco e cadde a terra rovinosamente, mentre la gallina che teneva in mano svolazzava lontano.

Il piccolo berbero incoccò la freccia, avanzò di un passo e capovolse un secchio che era lì vicino. Poi ci si sedette sopra e guardò tranquillamente i due, sempre tenendoli sotto mira.

– Tu…tu sei… – disse il rosso che stava riprendendosi dallo stupore. – Tu sei mica… – Poi le parole gli finirono e restò con la bocca spalancata, come un pesce.

– Un diavolo! – continuò l’altro, segnandosi ancora – Ecco cos’è, Rico. Un diavolo nero, vomitato dall’inferno!

Sagitto si guardò. In effetti, tutto intabarrato di scuro e con la corta barbetta a punta che gli ornava il mento, poteva sembrare proprio una creatura infernale. Così fece di sì con la testa. – Beh, sembra proprio, eh? – disse, mentre un piccolo ghigno gli increspava le labbra.

Ma il rosso aveva ormai recuperato il fiato e voleva dire la sua. – Stai zitto, stupido! – sibilò al compagno. – Questo è un…un…nemico – concluse incespicando sull’ultima parola.

– Si potrebbe dire anche così – fece Sagitto che si divertiva un mondo. – Un diavolo di nemico.

Il grosso lo guardò disorientato. L’altro, però, non si lasciò fuorviare. – Scusa – disse – ma tu cosa ci fai qui?

Perché, dove siamo? – s’informò Sagitto.

– A…ad Aquae. Al borgo di san Lazzaro – fece il rosso ancora stupito. – Ma tu non dovresti esserci. In città dicono… – proseguì. Poi tacque di botto.

Sagitto aguzzò le orecchie e si sporse in avanti. – In città? – ripeté. – Cosa dicono in città, allora?

Il rosso si strinse nelle spalle. – Beh…In città dicono che siete ancora lontani.

– E ti sembra vero?

Il rosso si grattò la testa, pensieroso. – No. Direi di no – rispose. Poi gli occhi ebbero un guizzo: – Comunque, tu sei qui da solo – aggiunse con un sorrisetto storto.

– Non sono proprio solo – ribatté Sagitto. Quindi mostrò l’arco, mentre l’altra mano andava al pugnale alla cintura.

– Ehi, Ehi – fece il grosso allarmato, allargando le braccia. – Guarda che noi siamo disarmati!

– Peccato – osservò Sagitto prendendolo di mira. – Ma io sono il nemico. L’avete detto voi, prima.

– Beh, sai, si dicono tante cose – intervenne il rosso che non sorrideva più. – Si fa presto a parlare. Però, noi non ce l’abbiamo con te.

– Ah no? – disse Sagitto.

– No davvero! – fece il rosso, scrollando vigorosamente il capo. – Anzi, caso mai, ce l’abbiamo con quelli là. – E accennò con il pollice dietro le sue spalle.

– Con quelli della città, dici? – s’informò Sagitto gentilmente.

– Già, proprio con loro – li interruppe il grosso. – Da quando è arrivato il nuovo conte, ne abbiamo passate di tutti i colori. E taglia le piante qui e porta le pietre lì. E scava la terra e scalza i mattoni. Tutto il giorno, dall’alba al tramonto, solo con una scodella di zuppa e un pezzo di pane. Vedi – continuò toccandosi la pancia. – Ormai, sono ridotto pelle e ossa.

Sagitto represse a stento un sorriso. Il grosso era vestito con una corta tunica di tela grezza, come il suo compagno. Dei due, però, quello più magro era senz’altro il rosso, tanto che aveva girato due volte la cintura in vita. La cinta dell’altro, invece, gli tirava sulla pancia, a malapena trattenuta da un nodo. Al piccolo berbero, comunque, interessava farlo parlare. Così, chiese in tono affabile: – Pane e zuppa davvero, eh? Ma perché: in città non c’è abbastanza da mangiare?

Il grosso si agitò ancora di più, diventando rosso d’indignazione: – Macché! Scherzerai! Da mangiare ce n’è in abbondanza! Ma quel maledetto conte ha fatto chiudere tutto nei magazzini e chi prende qualcosa viene appeso in piazza. Per i piedi. Pensa un po’: appendere dei disgraziati, invece di quei diavoli… – Poi s’interruppe di colpo, roteò gli occhi e deglutì vistosamente, guardando Sagitto, spaventato.

Il piccolo berbero fece finta di niente. – E i magazzini dove sono? – chiese con calma.

– Come dove sono?! – ripeté il grosso senza capire. – Ma sono in città, sono.

– Vuol sapere il posto esatto, stupido – intervenne il rosso con un gesto sprezzante verso il compagno. Poi strinse gli occhi e riprese il suo sorrisetto astuto. – Questa, però, è un’informazione importante.

– Potrebbe – disse Sagitto senza sbilanciarsi.

– Allora vale qualcosa, vero?

– Forse.

Il rosso soppesò la risposta, poi scrollò le spalle. – E va bene – disse. – Per quello che ti può servire. Tanto, sono tutti nel centro della città e sono ben guardati.

– Allora ci sono molti uomini. Molti soldati…

Il rosso lo guardò di traverso. – Soldati?! – ripeté, sputando quella parola con evidente disgusto. – Uomini ce ne sono sì, ma soldati…Prendono tutti quelli che trovano e gli mettono in mano qualcosa…

– Pensa – lo interruppe il grosso, raccattando il suo bastone – che a me hanno dato questo. A me, che non mi reggo in piedi!

– Vedo – disse Sagitto brevemente. Poi riportò la sua attenzione sul rosso che, dei due, sembrava quello più informato. – Dunque hanno intenzione di combattere…Di resistere.

– Ci puoi scommettere – confermò subito l’altro, facendo di sì con la testa. – Il conte gira notte e giorno come un indemoniato. Gli altri, poi, non sono da meno.

– E dove girano, eh? Dove hanno messo le difese? – continuò Sagitto.

A quel punto, però, il racconto del rosso cominciò a farsi nebuloso. Lui aveva visto gli scavi, i terrapieni, le palizzate, ma non aveva alcuna idea d’insieme delle fortificazioni. Sapeva soltanto che c’erano, così come c’erano uomini armati dietro le mura. Quanto al resto, le domande di Sagitto non fecero che aumentare la sua confusione, finché il piccolo berbero si accorse che, ormai, era disposto a dire qualsiasi cosa. Allora si riscosse, si alzò e allontanò con un calcio il secchio dove stava seduto. Il rosso riprese subito un’espressione vigile. – E adesso? – fece con gli occhi spaventati. – Tu ci hai promesso la vita…

Sagitto si aggiustò la tunica e si sistemò la fascia. Poi alzò lo sguardo. – No. Io ho detto solo ‘forse’.

La faccia del rosso divenne paonazza. Il suo compagno si contorse e si mise di nuovo ginocchioni. – Come ‘forse’? – fece in un rantolo. –‘Forse’ non vale.

Il rosso protestò debolmente. – Scusa – disse – ma noi ti abbiamo detto tutto…tutto quello che sapevamo…

– Appunto – fece Sagitto. – Quello che sapete non è granché.

– Sì ma…ma noi… – riprese il rosso quasi strangolandosi con le parole. – Noi siamo stati ai patti.

– È vero! – proseguì il grosso, con gli occhi che gli roteavano nelle orbite. – Noi siamo stati ai patti. Così non è leale!

Sagitto li guardò e si passò una mano sulla barba. Lasciarli andare, non poteva. Quanto ad ammazzarli, avrebbe dovuto prendersi la briga di seppellirli o, almeno, di nasconderne i corpi. Un problema in più, che gli fece aggrottare la fronte e scrollare la testa con fastidio.

Vedendo quel gesto, i due compari si ritrassero atterriti. – No! No! – urlò il rosso, agitando le mani davanti a sé in modo frenetico. – Guarda che noi siamo dalla tua parte! Se ci lasci andare, spariremo a gambe levate…

– E non torneremo più indietro! – aggiunse il grosso che si era messo a strisciare carponi.

– Parola! – concluse il rosso, portandosi una mano al petto.

– Beh, forse avete ragione – disse Sagitto. Poi, squadrò a lungo i due. – Ma se vi vedo ancora… – aggiunse, e si passò un dito lungo la gola.

A quel gesto, il grosso rabbrividì. Poi indietreggiò precipitosamente, fino a raggiungere il compagno. Quindi, senza mai perdere di vista Sagitto, i due cominciarono ad arretrare insieme, aiutandosi con i piedi e con le mani.

Il piccolo berbero li fermò subito. – Non da quella parte – disse, sollevando l’arco. – Di qua, verso il fiume.

Baldo si arrestò di botto, con lo sguardo perso. Rico, invece, afferrò subito. Si alzò al volo, strattonando il compagno e cominciando a correre. L’altro, arrancando, gli andò dietro.

Sagitto li osservò sfilare accanto a lui e buttarsi lungo il viottolo che portava al Borbore. Quando furono a trenta passi di distanza, incoccò, inspirò profondamente e tese la corda. Poi, quasi di malavoglia, la rilasciò.

La freccia partì ronzando e s’infilò nella gola di Rico, trapassandola da parte a parte. La violenza del colpo lo proiettò in avanti, facendogli fare una specie di capriola, prima di fermarlo al suolo, per sempre.

Il grosso, che seguiva, vide il compagno cadere e si fermò di botto, osservandolo come se non potesse capacitarsi di quanto era successo. Quando si girò verso Sagitto, la seconda freccia lo colse in pieno petto, togliendogli il fiato e facendolo barcollare. Le sue mani si abbassarono a sfiorare l’asta che sporgeva e la strinsero convulsamente, come se volessero strapparla via. Poi, lentamente, si rilassarono, mentre gli occhi si riempivano di stupore e il corpo massiccio scivolava pesantemente al suolo.

Il piccolo berbero rimise l’arco a tracolla e si avviò con calma lungo il sentiero. Arrivato all’altezza dei due, recuperò le frecce, le ripulì nell’erba e le rimise nella sacca. Quindi trascinò i corpi al riparo della boscaglia, cercando di nasconderli meglio che poteva. Risalendo, passò accanto al sacco del rosso e lo tastò col piede. Sembrava pieno. Allora, se lo caricò in spalla. Quella sera ci sarebbe stata carne al campo, si disse sorridendo. In fondo, se l’era proprio meritata.

IV

Ad Aquae, la ricorrenza dell’Assunta assumeva un carattere particolare. Oltre a glorificare la Beata Vergine, infatti, essa segnava il momento del passaggio fra l’estate che stava finendo e l’inverno che arrivava. In quelle zone di mezzo, non più pianura e non ancora montagna, le stagioni prendevano un ritmo incalzante. Per questo l’Assunta rappresentava anche un’occasione di bilanci, il periodo in cui ognuno faceva il conto di ciò che aveva raccolto, in previsione del lungo freddo che stava per venire.

Negli anni buoni l’Assunta era una festa. La città apriva le sue porte e i contadini si mettevano a nuovo per invadere le strade coi carretti. Allora, la piazza delle terme si trasformava in una grande fiera: arrivavano musici, indovini e saltimbanchi, mentre sugli usci delle taverne donne imbellettate adescavano i passanti.

Quell’anno, invece, la festa dell’Assunta era tutta concentrata nelle chiese. Dalle campagne arrivavano soltanto profughi e le porte della città restavano sprangate anche di giorno, come le taverne. I conti erano magri un po’ per tutti, ma nessuno si preoccupava dell’inverno perché molti dubitavano di arrivarci vivi.

Come sempre avviene in questi casi, l’unico conforto era la fede. Dalla prima al vespro, ogni chiesa di Aquae e ogni cappella erano gremite di gente che pregava e si prostrava di fronte alle sante immagini. Cappellani, canonici e presbiteri correvano in su e in giù dall’alba al tramonto, tutti presi a celebrar messe, recitare giaculatorie e dare conforto ai penitenti.

Una cosa, soprattutto, occupava i pensieri degli Aquesi: la grande processione che avrebbe portato in salvo gli arredi di san Pietro. Da quando gli araldi ne avevano dato il solenne annuncio, non c’era anima viva in città che avesse resistito alla tentazione di andare a vedere di persona. Poi, man mano che si avvicinava il momento, l’eccitazione crebbe finché, il mattino dell’Assunta, si era riunita così tanta gente che lo spiazzo davanti alla chiesa, per quanto grande, non bastava a contenerla tutta.

Fu in quell’atmosfera da giudizio universale che Aleramo arrivò per partecipare alla funzione. Per l’occasione si era abbigliato come conveniva al suo rango, con un largo cappello di feltro cremisi e una casacca di velluto del medesimo colore, sotto la quale spuntava il candido ricamo di una camicia in lino. Al fianco, il cinturone di cuoio grezzo tratteneva il fodero, che batteva sulle lunghe gambe strette nei gambali. Dal fodero spuntava l’elsa della spada.

Suo padre, dopo aver visto che, da ragazzo, superava di tutta la testa i compagni, l’aveva fatta forgiare più lunga del solito, apposta per lui. Il giorno prima di lasciarlo andare per il mondo, gliel’aveva mostrata in gran segreto, estraendola dal fodero e sollevandola verso il cielo. La luce del sole aveva strappato un riflesso abbagliante alla lama, suscitando un mormorio di stupore da parte di Aleramo, che l’ammirava estasiato.

Guglielmo gli aveva spiegato che veniva da lontano, forgiata dagli stessi mantici che avevano dato vita alle spade di grandi re. Quindi gliel’aveva affidata perché potesse prendere confidenza con l’arma e saggiarne il peso. – Prendila – aveva detto con aria solenne. – Essa fa parte del mondo che ha visto la nascita della nostra casa. Ricordalo e abbine buona cura. Lei farà lo stesso con te.

Aleramo aveva ascoltato più volte la storia della sua famiglia e delle sue nobili origini. Però, non aveva mai visto quei luoghi e i suoi piedi non avevano mai calpestato la terra dei suoi avi. Così aveva osservato la spada quasi con reverenza, mentre gli occhi gli si inumidivano per la commozione.

Aveva percorso con le dita l’acciaio brunito della lama, che sembrava vibrare sotto il suo tocco. Poi le sue mani erano scivolate fino a stringere l’impugnatura a fuso, rivestita di fili d’argento e rame, per risalire infine alla crociera, ingrossata in mezzo e laminata in oro. Qui, all’attaccatura della lama, il ragazzo aveva percepito un‘incisione, un lungo solco diritto che sembrava un difetto della forgiatura. L’aveva toccato più volte, guardando il padre con un certo imbarazzo, finché Guglielmo non si era messo a ridere.

– No, figliolo – aveva detto con quella sua voce burbera – non è un difetto. È una runa. – Poi aveva ripreso l’arma e indicato il solco col dito. – Vedi? – aveva proseguito. – Questa è Isa, la runa del ghiaccio. Essa gelerà il cuore dei tuoi nemici. Tu, però – aveva aggiunto strizzando l’occhio – non parlarne a nessuno, soprattutto al prete che la benedirà. Perché, sai, le rune fanno parte del mondo antico. E ogni mondo è geloso dei suoi segreti.

Aleramo aveva fatto di sì con la testa, ancora più affascinato da quel piccolo mistero. Poi aveva trascinato la spada nella sua stanza e l’aveva messa sotto il guanciale. Quella notte, in previsione della partenza, aveva dormito poco e male, ma, ogni volta che si svegliava di soprassalto, toccava Isa e si sentiva subito rincuorato.

Nei primi tempi, comunque, la spada si era rivelata soltanto un peso in tutti i sensi. Il giovane scudiero riusciva a sollevarla appena e i suoi sforzi erano occasione di infinite canzonature da parte dei compagni. A poco a poco, però, il fisico si era fatto più robusto e la muscolatura più solida, finché, un bel giorno, Aleramo si era preso la sua rivincita in piazza d’armi, gareggiando alla pari coi più anziani. Da quel momento, Isa non aveva più abbandonato il suo fianco, aiuto prezioso in battaglia e testimone eloquente di quel carattere tenace che in molti ormai avevano avuto occasione di apprezzare.

Anche ad Aquae Aleramo era stato preceduto dalla sua fama. Quando comparve ai margini dello spiazzo, a cavallo, accompagnato da Folco e da un piccolo seguito, la notizia del suo arrivo si propagò in fretta, provocando un sussulto tra la folla assiepata. I più vicini s’inchinarono a riverirlo, mentre gli altri, dietro, cominciarono a premere quelli davanti, ansiosi di vedere, sfiorare e, magari, toccare l’uomo che portava con sé tutte le loro speranze.

Davanti a quella calca, Aleramo non esitò. Lasciò il cavallo, si guardò intorno per un momento e si avviò verso la chiesa con piglio deciso, seguito da un Folco scontroso quanto mai. Vedendoli incedere, i più vicini cercavano di scostarsi dal passaggio, ma altri prendevano subito il loro posto, formando una marea umana che avanzava e si ritraeva come le onde di un mare in tempesta.

Una donna, tutta scarmigliata, si fece largo a spintoni reggendo in seno un bambino. Giunta che fu davanti al conte, s’inginocchiò, tese le braccia e glielo porse, mentre il piccolo scalciava e si dibatteva urlando. Quando Aleramo prese il bambino e lo sollevò in alto, la folla proruppe in un boato. Le donne urlarono, i giovani lanciarono in aria i berretti e i padri alzarono a loro volta i propri figli, perché potessero essere partecipi anche loro di quel grande momento.

Nello spiazzo la confusione raggiunse il culmine. Per non essere travolti, Aleramo e Folco si strinsero spalla contro spalla, cercando di raggiungere la chiesa che era ormai a pochi passi. Per loro fortuna, proprio da quella parte prese ad avanzare un gruppo di armigeri che, usando le aste delle lunghe lance, aprirono un varco nella ressa. I due, così, riuscirono a passare, raggiungendo incolumi i pochi scalini che portavano all’ingresso.

Dentro li aspettavano i maggiorenti cittadini. Giudici, avvocati, notai, cerusici stavano addossati l’uno contro l’altro, in piedi, tutti agghindati e con l’aria solenne delle grandi occasioni. All’ingresso, Aleramo si slacciò il cingolo e affidò Isa a Folco. Quindi proseguì il suo cammino, accennando brevemente col capo mentre oltrepassava il crocchio dei notabili. Quando giunse davanti all’altare, piegò le ginocchia a terra e si raccolse in preghiera. In piedi dietro il suo signore, Folco reggeva la spada sulle due mani tese.

Intanto, la folla che stava fuori faceva ressa per entrare, ma la chiesa non era abbastanza grande per contenere quella moltitudine. Così, dopo essersi ammassati invano all’ingresso, molti furono costretti a rimanere sul sagrato. Non si rassegnarono, comunque, e si accalcarono davanti alle porte aperte cercando di sbirciare dentro, per cogliere almeno qualcosa del grande evento che si sarebbe celebrato.

L’interno era in penombra. Dalle strette feritoie laterali filtrava soltanto una lama di luce, mentre le poche lucerne accese non riuscivano a dissipare il buio. Il fumo dell’olio che bruciava si univa a quello degli incensi, creando una nebbiolina lattiginosa che restava sospesa a mezz’altezza lungo la navata.

Il caldo era soffocante e Aleramo si allentò il colletto con le dita, mentre l’odore pungente dell’incenso gli pizzicava il naso. Poi la scena davanti a lui cominciò ad animarsi. Per primo apparve uno stuolo di chierici in cotta bianca, che si dispose ai bordi dell’emiciclo. Subito dopo, un corteo di presbiteri, formato dai sacerdoti e dai canonici delle pievi diocesane, si allargò ai lati dell’altare. Alcuni risalirono i gradini e predisposero quanto era necessario per la celebrazione. Poi tornarono ai loro posti, fermandosi ad aspettare. Solo allora Restaldo avanzò, mentre alle sue spalle si levava un coro di voci argentine.

Il vescovo indossava la pianeta finemente lavorata delle cerimonie solenni, segnata con i colori del lutto. Sotto portava la stola con le tre croci e l’alba di lino bianco che gli scendeva fino ai piedi. Appoggiata sul petto, splendeva la catena con la croce, mentre l’anello d’oro riluceva sulla mano guantata di bianco che reggeva il pastorale.

In testa aveva la mitra, ma, dopo essersi inginocchiato davanti all’altare, la consegnò a due chierici e rimase con il capo coperto dal solo zucchetto. Quindi si avvicinò alla cathedra, circondato dai presbiteri, e benedisse i presenti, dando inizio al rito solenne.

Aleramo si sforzava di essere un buon cristiano e, un po’ per fede, un po’ per ufficio, presenziava spesso a cerimonie religiose di ogni genere, da quelle fastose con i nobili del regno, fino alle piccole messe nelle pievi di campagna. Mai, però, gli era capitato di assistere a una funzione intensa come quella che si stava celebrando in quella sede.

Data la ricorrenza, i passi scelti dalle Scritture si riferivano tutti alla Beata Vergine Maria e alla Sua Assunzione in Cielo. Il lettore li scandì con tono fermo ma sommesso, mentre le mani giravano lentamente le pagine del lectionario e la parole rimanevano come appese nel silenzio. Il timbro di Restaldo, invece, era intenso, vibrante, fatto per incitare gli animi e scuotere le coscienze. Quando intonò il Kyrie, in piedi davanti al trono, la sua voce rimbombò per le navate, sovrastando quelle del coro e toccando le corde della commozione in tutti i presenti. Al Gloria in excelsis Deo, la commozione si trasformò in fierezza, mentre le schiene si raddrizzavano, gli occhi rilucevano e centinaia di bocche si aprivano per seguire il pastore nel suo canto.

Al termine, Restaldo avanzò lungo l’emiciclo. Di solito predicava la parola di Dio recitando le omelie dei Padri della Chiesa. Quella giornata, però, era così particolare da spingerlo a lasciarvi un segno personale. Perciò aveva lavorato alacremente a un sermone tutto suo, cercando tra i Sacri Testi le citazioni più appropriate all’occasione. Poi, per essere più sciolto, lo aveva mandato a memoria, e ora saliva i gradini dell’ambone risoluto a dare il meglio di sé.

Giunto in cima, passò in rassegna tutta la chiesa con gli occhi ridotti a due fessure. Quindi, quando il silenzio fu assoluto, cominciò a parlare.

– Vos video, fratres – esordì in tono cupo. – Vi vedo e vi ascolto, mentre osservate ciò che succede intorno. La campagna è devastata, la terra è squallida e i contadini sono sgomenti perché il raccolto dei campi è perduto. Giù dai nostri monti si spande una torma feroce, che ha in faccia un fuoco divoratore e dietro di sé lascia una fiamma ardente. Dinanzi a lei trema la terra, si scuotono i cieli, il sole e la luna si oscurano e le stelle ritirano il loro splendore.

– Vos video, fratres. Vi vedo e vi ascolto, quando scrutate l’orizzonte nell’attesa vana di un soccorso che non potrà salvarci. E vi chiedete l’un l’altro: Cosa ne sarà di noi? Perché proprio sul nostro capo si abbatte questa disgrazia? Cosa abbiamo mai fatto per meritarci l’ira del Signore?

Dopo avere posto queste domande, la voce di Restaldo crebbe di tono. – Fratelli! – gridò – chiedete alla vostra anima. Interrogatela e vi risponderà con le parole di Isaia profeta: “Vae vobis! Guai a voi che dite male il bene e bene il male, che fate tenebre la luce e luce le tenebre; che date amaro per dolce e dolce per amaro! Guai a voi, che siete sapienti ai vostri occhi e prudenti a vostro giudizio! Guai a voi che giustificate l’empio per un regalo e negate al giusto la giustizia!

“Perciò il Signore si accende d’ira contro di voi e vi percuote. Col suo sibilo ha chiamato uno dal confine della terra e questo, veloce, verrà. Ha le sue frecce aguzzate a tutti i suoi archi tesi. Le unghie dei suoi cavalli rassomigliano alle selci e le sue ruote all’imperversare della tempesta. Ha un ruggito da leone e afferrerà la preda senza alcuno che la possa riprendere. Si alzerà sopra di esso in quel giorno un muggito come il muggito del mare e anche i più belli fra gli uomini periranno di spada e i più valorosi cadranno in battaglia.”

Arrivato a questo punto, il vescovo fece una pausa. L’uditorio rimase come appeso alle sue parole, con gli occhi sbarrati rivolti all’insù e il respiro mozzo per la trepidazione. In tutta la chiesa, nessuno parlava e nessuno osava muoversi.

Allora Restaldo continuò con voce più calma: – Ecco, fratelli, le parole di Isaia. Non chiedetevi dunque se avete peccato, ma come potete redimervi. Rivolgetevi alla Beata Vergine Maria in questo giorno della sua gloria e dite con me: “Ascolta, Madre Santa. Noi abbiamo peccato e operato empiamente, abbiamo fatto il male e trasgredito i precetti del Signore. Sed tu, miserere nostri! Esaudisci le nostre suppliche, strappaci dalle mani dei nostri nemici e salvaci. Altrimenti, saremo perduti per sempre!

“Convertitevi, fratelli, al nostro Signore Iddio, perché egli è benigno e misericordioso, paziente e predisposto a condonare il male. Chissà che non si rivolga a noi e perdoni, e lasci dietro a sé la sua benedizione.

“Come potremo, in pochi, combattere contro una moltitudine così grande e così forte – chiesero a Giuda?. E Giuda disse: – Vincere in guerra non dipende dal numero dei combattenti, ma dal valore che viene dal cielo. Essi ci vengono incontro, moltitudine insolente e superba, per sterminare noi e le nostre mogli e i nostri figli. Noi invece combatteremo per le nostre vite e le nostre leggi, e il Signore medesimo li schiaccerà sotto i nostri occhi. Dunque, non ne abbiate paura. Non timueritis eos!

“Non disse forse Davide al Filisteo Golia: Tu vieni a me colla spada, con la lancia e con lo scudo, io invece vengo a te nel nome del Signore; quel Signore che ti darà oggi in mia mano.

“E Saul ne abbatté mille, ma Davide diecimila, perché Davide era il prediletto del Signore.

– Preghiamo allora con Davide: “Il Signore è la mia rocca, la mia forza e il mio Salvatore. Dio è la mia fortezza e il mio rifugio. Invocherò il Signore e dai miei nemici sarò liberato. Egli tuonerà dal cielo, scaglierà le sue saette contro i miei nemici e li dissiperà. Con lui io accorrerò armato e scalerò le mura. Con lui inseguirò i miei nemici e li sterminerò e non tornerò indietro finché non li avrò annientati. E li spezzerò perché non abbiano più a rialzarsi, finché cadranno sotto i miei piedi.

Cercate me e vivrete, dice il Signore. Quaerite me et vivetis in perpetuum.”

Le ultime parole furono pronunciate come in un sussurro. Quindi il vescovo si voltò e scese dall’ambone. Quel movimento spezzò l’incanto che teneva avvinti i fedeli: qualcuno tossì, qualcuno si soffiò il naso e molti stropicciarono i piedi per terra, come per liberarsi dalla tensione. Persino Aleramo si sorprese a fare un gran respiro; poi provò ad allentarsi ancora una volta il colletto, ormai madido di sudore. Subito dopo, però, venne il suo turno.

Restaldo percorse nuovamente l’emiciclo e gli si parò di fronte. Allora il conte si inginocchiò, prese la spada dalle mani di Folco e sollevò le braccia per l’offerta. Il vescovo sfiorò la lama con la mano guantata, quindi prese l’aspersorio e la spruzzò con l’acqua benedetta.

– Adjuta nos, domine! – intonò, allargando le braccia.

– Cum praesidium tuum! – rispose subito il coro.

– Aiutaci, o Signore! – riprese Restaldo. – Guarda nel loro campo, come già ti degnasti di guardare a quello degli Egiziani, quando armati inseguivano i tuoi servi. Alza il tuo braccio come da principio, e spezza con la tua forza la forza loro.

Chinò il capo, posò la mano sulla spalla di Aleramo e proseguì: – Dio dei cieli, creatore delle acque, Signore di tutte le creature, esaudisci noi miserabili che ti supplichiamo e confidiamo nella tua misericordia. Liberaci da questa piaga e dai la vittoria al tuo servo fedele, che sguaina la sua spada non per sete di vendetta, ma per proteggere il popolo di Dio.

Quindi, mentre la sua voce echeggiava ancora per la navata, fece rialzare il conte, lo abbracciò e lo mostrò ai fedeli, mentre il coro intonava l’Alleluia.

Fu un altro momento toccante, ma la commozione raggiunse il culmine quando, al termine della Messa, cominciarono a sfilare le reliquie conservate nella chiesa, che dovevano essere portate in processione per sottrarle alla furia dei Mori. I chierici presero ad avanzare a coppie, tenendo tra le mani un cero e scortando i presbiteri che reggevano le teche contenenti i sacri resti. Passando davanti al vescovo, s’inginocchiavano; poi proseguivano lungo la navata centrale, tra due ali di folla.

Si cominciò con la reliquia più antica, un pezzo di stoffa dell’abito di san Siro, il primo a predicare il Cristianesimo nella città. Si proseguì con un dito di santa Giustina, un’immagine di san Dalmazzo, uno scapolare di san Marziano e vari reperti che si riferivano ai martiri di Cordova: Giovanni, Isacco, Flora, Eulogio. Davanti a ognuno, Restaldo si inginocchiava e si raccoglieva in una breve preghiera.

Aleramo, in cuor suo, dubitava dell’autenticità di tutte quelle reliquie. A corte si scherzava spesso sul numero delle tibie di san Giovanni, così come si osservava che, con i crani che c’erano in giro, san Cristoforo doveva avere molte teste di ricambio. Però se ne parlava sottovoce, perché la chiesa aveva orecchie lunghe e, soprattutto, buona memoria.

Comunque fosse, Restaldo si era dimostrato veramente abile. Siro era un santo a cui Aquae si sentiva così legata da mandare a ogni ricorrenza, al suo sepolcro in Papia, tanto olio d’oliva da illuminarlo per un anno intero. Quanto a santa Giustina, la reliquia era arrivata dalla badia della vicina Secadio, che si sentiva minacciata anch’essa dai Saraceni.

Il colpo da maestro, tuttavia, Restaldo lo aveva fatto con le reliquie più recenti. Si trattava, infatti, di Cristiani messi a morte dai Mori di Cordova, dopo essersi rifiutati di rinnegare la loro fede. Il messaggio agli Aquesi era eloquente e Aleramo ammirò il modo sottile che il vescovo aveva scelto per mandarlo ai fedeli.

Qualcosa aveva ottenuto anche lui, comunque. Con la benedizione della spada, Restaldo aveva riconosciuto pubblicamente l’esistenza di un’autorità diversa dalla sua e l’aveva legittimata di fronte alla città. Per questo Aleramo si rassegnò a seguirlo, quando il vescovo s’incamminò verso l’uscita della chiesa per iniziare la processione.

Fuori, se possibile, c’era ancora più gente di prima ad aspettarli. In testa a tutti, i maggiorenti dell’amministrazione cittadina, accompagnati dagli araldi e dai banditori con le chiarine. Subito dopo, il popolo aquese, compatto e trepidante. Questa volta, però, non ci furono scene di giubilo e neanche urla tra la folla. Soltanto un reverente silenzio da cui si alzava, ogni tanto, il sommesso mormorio delle giaculatorie.

Le teche con le reliquie aprivano il corteo. Subito dopo avanzava la statua della Beata Vergine, che ondeggiava sul palanchino retto da otto uomini degni. Quindi, dietro la grande croce del Cristo, veniva Restaldo, preceduto da due lunghe file di presbiteri e di chierici che camminavano a testa bassa, salmodiando, con un cero acceso in mano.

La strada era tenuta sgombra da due schiere di armigeri disposti lungo i lati, con le lance abbassate in modo da formare una barriera. Nessuno, però, premeva più di tanto per passare. La folla attendeva composta il passaggio del corteo, si segnava, si inginocchiava e poi si aggiungeva dietro. Così, un po’ alla rinfusa, il popolo di Aquae seguiva i suoi pastori come gli Ebrei avevano seguito Mosè nel deserto.

Aleramo li lasciò andare. Per loro era stata una grande giornata, di cui si sarebbe parlato a lungo nelle sere d’inverno, con le mani tese davanti al fuoco e le imposte ben chiuse verso l’esterno. Lui, però, era quello che all’inverno doveva farli arrivare vivi e aveva ancora molte cose da fare prima che la sua grande giornata giungesse. Così, seguì lentamente la processione fino al bordo dello spiazzo, sfilandosi pian piano dalla ressa. Poi, quando arrivò al punto dove aveva lasciato il cavallo, montò in sella e piegò a destra, aggirando il corteo con i suoi uomini.

Al castro trovò Leonardo e Grimaudo che lo aspettavano. Mangiò qualcosa in fretta, in loro compagnia, quindi i tre uomini iniziarono il giro dei bastioni, seguiti da Folco. Quella ricognizione giornaliera era ormai diventata un’abitudine, oltreché un modo per scaricare la tensione dell’attesa. Aleramo ne approfittava per controllare i posti di guardia e allertare gli uomini che vigilavano sulla città, ma anche per verificare lo stato di avanzamento delle difese.

Ci volevano scorte di terra, polvere, sabbia e soprattutto aceto per spegnere i fuochi delle frecce incendiarie. E ancora, acqua, olio, pece e pietrame da scaricare contro gli attaccanti. Tutto doveva essere facile da raggiungere per gli assediati, ma nello stesso tempo posto al riparo degli assedianti. Ciò era ancor più vero per i viveri, perché qualunque combattente resiste meglio se sa che può riempirsi la pancia. Fortunatamente, ad Aquae le scorte alimentari erano abbondanti, ma Aleramo manteneva ugualmente sotto controllo i depositi e teneva ad accertarsi di persona dello stato delle granaglie e del loro livello.

Quel giorno, comunque, non ce n’era modo, perché i magazzini erano quasi tutti ubicati nel concentrico cittadino, proprio dove la processione avrebbe portato la calca maggiore. Un contrattempo fastidioso, compensato tuttavia dall’opportunità di poter dare un’occhiata da vicino ai dintorni di san Pietro. Nei suoi giri, infatti, spesso Aleramo rifletteva con i compagni sulle possibili direttrici d’attacco dei Saraceni e sulle contromisure da mettere in atto. Ogni volta, però, la conclusione era la medesima: lo sfondamento sarebbe avvenuto sulla loro destra e la chiesa avrebbe rappresentato il primo obiettivo dei nemici.

Fino ad allora era stato impossibile compiere una ricognizione attenta della zona. Troppi occhi avrebbero osservato e troppe bocche si sarebbero precipitate in città a riferire. Quel pomeriggio, però, il luogo sarebbe stato senz’altro deserto e disponibile. Così, risalendo la via Aemilia a sud e costeggiando il Medrico, il gruppo raggiunse lo spiazzo dove si era svolta la funzione del mattino.

Intorno non si vedeva anima viva e i cavalieri poterono continuare al passo, superando la chiesa e risalendo verso l’interno. Giunti al grande frutteto di proprietà del vescovo, lasciarono i cavalli all’ombra delle piante. Poi s’incamminarono a piedi, esaminando con attenzione la consistenza dei muretti a secco, l’ampiezza dei fossi, lo stato delle vasche dell’acqua e la robustezza delle costruzioni.

Aleramo s’intrattenne soprattutto con Grimaudo, al quale non si stancava mai di segnare a dito anche i più piccoli particolari. Il capitano si grattava la barba pensieroso e ogni tanto annuiva gravemente, rispondendo poche parole. Leonardo e Folco seguivano dappresso, ascoltando con aria attenta quel fitto conciliabolo che si svolgeva davanti a loro.

Soltanto al calar del sole Aleramo fu soddisfatto. Riprese il suo cavallo, montò in sella e guidò il gruppetto verso il ponte sul Medrico. Quindi, attraversata la porta delle terme, raggiunse la sua dimora, dove salutò brevemente i compagni e licenziò Folco. Dopo una giornata così intensa, si sentiva stanco e aveva solo voglia di starsene un po’ per conto suo. Così si fece portare la cena nelle sue stanze, mangiò e cadde addormentato quasi subito. Prima dell’alba, però, fu svegliato da un servo, tutto trafelato.

Il messaggero, appena arrivato da Salsole, aspettava nel vestibolo, con la guazza sugli stivali e il mantello ancora indosso. – Vengono! – disse subito, quando comparve Aleramo. – Li abbiamo sentiti, signor conte! Sono passati sotto di noi, stanotte, come tanti diavoli neri!

– A piedi o a cavallo? – disse soltanto Aleramo, ancora insonnolito.

Il messaggero lo guardò. – A piedi, signore. Erano a piedi. Hanno fatto tremare il bosco marciando, e le civette hanno gridato nel buio!

Aleramo fece un rapido calcolo. Salsole era un borgo arroccato in cima a una collina, a poche miglia da lì. Dunque sarebbero stati ad Aquae, al massimo, due giorni dopo. All’improvviso, si sentì sveglio e lucido come non mai. Congedò il messaggero, fece le scale di volata e cominciò a urlare ordini a tutti quelli che gli capitavano a tiro.

C’erano ancora tante cose da fare, ma l’attesa no. Quella, almeno, era arrivata alla fine.

V

Ci vollero due giorni perché Sagitto portasse a termine la sua esplorazione, aggirando lentamente la città. Da san Lazzaro risalì al coperto dei boschi che si allargavano lungo le pendici della collina, costeggiando le mura del castro romano. Poi serrò a settentrione e arrivò all’incrocio della strada per Hasta. Lì, il gruppo passò una notte vigile, ma tranquilla. Il giorno dopo arrivò Bakthiar. L’omone aveva compiuto un largo giro e portava notizie rassicuranti: non c’erano movimenti di truppe e neanche viaggiatori lungo la via. Per almeno dieci miglia, era come se il mondo intorno si fosse fatto improvvisamente vuoto.

Sagitto ascoltò quel resoconto sogghignando soddisfatto. Quindi riprese il cammino e guidò i suoi lungo le pendici occidentali, con gli occhi sempre puntati sulle fortificazioni cittadine. Verso il tramonto del secondo giorno, la banda fece finalmente ritorno all’erta da cui era partita. Lungo il tragitto il piccolo berbero si era mosso con mille cautele, ma, guardando sotto, si rese conto che ogni prudenza era ormai inutile. Ai suoi piedi, lungo il corso del Borbore, era tutto un brulicare di uomini, di carriaggi e di cavalli. Nel bosco c’erano più tende che alberi e, nel ribot, si potevano contare più teste di quante pietre stavano nel greto.

In tutti quegli anni di scorrerie, su e giù lungo la costa, Sagitto non aveva mai visto tanta gente riunita in un posto solo. Proprio sulla riva, davanti all’isolotto in mezzo al fiume, i Fatimiti presidiavano il guado e gettavano la loro sfida in faccia alla città. Le bandiere verdi svettavano sulle grandi tende, muovendosi pigramente alla leggera brezza della sera, mentre gli uomini si affaccendavano accanto ai fuochi per la cena. Le bande saracene, invece, erano accampate più indietro, a una certa distanza dagli scomodi vicini. Le loro piccole tende scure s’intravedevano appena nel folto della macchia e, intorno, non si vedeva nessuno.

Sagitto approvò silenziosamente la prudenza dei compagni. Quindi, scese a valle per piantare il proprio campo accanto al loro. Dopo giorni e giorni di viaggio, di marce forzate e di appostamenti all’aperto, si sentiva sfinito. Aveva le ossa peste per lo stare troppo a cavallo, i piedi doloranti per le lunghe camminate e gli occhi stanchi a forza di guardarsi intorno. Prendendosi un po’ in giro, si era detto che doveva essere colpa dell’età, ben sapendo che non era vero. Un buon pasto e una notte di sonno tranquillo sarebbero bastati a renderlo come nuovo. Eppure, prima di concederseli, aveva ancora un impegno da assolvere.

Era evidente che gli uomini attendati lungo il fiume erano tutto, fuorché un esercito. Tra loro non c’era compattezza, né armonia, e neppure una chiara linea di comando. I Saraceni, abituati a una guerra di scorreria, si sarebbero limitati a guardarsi intorno, in attesa di un suo ordine. I Fatimiti, invece, avrebbero potuto fare qualsiasi cosa, rischiando di compromettere tutte le sue fatiche.

Sagitto non aveva alcuna intenzione di permetterglielo. Lungo la costa, all’ombra delle grandi navi giunte da Ifriqiya, aveva preferito sfuggire le discussioni, un po’ intimorito da quello sfoggio di potenza e un po’ irritato per l’atteggiamento di sufficienza che gli stranieri avevano dimostrato. Ora, però, la situazione era cambiata completamente. Ad Aquae si trovava sul suo terreno, governato da leggi che conosceva solo lui e che dovevano essere comprese appieno anche dai Fatimiti.

Il piccolo berbero sapeva che, quanto prima le avessero intese, tanto meglio sarebbe stato per tutti. Così, sbuffando e brontolando, decise di arrivare a un compromesso. Almeno il pasto, quello poteva concederselo. Dopo, prima del sonno, avrebbe affrontato la questione.

Mentre gli uomini preparavano il bivacco, lui proseguì verso il Borbore. Il sole declinava ormai dietro il bosco e i suoi raggi filtravano obliqui tra le piante, strappando riflessi d’oro all’acqua crespa del fiume. La corrente scorreva rapida, ma non tumultuosa. Sagitto s’inoltrò fino al ginocchio e si sciacquò a lungo le mani e il viso, apprezzando il tocco gelido che gli toglieva l’arsura del giorno e spazzava la polvere della via.

Tornato a riva, frugò nella bisaccia che si era portata dietro e tirò fuori una camicia, una tunica e un paio di calzoni. In piedi, al riparo degli alberi, si tolse gli abiti sporchi e indossò quelli puliti. Quindi, più rilassato, tornò sui suoi passi per partecipare alla preghiera e al pasto serale.

Quando riprese Farad era un uomo nuovo. Rinfrescato, riposato e con la pancia piena, si sentiva in pace con il mondo e pronto a capire persino i Fatimiti. Avvicinandosi al loro campo, però, quella disponibilità si dissolse subito, come nebbia al sole.

Ai margini delle tende e dei fuochi, infatti, vide un altro accampamento, ben diverso da quello che aveva scorto di lontano, sporgendosi dall’altura. Dovunque arrivasse, il suo sguardo incontrava un indescrivibile guazzabuglio di teli laceri, di ripari improvvisati e di stuoie di graticcio addossate agli alberi, Sotto, una torma di gente altrettanto trasandata e malmessa lo scrutava sospettosa nella penombra della sera.

Passandoci in mezzo, Sagitto non credette ai suoi occhi. Dappertutto spuntavano mani adunche, occhi famelici e facce da ceppi. Tutta la feccia della costa sembrava essersi data appuntamento in quel luogo, certamente attirata dalla prospettiva del saccheggio e dalla promessa di un facile bottino.

Ora, Sagitto non ne faceva una questione personale. Anche lui si serviva di gente del genere nelle sue scorrerie, per ottenere informazioni o per battere le strade. Mai, però, avrebbe permesso a un branco di tagliagole di unirsi alle sue bande. Di tali dimensioni, poi. Quella era gente da agguati, refrattaria a ogni disciplina e capace soltanto di colpire alle spalle. In uno scontro in campo aperto, con il nemico di fronte, se la sarebbe data di sicuro a gambe, lasciando gli altri nei guai.

Man mano che procedeva, la sua indignazione nei confronti dei Fatimiti crebbe. Ma come! Come avevano potuto pensare di tirarsi dietro tutti i peggiori rifiuti della costa! Proprio loro, che, oltretutto, si consideravano i credenti dei credenti! Un chiarimento, a quel punto, era assolutamente necessario. Così sollecitò Farad, ansioso di risolvere la questione una volta per tutte.

Il capo dei Fatimiti era un bestione grande e grosso che di nome faceva Muhammad. Le poche volte che se lo era trovato davanti, Sagitto aveva finito per rimpiangere la semplicità bonacciona del suo Bakthiar. Il Fatimita, infatti, era uno stupido molto più pericoloso perché non se ne rendeva conto. Ne ebbe un’ulteriore conferma, appena arrestò il cavallo davanti alla grande tenda del comando, con le sentinelle ai lati e le bandiere in cima.

Muhammad stava accomiatandosi da alcuni dei suoi uomini sotto il telo dell’ingresso. All’arrivo di Sagitto, alzò gli occhi e scosse il capo. – Alla buon’ora – sogghignò. – Un po’ tardi per uno che arriva a cavallo, vero?

Dalla groppa di Farad, Sagitto lo squadrò torvo. Il Fatimita indossava una tunica verde brillante, troppo stretta per la sua mole, da cui straripava una pancia di dimensioni rispettabili, appena trattenuta da una fusciacca di un verde più scuro, annodata in vita. Sulla tunica, sulla fusciacca e sul turbante era tutto uno sfavillio di ghirigori, arabeschi e ornamenti che lo facevano brillare come un ramarro alla luce dei fuochi.

Il piccolo berbero fece una smorfia di disgusto, poi si abbassò e sputò per terra. – Tardi per cosa? – osservò con tono piatto.

– Ma per la cena – ribatté l’altro, allargando le braccia a comprendere gli uomini che stavano allontanandosi. – Credimi: ti sei perso qualcosa.

Sagitto gli lanciò un’occhiata sprezzante. – Ah! La cena – disse freddamente. Poi accennò con la mano dietro di sé. – E quelli? Hai invitato a cena anche loro?

Muhammad lo guardò stupito. Poi s’illuminò e un sorriso tagliò in due la folta barba nera che gli copriva il volto. – Ah! – disse. – Capisco! – Quindi alzò le spalle. – Ci saranno utili – spiegò premurosamente – per l’assalto ai bastioni.

– Saranno un problema – obiettò Sagitto. – Se le cose si mettono male, scapperanno. Altrimenti, vorranno la loro parte di bottino.

Il sorriso di Muhammad si allargò. – Dopo – disse, calcando la parola – il problema sarà risolto. – E fece un gesto noncurante con la mano.

– Già, il problema sarà risolto – ripeté Sagitto cupo.

Il Fatimita, però, non si lasciò smontare. – Vieni dentro – fece, indicando l’ingresso. – É una dimora umile, ma saremo più comodi che qui fuori.

L’umile dimora si rivelò essere grande come una casa. Lo spazio interno era dominato dalla zona per gli ospiti, ricoperta di splendidi tappeti, pesanti stuoie e soffici cuscini colorati. In fondo, lunghi teli di mussola pendevano dai pali di sostegno della tenda, delimitando la zona privata. Al di là di quelle fragili cortine s’intravedevano alcuni mobili bassi, altri cuscini e altri tappeti.

Entrando dopo aver lasciato Farad, Sagitto non poté trattenere il suo stupore. Le tende saracene erano rifugi angusti, poco più che ripari per la notte. Dentro si stava zuppi d’estate e ghiacci in inverno, sempre al buio perché non era prudente tenere fuochi o accendere lucerne. Lì, invece, l’ambiente era ben ventilato e le torce ardevano negli anelli infissi ai pali, rischiarando lo spazio come se fosse giorno.

Anche il pasto di cui aveva parlato Muhammad doveva essere stato all’altezza della tenda. Sagitto provò una fitta di delusione, vedendone gli avanzi sui tappeti. C’erano vassoi colmi di frutta, ciotole piene di datteri, formaggi freschi e un grande tagliere che conteneva i resti di un arrosto. Di cacciagione, sembrava, e al piccolo berbero parve di percepirne ancora l’aroma.

Di fianco a Sagitto, Muhammad ne colse lo sguardo estasiato. Allora, tutto gongolante di compiacimento, si affrettò a fargli strada. – Vieni – disse cerimoniosamente, indicando i tappeti. – Vieni e siediti. Come vedi, i miei uomini hanno lasciato ancora qualcosa. – Poi batté le mani due volte.

A quel richiamo, una cortina di mussola si scostò ed entrarono due servitori. Sagitto si slacciò i sandali e si sfilò la scimitarra, affidandola al primo. Poi, a piedi nudi, si accosciò sui tappeti. Subito, l’altro servitore gli si accostò, porgendogli un bacile e un telo. Il piccolo berbero intinse le dita nell’acqua e se le asciugò. Quindi fece un cenno educato al servitore, che riprese i suoi arnesi e si ritirò in fretta da dove era venuto.

Intanto, il primo servitore era tornato reggendo un vassoio di legno cesellato su cui era disposto un grande bricco fumante con due coppe accanto. L’aroma fragrante del tè si sparse per tutta la tenda, mentre l’uomo si avvicinava, posava il vassoio e versava la bevanda.

– Senti com’è forte? – disse Muhammad che si era adagiato mollemente sui cuscini di fronte all’ospite e annusava beato. – Serviti. Serviti pure. Questo è tè degli altipiani; una miscela rara.

Sagitto annuì in silenzio. Per la verità, lui avrebbe preferito qualcosa di più forte. Sotto la fascia sentiva il profilo familiare della fiaschetta di liquore che gli premeva il fianco. La portava sempre con sé perché nelle fredde notti all’addiaccio, oppure durante le lunghe marce a cavallo, quella era, spesso, l’unica fonte di calore disponibile. Il piccolo berbero credeva che Dio fosse troppo misericordioso per punirlo. Non sapeva, però, cosa ne pensasse Muhammad. Così, dopo aver esitato un po’, decise di lasciare la fiaschetta dove si trovava e afferrò una coppa. Accostandola alle labbra, scrutò attentamente il Fatimita.

Pareva che Muhammad non avesse un pensiero al mondo. Le uniche cose che sembravano davvero interessarlo erano il cibo, lo sfarzo e le comodità. La sua persona, essenzialmente. Osservandone l’atteggiamento disinvolto, il piccolo berbero si sentì assalire dallo sconforto. Come poteva far capire l’importanza della posta in gioco a uno così? E, soprattutto, come sarebbe riuscito a mettergli in testa un po’ di buon senso? Mentre beveva distrattamente il tè, decise di prenderla con calma.

– Oltre a mangiare, tu e i tuoi uomini avrete anche parlato della situazione, immagino – iniziò.

– Oh, sì – rispose Muhammad, pronto. – Ne abbiamo parlato a lungo.

– Allora avrete elaborato un piano, una linea d’azione, una strategia…

– Certamente. Certo che abbiamo un piano.

– Bene – assentì Sagitto. – E potrei sapere qual è?

– Ma sicuro – fece subito Muhammad, posando la coppa. – D’altronde, è un piano molto semplice. Domani attacchiamo, entriamo in città e uccidiamo tutti i cani infedeli che ci sono.

Sagitto arricciò le labbra in un sogghigno. – E se i cani non sono d’accordo? – chiese con tono ironico.

Muhammad rimase confuso per un momento. – Come ‘non sono d’accordo’ – ripeté. – Poi riprese la sua espressione sorridente. – Ah, capisco – disse sornione. – É una celia, vero?

– Io non scherzo mai su queste cose – ribatté il piccolo berbero asciutto. – Tu, piuttosto, non credi di farla troppo semplice? La faccenda potrebbe non essere facile come dici.

I dubbi di Sagitto e, soprattutto, il tono delle sue parole, colpirono Muhammad. Per la prima volta dall’inizio di quell’incontro, il viso del Fatimita s’incupì e una ruga di preoccupazione gli attraversò la fronte. – Non vedo perché – provo ad obiettare. – Noi siamo tanti come le stelle in cielo…

– Questo è vero – consentì Sagitto. – Lascia che ti spieghi una cosa, però. Qualunque essere vivente, uomo o animale che sia, se è messo alle strette si difende fino allo stremo. Fino all’ultima risorsa, all’ultima stilla di sangue, all’ultima energia che gli rimane. Il cacciatore capisce quando quel momento è arrivato. Allora sa che deve raddoppiare la prudenza e procedere con una cautela ancora maggiore.

– Deve aver paura, insomma – fece Muhammad agitandosi sui cuscini. – Perché questo è quello che fai a me con le tue parole.

– Anche – replicò quietamente Sagitto. – Se la paura lo spinge ad agire con discernimento. Tu hai detto che noi siamo tanti, ma non basta. Dobbiamo imparare a colpire uniti: i miei cavalieri e i tuoi fanti, insieme.

Guarda – proseguì prendendo un acino d’uva dal piatto che aveva di fianco. – Se premo con un dito solo, rischio di farmelo sfuggire. Se uso due dita, però, posso schiacciarlo facilmente. – E serrò l’acino tra il pollice e l’indice, stritolandolo.

Muhammad aveva seguito quella piccola dimostrazione senza battere ciglio. Quando si fu conclusa alzò una mano. – Queste sono sciocchezze – disse con tono di fastidio.

– Sciocchezze?! – replicò Sagitto, alterandosi a sua volta. – Tu non capisci che queste sciocchezze possono fare la differenza fra vincere ed essere sconfitti.

– No! Noi non possiamo essere sconfitti! Non dobbiamo! – ribatté subito Muhammad. – Vedi? – aggiunse, mostrando un grande anello che aveva al dito. – Questo mi è stato consegnato dal potente Yakub ibn Ishaq al Tamini, ammiraglio della flotta ed emissario del magnifico emiro di Qayrawan. Da laggiù, al-Mahdi ci guarda e aspetta la nostra vittoria. Il mio destino dipende dalla sua benevolenza. E anche il tuo, per altro.

Sagitto scosse la testa. – Il nostro destino è scritto sulla sabbia – disse con tono cupo – ma domani parlerà l’acciaio.

– E allora? – fece Muhammad, sempre più irritato. – Questo è un problema tuo, non mio. Sei tu che comandi le bande. E ancora tu quello che dovrà guidarle in battaglia.

– E i tuoi uomini?

Muhammad liquidò la domanda con un gesto. – I miei uomini combatteranno. Loro non hanno i dubbi che hai tu.

– Se è così, moriranno in tanti domani.

– Cosa vuoi che m’importi se morirà qualcuno in più o in meno? – ribatté Muhammad scrollando le spalle. Poi si sollevò sui cuscini. – Vedi quei piccioni? – disse, puntando il dito oltre la testa di Sagitto.

Il piccolo berbero si girò e, sul fondo della tenda, scorse una gabbia di legno. Dietro ai listelli, alcuni piccioni si agitavano becchettandosi. Le bande saracene, proprio per la vita nomade che conducevano, ne facevano scarso uso. Lungo la costa, però, non era raro vedere le loro stie sulle torri e, in Ifriqiya, erano uno dei sistemi più usati per ridurre in qualche modo le lunghe distanze.

– Ecco! – continuò Muhammad alzandosi. – Loro sono lì per annunciare la mia vittoria. Tu fai come credi: osserva le fortificazioni, parla con gli uomini, studia un piano d’attacco. Ma stai attento – concluse, alzando un dito ammonitore. – Quando quei piccioni si alzeranno in volo, potrebbero parlare anche di te e del tuo comportamento. – Poi si girò di scatto e sparì dietro le cortine di mussola, lasciando Sagitto impietrito al suo posto.

A fatica, il piccolo berbero riuscì a trattenere l’impulso di andargli dietro e trattarlo come si meritava. Non soltanto quel buffone vestito a festa si era permesso di dargli degli ordini, ma aveva persino osato minacciarlo. Minacciare lui, Sagitto, il più grande rais della costa! D’istinto, la mano corse al pugnale, ma, poi, lentamente, la ragione ebbe il sopravvento. C’erano ancora troppe cose in ballo. Bisognava affrontare una battaglia, espugnare una città e ricavarne un bottino onorevole. Magari, cercando di non lasciarci la pelle.

Mentre si rimetteva i sandali e riprendeva la scimitarra, Sagitto strinse gli occhi, riducendoli a due fessure. Dopo, soltanto dopo, sarebbe venuto il momento buono. Quello della resa dei conti. E il piccolo berbero promise a se stesso che non se lo sarebbe lasciato scappare.

VI

Alle prime luci dell’alba i Mori cominciarono a prendere posizione intorno ad Aquae. La giornata si preannunciava soleggiata ma l’aria era pungente, mossa da un refolo di vento fresco che s’insinuava giù per le colline e scendeva a lambire la radura di fronte alla città. Le bandiere garrivano lungo il guado del Borbore e l’esercito si radunava sulle sponde del fiume, assiepandosi dietro i drappi dell’Islam.

Davanti a tutti andavano schierandosi i Fatimiti. Protetti da una leggera armatura di legno o di canna, i fanti risalivano il guado impugnando gli scudi rotondi e le corte lance di bambù. Il loro incedere era scandito dal suono dei timballi, sorretti da una fila di uomini seminudi, schierati sui due lati del percorso. Il rombo dei tamburi sovrastava lo scalpiccio dei passi e si diffondeva cupo all’intorno, suscitando echi sempre più lontani mentre si perdeva nelle profondità del bosco.

Sul greto c’era anche Muhammad, che si era fatto trasportare in palanchino e assisteva in piedi alla sfilata, indossando la sua tunica verde rutilante d’oro. Passandogli accanto, i soldati battevano le lance sugli scudi in segno di saluto. Lui ricambiava con brevi cenni della mano, mentre gli uomini attraversavano e si attestavano sull’altra sponda, scrutando con sguardo truce i bastioni nemici. Al loro fianco le scimitarre pendevano dalle fusciacche annodate in vita, mentre le tuniche bagnate si attorcigliavano intorno alle gambe nude.

Più indietro stava la feccia che aveva seguito l’esercito. In un incredibile guazzabuglio di fogge e di colori, file di tagliagole si ammassavano lungo il tratto scoperto, agitando con aria minacciosa picche, coltellacci, roncole e persino rami d’albero, impugnati come bastoni. Alla cintura molti portavano un sacco e mani adunche lo tenevano ben stretto, già pregustando la razzia.

Soltanto quando tutti i Fatimiti furono in formazione, apparvero le bande saracene. I cavalieri neri sbucarono dal bosco e vennero avanti al passo, maestosi, con le corte lance di traverso alla sella, gli archi a tracolla e i barracani drappeggiati intorno. Giunti all’altezza del branco assiepato sulla riva, lo tagliarono in due e risalirono agilmente il guado. Poi, arrivati sull’altra sponda, piegarono dietro le schiere fatimite e si schierarono ai lati. I cavallini berberi rasparono nervosamente con gli zoccoli e alcuni lanciarono un breve nitrito che suonò come un richiamo. A quel punto, da tutto l’esercito schierato si alzò un urlo possente, che lacerò l’aria e percorse la radura, abbattendosi come una promessa di morte contro la città nemica.

Sagitto fu l’ultimo ad attraversare. Dopo lo scontro con Muhammad, aveva passato buona parte della notte a cercare di convincere i suoi luogotenenti. All’inizio, Abu Ja’far e Abu Jusuf non si erano dimostrati molto disponibili. Avviluppati nei mantelli, avevano ascoltato il loro interlocutore con rigida cortesia, i volti inespressivi rivolti verso il fuoco da campo. Però, mettendo mano alla sua fiaschetta, il piccolo berbero era riuscito a fare breccia nella loro diffidenza. Così, verso mattina, i tre uomini si erano congedati con una certa euforia, promettendosi a vicenda aiuto e reciproco sostegno nella battaglia.

Era forse meno di quanto poteva servire, ma, per il momento, Sagitto lo trovava sufficiente. Per questo, nonostante gli occhi pesti e la mancanza di sonno, si sentiva bene come non gli accadeva da tempo. La prospettiva dell’azione imminente lo eccitava e il portamento dei suoi lo riempiva d’orgoglio. Sotto di lui sentiva Farad agitarsi inquieto, come un attore ansioso di calcare il proscenio.

Persino la presenza di Muhammad non lo infastidiva più di tanto. La tracotanza dell’uomo, la sua stupidità e l’offesa che gli aveva rivolto appartenevano ormai al passato. Nella luce dorata di quel mattino, il presente era rappresentato dalla linea oltre il guado, al di là del fiume, dove un uomo contava per quello che era e per il coraggio che riusciva a dimostrare. Per Muhammad quella linea era un limite invalicabile, una frontiera oltre la quale non aveva un posto, un ruolo, una funzione. Di qua era il rais dei Fatimiti; di là non era nessuno e nessuno avrebbe fatto caso a lui.

Sagitto lo sapeva, così come sapeva che oltre la linea avrebbe ritrovato di colpo tutte le sue certezze. Dopo aver immaginato, studiato, calcolato e persino annusato la battaglia, ora si trattava di combatterla. Di mandare gli uomini avanti, a vincere o a morire, fidando solamente sulla propria abilità.

Quello era il posto che voleva e quella era la sua sfida alla vita. Se fino a quel momento l’aveva vinta, voleva dire che era il migliore. Così, con i timballi nelle orecchie e una canzone nel cuore, il piccolo berbero lanciò il suo urlo di guerra e allentò le briglie di Farad. Non più trattenuto, il cavallino partì di scatto, passò come un fulmine accanto a Muhammad e si gettò nel guado. Risalendo dall’altra parte, si scrollò l’acqua dal mantello e caracollò oltre la sponda. Mentre spariva alla vista, l’urlo risuonò un’altra volta, seguito dal clamore degli uomini schierati sul greto.

La radura davanti ai bastioni meridionali era il luogo ideale per schierare un’armata. Nella sua esplorazione, Sagitto non aveva trovato altri posti che presentassero condizioni migliori. A occidente, il terreno era fitto di boscaglie impiantate su un terreno molle e acquitrinoso. A oriente, i bastioni si snodavano lungo il dislivello della collina e il terreno costituiva un intralcio per la progressione di un attacco. Quanto al tratto settentrionale, quello era forse il più pericoloso. La tentazione di attaccare nella zona delle terme era molto forte. Sfondare in quel punto, infatti, avrebbe portato l’offensiva direttamente al cuore della città. C’era il rischio, però, di un aggiramento condotto attraverso la porta sul Medrico e Sagitto non intendeva osare troppo, almeno prima di aver saggiato le difese nemiche.

La radura, invece, non presentava rischi di alcun genere. Il terreno era liscio, compatto e pianeggiante, agevole da percorrere per gli uomini a piedi e per la corsa dei cavalli. Nel tratto iniziale era anche molto esposto, ma più avanti, subito dopo l’intersezione con la via Aemilia, le macerie di alcune costruzioni imponenti formavano dei ridotti ideali, dove la fanteria poteva trovare copertura sufficiente prima di scattare all’assalto della città.

Anche il Medrico, che tagliava in mezzo la piana, non rappresentava un problema. Infatti, se il suo letto incavato ne rendeva improbabile il guado, le truppe potevano servirsi del ponte sulla via Aemilia, che lo scavalcava. Magari non era un transito agevole, visto che si trattava di quattro assi strette, male in arnese. Però avrebbe consentito comunque alla fanteria di coprire tutto il fronte meridionale. Quanto alla cavalleria, i Saraceni non si sarebbero certo fatti frenare da un intralcio del genere.

Dopo aver osservato ancora una volta la zona, Sagitto non trovò pecche nel suo giudizio. Così decise che si poteva andare. Ad un suo cenno, Abu Ja’far e Abu Jusuf si misero alla testa dei Fatimiti e cominciarono lentamente la marcia di avvicinamento alla città. Le truppe oltrepassarono il tratto scoperto, s’inoltrarono lungo la via Aemilia e passarono il ponte fino ad arrivare a ridosso delle macerie. Qui si attestarono, in attesa.

In groppa a Farad, Sagitto osservò la manovra. I suoi occhi andavano dalla radura ai bastioni, nel tentativo di cogliere un’eventuale reazione da parte dei nemici. Quando fu chiaro che non ce ne sarebbero state, il piccolo berbero si mise alla testa dei suoi e li guidò in avanti, verso le mura del castro che brillavano al sole.

Al piccolo trotto, la cavalleria saracena si raggruppò lungo la via Aemilia. Lì, tra i resti di un antico anfiteatro, le bande fecero volteggiare i cavalli, snudarono le scimitarre e brandirono gli archi. Poi partirono all’assalto della fortezza romana.

I difensori erano pronti ad affrontarli.

Anche Aleramo aveva ragionato a lungo sulle possibili direttrici d’attacco e le sue conclusioni non erano state molto diverse da quelle di Sagitto. Così aveva disposto le sue forze tenendo conto delle caratteristiche di ognuna. Sul fronte di mancina aveva schierato gli uomini di Grimaudo e quelli di Leonardo. Gli arcieri genovesi più in basso, in previsione di un attacco della fanteria; gli armigeri, con rinforzi presi dai montanari del contado, a presidio della parte superiore. Quanto al resto, i civili, meno preparati, stavano a presidio delle mura più munite, mentre i suoi uomini erano dislocati accanto alle porte principali della città.

Quest’ultima era stata la scelta più difficile perché quelle posizioni erano senz’altro le più defilate. La battaglia si sarebbe decisa sicuramente intorno ai bastioni occidentali e l’animo di Aleramo si ribellava all’idea di non essere presente ad affrontarla. La ragione, però, controbatteva con argomenti validi. Gli uomini al suo comando erano l’unica, vera forza di cavalleria disponibile. Sugli spalti valevano quanto gli altri difensori, ma, a cavallo, rappresentavano una risorsa preziosa, in grado di spostarsi rapidamente e di contrastare la cavalleria nemica. A questo fine, le porte erano il posto ideale. Uscendo da quella romana si potevano tentare rapide incursioni contro le forze more sparse lungo la piana; presidiando la porta delle terme, si poteva passare rapidamente dal ponte sul Medrico e accorrere in aiuto dei difensori che stavano al di là.

Rimaneva un unico problema: quello delle comunicazioni. Infatti, soltanto conoscendo in ogni momento l’esito degli scontri, Aleramo avrebbe saputo cosa fare. Per questo aveva predisposto un sistema di staffette e dotato ogni reparto di un corno da battaglia. Un suono breve segnalava attacco; uno prolungato chiedeva aiuto. E, vista la situazione, di aiuto ce ne sarebbe stato sicuramente bisogno.

Il sistema entrò in funzione subito, quando i Saraceni avanzarono. Il suono del corno lacerò l’aria sui bastioni del castro, i difensori alimentarono i fuochi e si misero in posizione sugli spalti. Molti si fecero anche il segno della croce perché quella torma di diavoli urlanti, avvolti nei loro mantelli scuri e in groppa a cavalli neri come la pece, sembrava uscire direttamente dalle viscere dell’inferno.

La porta romana era una costruzione massiccia, di buon legno stagionato, rinforzato con lamine di ferro trasversali. Era situata di lato, sul versante nord del castro, a metà della salita che si arrampicava verso la collina. Una posizione quanto mai vantaggiosa, perché permetteva al presidio di controllare da lontano chiunque si avvicinasse e dava il tempo ai soldati di intervenire.

Negli anni belli dell’impero, quando lungo la via Aemilia era tutto un pullulare di carovane e di mercanti, i battenti restavano aperti dall’alba al tramonto. All’intersezione di san Lazzaro, i convogli risalivano l’erta, mettendosi in fila sotto il grande arco a volta che introduceva nel cortile interno. Lì, mentre si faceva la conta del dazio, gli animali potevano trovare un ricovero e gli uomini qualcosa da bere per togliersi dalla gola la polvere del viaggio. Poi il cammino riprendeva, diretto verso il grande mercato che sorgeva accanto al coperto in piazza delle terme, dalla parte opposta della città.

Quei tempi, però, erano passati da un pezzo, travolti dalla caduta dell’impero. La porta ora era ben chiusa, puntellata da robusti pali piazzati all’interno e ricoperta all’esterno da pelli non conciate per proteggerla dal fuoco. Dietro alle mura, mani nervose pizzicavano le corde degli archi, mentre occhi attenti seguivano la corsa dei Saraceni che risalivano l’erta al galoppo.

Giunti all’altezza del varco, però, i cavalli tirarono dritto e passarono agilmente sotto le mura, sfilando verso l’estremo gomito orientale. La manovra fu così repentina che l’ultimo attaccante era già fuori vista, prima che dall’alto dei bastioni qualcuno avesse il tempo di lanciare una sola pietra o di scoccare una sola freccia.

Pochi secondi e il gruppo tornò, sempre urlando e al galoppo. Questa volta le corde fischiarono dagli spalti, ma gli attaccanti si mantenevano a distanza e i dardi si conficcarono nel terreno senza fare danni.

Dal torrione del castro, Aleramo osservò la manovra dei cavalieri e studiò con attenzione la loro entità e il loro armamento. Sapeva che la tattica dei Saraceni consisteva nel saggiare la resistenza delle difese che avevano di fronte, alla ricerca del punto più debole. Una volta trovatolo, avrebbero concentrato lì tutta la loro forza, approfittando della loro rapidità e della velocità negli spostamenti. Non fu sorpreso, dunque, quando le bande tornarono al punto di partenza e ripartirono all’attacco, questa volta dividendosi in due gruppi. Il primo risalì ancora una volta la strada, aggirò il castro e proseguì verso settentrione. Il secondo galoppò lungo le mura meridionali, passando come un turbine davanti ai Fatimiti e sparendo verso il limite occidentale.

Ben presto, i corni fecero sentire nuovamente il loro richiamo. Un suono ripetuto, ossessivo, che partì dal nord e rimbalzò progressivamente lungo tutta la linea delle difese cristiane.

Le scorribande saracene continuarono per buona parte della mattinata. I cavalieri neri, con i mantelli al vento e gli archi in pugno, imperversavano lungo tutto il perimetro, sbucando dai boschi, profilandosi lungo le pendici delle colline e rovesciando una pioggia di frecce contro la cinta che proteggeva la città. All’interno, i difensori si chiamavano alla voce, con gli sguardi smarriti e i nervi tesi, cercando invano di intercettare quei nemici che apparivano e scomparivano di botto, come mulinelli di polvere portata dal vento.

Poi, quando il sole fu alto nel cielo, le bande si ritirarono lentamente, al passo, riunendosi intorno al Borbore per riposarsi e far rifiatare gli animali. A quel punto, avanzarono i Fatimiti.

Durante l’attacco saraceno la fanteria si era allargata a ventaglio, risalendo un buon tratto dei bastioni occidentali. Dalle retrovie erano arrivati i portatori di fuoco con le loro gabbiette metalliche e, qua e là, si accatastavano fascine. Quando una miriade di fiammelle punteggiò la piana, ebbe inizio un nuovo assalto.

I reparti appiedati avanzavano fino ad arrivare a pochi passi dalle mura, tenendo sollevati i loro scudi leggeri e facendo partire una scarica di frecce verso gli spalti. Poi, alla prima reazione dei difensori, arretravano velocemente e si portavano fuori tiro. Subito, un altro gruppo ripeteva la manovra in un tratto differente, finché il cielo sopra Aquae fu solcato da una ininterrotta scia di fiamme.

Sui bastioni i difensori non avevano un momento di respiro. La cerchia orientale era munita di camminamenti, passerelle, feritoie e di spalti poderosi. Non altrettanto, però, si poteva dire di quella occidentale. Da quella parte, nonostante tutti i lavori voluti da Restaldo, le difese erano costituite per lo più da palizzate miste a siepi spinose, servite da alcune passerelle e rinforzate da qualche torre in legno. Troppo poco per fronteggiare una minaccia di quelle proporzioni.

Neanche i soldati bastavano a presidiare un anello tanto grande. Gli arcieri di Grimaudo coprivano a malapena il fronte meridionale, spostandosi velocemente per intercettare le cariche nemiche. Leonardo cercava di rintuzzare gli attacchi sul versante occidentale con i suoi armigeri, a cui aveva aggiunto le forze raccogliticce messe assieme tra i civili. Per tirare sassi, carrettieri, pastori e contadini andavano bene come soldati veri. Se i Fatimiti avessero serrato sotto, però, quella differenza si sarebbe fatta sentire.

Con il passare delle ore, oltre alla tensione degli scontri, sul volto dei difensori apparve anche la fatica. Dopo la sosta i Saraceni erano tornati a farsi avanti, concentrando i loro sforzi lungo il fronte settentrionale. Questa manovra aveva costretto Leonardo ad allungare le linee, diradando le forze opposte ai Fatimiti. Così, tra un attacco e l’altro, gli uomini dovevano anche correre lungo il perimetro, per rinforzare i punti più esposti e far fronte alla minaccia degli aggressori.

Giù dalle mura le cose non andavano meglio. Aleramo aveva disposto alcune corvée per fornire un appoggio alla difesa. Quella addetta ai rifornimenti era affidata ai ragazzi aquesi. Torme di piccoli monelli correvano da una parte all’altra, carichi di acqua, pane, pietre da lancio, frecce e tutto quello che poteva servire ai combattenti sugli spalti. Le loro sagome agili, scarmigliate e scalze, scalavano i terrapieni, si arrampicavano sulle passerelle e correvano curve lungo i bastioni, sfidando i colpi degli assedianti. Ma il ritmo degli attacchi era incalzante e gli uomini, in alto, non avevano neanche il tempo di dissetarsi.

Per combattere il fuoco, gruppi di civili percorrevano costantemente il perimetro, cercando di spegnere le frecce incendiarie prima che potessero fare danni. Era un lavoro che aveva i suoi rischi e alcuni erano stati già colpiti proprio dai dardi di cui andavano alla ricerca. Nonostante i loro sforzi, però, dense volute di fumo si alzavano da uno dei grandi edifici della parte orientale, mentre il fuoco punteggiava la zona meridionale, dove trovava facile esca tra il dedalo di baracche, stalle e magazzini per il foraggio.

Tranne alcuni combattenti e i civili raggiunti dalle frecce, c’erano stati pochi feriti e ancora meno morti, però alla sera fu chiaro che la città aveva raggiunto il limite. Quando i Mori si ritirarono, verso il tramonto, gli Aquesi si accasciarono sfiniti ai loro posti, troppo stanchi persino per tirare un sospiro di sollievo.

Era stata una giornata dura, ma Aleramo sapeva che il peggio doveva ancora arrivare. Così, non si lasciò impietosire. Dopo aver fatto il giro dei bastioni e controllato i danni, ordinò che si raddoppiasse la guardia sui camminamenti. Inoltre, dispose che si alimentassero costantemente i fuochi, soprattutto quelli lungo il percorso del Medrico, in prossimità della porta delle terme. Scendere per la via del torrente era quasi impossibile, ma un’infiltrazione in quella zona avrebbe rappresentato un colpo mortale per la città e Aleramo, un rischio del genere non voleva proprio correrlo.

Nonostante tutte le precauzioni, però, la riunione che si tenne nel castro, subito dopo, fu improntata al più cupo pessimismo.

– Un’altra giornata così e saremo finiti tutti – borbottò Leonardo gettandosi di traverso su una panca e cercando di pulirsi il viso annerito dal fumo. La sua casacca grigia era coperta di polvere e strappata in più punti. – I miei uomini sono schiantati dalla fatica, mentre quelli si prendono gioco di noi.

– Ho paura che non ci sarà un’altra giornata così – obiettò Grimaudo, lasciandosi andare sul sedile accanto. Poi si tolse il berretto e si passò una mano sulla cicatrice che brillava rossastra al chiarore delle lucerne. – Se domani attaccheranno sul serio, sarà finita molto prima – continuò. Quindi prese due coppe di vino caldo che stavano sul tavolo e ne passò una al giovane.

Leonardo bevve in un fiato, si ripulì la bocca col dorso della mano e posò la coppa davanti a sé. – Se riescono a tagliarci fuori – disse con tono lugubre – ci apriranno in due come una mela. Poi ci mangeranno con calma: un pezzo alla volta, senza faticare.

– Oh, per faticare, faticheranno – riprese Grimaudo nello stesso tono. – Ma il risultato sarà sempre il medesimo. – E si passò un dito sulla gola, sogghignando.

Aleramo se ne stava seduto in un angolo, immerso nei suoi pensieri. Dopo aver visto le manovre sul terreno, era facile prevedere che i Mori avrebbero insistito sulle medesime linee d’attacco. D’altronde, quella era la prospettiva che lo aveva preoccupato fin dall’inizio e che aveva discusso a lungo con Restaldo, soltanto pochi giorni prima.

Eppure, un conto era parlarne e un conto viverla davvero. La tensione di quella lunga giornata lo aveva logorato e i discorsi degli uomini che gli stavano davanti lo mettevano a disagio. Loro, infatti, erano quelli che rischiavano di più. Se i Mori avessero sfondato lungo la linea del Medrico, i difensori della zona occidentale non avrebbero avuto alcuna possibilità. Tagliati fuori da ogni via di ritirata, sarebbero stati braccati dalla cavalleria e fatti a pezzi dalla fanteria nemica.

L’unico intervento che poteva salvarli era quello dei suoi cavalieri. Ma Aleramo non era affatto sicuro di farcela e, soprattutto, si sentiva schiacciato dal peso di quella enorme responsabilità. Così, rimuginando i suoi dubbi, se ne stava seduto in un angolo, fissando la coppa che aveva tra le mani.

A quel punto, si fece sentire la voce di Folco. La sua figura irsuta si staccò dalla penombra della finestra e si profilò nella luce che rischiarava il centro della sala. – Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile – dichiarò seccamente.

Grimaudo sollevò gli occhi e incontrò quelli di Folco. I due si fissarono a lungo, in una tensione crescente. – No – ribatté infine l’arciere in tono altrettanto duro, alzandosi. – Nessuno lo ha detto. Ma per qualcuno potrebbe essere più facile che per altri.

– E per chi, di grazia? – domandò Folco bellicoso, facendo un passo in avanti.

– Ehi, Ehi – disse Leonardo allarmato, alzandosi a sua volta e mettendosi in mezzo ai due. – Non è così che… – ma fu interrotto dal suono dei corni in lontananza. Subito dopo, uno dei suoi uomini entrò nella sala.

– Capitano – disse l’armigero avvicinandosi. – I Mori sono tornati e lanciano frecce incendiarie sui bastioni.

Sentendo quelle parole, Aleramo si riscosse. Gli era già capitato altre volte di trovarsi nei guai e, quando gli sembrava di aver toccato il fondo, riusciva sempre a trovare in sé la forza di risalire. Ora, il ritorno dei nemici, lungi dal deprimerlo ulteriormente, lo rianimò. Così si alzò, raggiunse Folco e lo trattenne, mettendogli una mano sulla spalla. – Dobbiamo combattere là fuori – disse con rabbia – non qui dentro.

Poi lasciò la presa su Folco e si rivolse a Grimaudo. – Siamo tutti negli stessi guai, capitano – sibilò – e dobbiamo tirarcene fuori insieme.

Grimaudo lo guardò imbarazzato. – Veramente, io volevo dire… – cominciò, ma Aleramo lo interruppe con un gesto. – Lo so, lo so – disse. – Siamo tutti stanchi. Stanchi e nervosi. Ma se noi siamo messi male, vi prometto che per quelli fuori sarà anche peggio. – Quindi si voltò e uscì in fretta.

Dall’altra parte del Borbore, i pensieri di Sagitto erano ben più lieti. Avvicinandosi al campo, il piccolo berbero si sentiva tutto eccitato per l’esito della giornata e già pregustava ciò che sarebbe avvenuto il giorno dopo. Ormai aveva un piano ben chiaro in testa e sentiva che la vittoria non poteva sfuggirgli. Attaccando la parte occidentale su due fronti, non solo l’avrebbe penetrata facilmente, ma avrebbe chiuso in mezzo i difensori. Così, dopo averli decimati, avrebbe potuto stringere l’assedio intorno all’altra zona.

A quel punto, sarebbe stata solo questione di tempo. Poi, Aquae sarebbe caduta e lui sarebbe stato ricordato a lungo come il più grande rais dei Saraceni.

Quella prospettiva lo entusiasmava. Smontando da Farad, lo salutò con un buffetto scherzoso e si avviò verso la sua tenda. Si diede una lavata, si ripulì l’abito e, quando uscì di nuovo, vide che le pattuglie si preparavano a muoversi. Gli uomini imbracciavano l’arco, passavano accanto ai fuochi e si dileguavano a piccoli gruppi nel sottobosco. Con loro portavano brace e frecce bastanti per far passare una notte insonne agli infedeli.

Sagitto osservò con calma la manovra e controllò la fiaschetta che portava addosso. Poi, sentendosi magnanimo, decise che poteva dividerla un’altra volta con Abu Ja’far e Abu Jusuf. In fondo, doveva dire grazie anche ai loro sforzi se, l’indomani, lui avrebbe avuto il suo trionfo.

Strada facendo, però, cambiò idea. La giornata era stata troppo dolce per dividerla con qualcuno. Meglio restarsene da solo, accarezzando l’euforia che si sentiva dentro e cullando il grande sogno che stava per tramutarsi in realtà. Così, senza pensarci, i suoi passi lo portarono lungo il fiume.

La falce di luna rischiarava le sponde del Borbore e lo sciacquio dell’acqua era un mormorio leggero contro la riva. Il piccolo berbero si sedette sul greto e osservò la città, i cui contorni si stagliavano scuri contro il cielo estivo.

Restò lì a lungo, assorto nei suoi pensieri, guardando davanti a sé e ascoltando la voce del fiume. Poi frugò nel barracano ed estrasse la fiaschetta. La stappò, la levò in alto e fece una specie di brindisi. Quindi chiuse gli occhi, mentre assaporava l’aroma del liquore che gli scendeva in gola.

VII

All’alba del giorno dopo, l’attacco riprese com’era cominciato. Abu Ja’far e Abu Jusuf condussero nuovamente i Fatimiti lungo la radura e oltre il ponte, defilandoli al riparo delle macerie. Quindi toccò ai Saraceni, che si riunirono intorno ai resti dell’anfiteatro e partirono all’assalto dei bastioni. Questa volta, però, i diavoli neri non si limitarono a urlare e a sfilare davanti alle mura. Al posto degli archi e delle lance, di traverso sulle selle portavano piccole fascine che lanciavano sporgendosi dai cavalli spronati al galoppo.

La manovra era più difficile, e anche più pericolosa delle precedenti, perché i Saraceni erano costretti ad avvicinarsi al perimetro e ad esporsi al tiro degli spalti. Quando, finalmente, si ritirarono, più di un colpo era andato a segno, ma cataste di legna ostruivano ormai tutte le porte. A quel punto volarono le torce e i difensori si affrettarono con l’acqua, prima che le fiamme si sviluppassero a intaccare i battenti.

Quello fu il momento che i Fatimiti scelsero per farsi avanti. Durante le manovre della cavalleria, il grosso delle loro forze si era dispiegato, risalendo ancora una volta il versante occidentale. Ora, nella confusione del fumo e degli incendi, gli uomini si buttarono in avanti per tutta l’estensione del fronte, mentre i tamburi li spingevano, rullando ossessivamente.

La prima ondata partì all’assalto delle mura agitando le lance, i pugnali e le scimitarre. Dall’alto, gli arcieri di Grimaudo e gli armigeri di Leonardo, appoggiati da gruppi di civili, si prepararono a rispondere con una nutrita scarica di pietre e frecce. La linea fatimita, però, si fermò quasi subito, ricomponendosi a debita distanza. Intanto, altri uomini avanzavano, affluendo dalle retrovie.

Il giorno prima, i tagliagole che avevano seguito l’esercito fin dalla costa erano stati lasciati indietro durante le schermaglie iniziali. Ora, però, venivano spinti all’assalto delle mura perché, con il loro sacrificio, aprissero la strada ai fanti. Molti di quei disperati portavano alberi sbozzati per servire da scale e tronchi più massicci, da impiegare come arieti. Vacillando sotto quei pesi, avanzavano con una certa riluttanza, finché, stretti dai Fatimiti che li pungolavano con le lance, cominciarono a correre urlando, mentre gli arieti prendevano di mira le palizzate e le scale venivano sollevate contro i bastioni.

I difensori si trovarono subito in difficoltà. Ancora una volta, l’area dell’attacco si rivelò troppo vasta e gli uomini insufficienti a coprirla tutta. Qualcuno diede mano alle picche per ributtare indietro le scale, ma quelli che si scoprivano troppo erano un facile bersaglio per la grandine di frecce che tempestava gli spalti.

La battaglia si frazionò in una miriade di combattimenti isolati e si fece sempre più aspra col passare del tempo. I due gruppi si contendevano le mura con ogni mezzo e i corpi dei caduti testimoniavano la violenza dello scontro. Lentamente, però, il numero degli attaccanti cominciò a prevalere sulle esigue forze dei difensori.

Sulla destra dello schieramento, gli assalitori presero ad arrampicarsi lungo un tronco, prima che qualcuno facesse in tempo a scalzarlo. Quello in testa alla fila, un tipo ossuto che indossava una lunga tunica chiara, riuscì ad arrivare fino al parapetto. Stava già per scavalcarlo, quando un uomo si sporse e lo infilzò su una lancia. Il disgraziato si guardò il ventre trapassato dal ferro, cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma le sue mani incontrarono soltanto il vuoto. Annaspando disperatamente, si girò su un fianco e cadde all’indietro con la tunica che gli svolazzava intorno.

Il suo uccisore, però, non ebbe miglior sorte. Scoprendosi, fu un facile bersaglio per gli arcieri appostati in basso. Gli archi vibrarono uno dietro l’altro e numerose frecce fecero sentire il loro ronzio. L’uomo, colpito a morte, si portò le mani al viso, accasciandosi sul posto. Subito un secondo assalitore lo raggiunse, lo scavalcò e si issò sul bastione. Poi diede un calcio al corpo e lo buttò di sotto, mentre i suoi compagni esplodevano in un coro di risate e di schiamazzi.

Dall’altra parte, le cose non andavano meglio. La porta di san Pietro, che proteggeva la diramazione della via Aemilia in uscita dalla città, era particolarmente esposta perché mancava di parapetti e difese laterali. Per renderla più sicura erano state erette due torri, da cui era possibile controllare l’accesso e difendere i battenti di quercia che sbarravano la strada. Le torri, però, erano costruzioni fragili, poco più che piattaforme poggiate su pali e protette da assi di legno. Troppo poco per resistere ad un attacco condotto con decisione.

I Fatimiti si fecero subito sotto, portando lunghe corde che terminavano con degli uncini. Gli uomini manovrarono come se fossero sulla plancia delle loro navi. Si piantarono a gambe larghe, fecero roteare le funi sulla testa e andarono all’abbordaggio delle torri nemiche. Le corde frustarono l’aria e i grappini si abbatterono con forza sulle incastellature.

Le piattaforme erano presidiate dagli armigeri di Leonardo. Il loro armamento era costituito principalmente da una lancia lunga, pesante e poco maneggevole, che si rivelò subito inadatta all’occasione. Gli uomini sguainarono la spada, una specie di gladio corto a doppio taglio, ma, per quanto si sforzassero, le funi erano robuste e i grappini incastrati profondamente nel legno. Così, mentre gli armigeri sopra si affannavano a tagliare, i Fatimiti sotto cominciarono a tirare.

Arrivando sul posto con una pattuglia di cavalleria, Sagitto fu pronto a sfruttare l’occasione. Fece assicurare le corde alle selle e diede l’ordine di spronare i cavalli. La torre di destra s’inclinò quasi subito e cadde rovinosamente sugli spalti, tirandosi dietro i difensori. Quella di sinistra resistette un po’ di più, lasciando agli armigeri il tempo di sgomberare la piattaforma. Poi si rovesciò su un fianco, sollevando una nuvola di polvere sopra le mura. A quel punto, mentre i Saraceni si allontanavano, avanzarono gli arieti, che cominciarono a battere i loro colpi di maglio contro il portale ormai indifeso.

Dall’alto del castro Aleramo cercava di seguire l’andamento della battaglia in un silenzio carico di tensione. Aveva previsto che i Mori, dopo le prime scaramucce, si sarebbero concentrati sui bastioni occidentali. Quello era il punto più debole e più penetrabile di tutto il perimetro difensivo. E aveva anche immaginato che, a cadere per prima, sarebbe stata la porta di san Pietro. Eppure, quando da quella parte il corno suonò due volte, sussultò e una fitta di disperazione scese a incupirgli il volto. Quindi abbandonò in fretta gli spalti e scese la ripida scaletta che dava sul cortile interno. Lì, fece un cenno d’intesa agli uomini che lo aspettavano e montò in groppa al suo cavallo.

Il drappello era costituito dai migliori soldati ai suoi comandi ed era pesantemente armato di picche, francische, asce e lunghi scudi biancorossi. Quando si mosse in fila doppia, fu tutto un tintinnare di corazze, elmi e maglie di ferro. Uscendo dal castro, Aleramo fece un altro cenno e qualcuno mise mano alla sella. Subito, il suono ululante del corno lacerò l’aria del cortile, diffondendosi per tutta Aquae.

Sul fronte meridionale Grimaudo era disperato. Sapeva che gli arcieri diventavano pericolosi quando colpivano da lontano. In un corpo a corpo, invece, erano destinati a soccombere perché avevano soltanto un pugnale per difendersi. Lo sapeva bene, eppure aveva accettato di farsi coinvolgere in quel piano e, ora, malediceva la sua decisione, mentre i nemici erano già sui bastioni, pronti a sterminarli.

Quando senti suonare il corno, accolse il segnale come una liberazione. Si levò il berretto, lo sventolò in aria e urlò a pieni polmoni: – Giù ragazzi! Giù e correte a più non posso! – Nessuno se lo fece ripetere. In un lampo, tutto il reparto saltò dai bastioni interni e si raccolse alla base del muro. Poi prese a correre verso un terrapieno che era stato eretto cinquanta passi più avanti, lungo la direzione della chiesa.

Quella manovra sconcertò gli attaccanti. Rimasti all’improvviso padroni dei camminamenti, si guardarono intorno incerti. Quando videro le casacche rossoverdi che stavano scappando in basso, un urlo di trionfo percorse le loro file e tutti si affrettarono a scendere per lanciarsi all’inseguimento dei difensori.

Gli arcieri, però, non si persero d’animo. Correndo a perdifiato, raggiunsero la nuova postazione proprio mentre alle loro spalle si scatenava la caccia. Il terrapieno era lungo almeno trenta passi e poco più basso della cintura di un uomo. Dietro quel riparo, Grimaudo fece disporre il reparto su due linee; la prima accosciata e la seconda in piedi. Quindi, al suo comando, la prima fila inondò di frecce gli spalti, mentre la seconda tirava agli uomini più vicini.

La carica si arrestò come se avesse sbattuto contro un muro. Gli arcieri avevano tenuto la mira bassa perché quello che contava in quel momento non era uccidere, ma frenare l’assalto. Così, gli uomini che correvano in testa si ritrovarono stesi nella polvere del cortile con una freccia conficcata nel ventre o piantata nelle gambe. I pochi rimasti in piedi, vedendo la fine degli altri, esitarono. Poi, proprio mentre stavano riorganizzandosi, una nuova salva li raggiunse, convincendoli a cercare riparo sotto gli spalti.

Sulle mura la situazione era ancora più confusa. Data la distanza, le frecce non avevano fatto molti danni e i pochi colpiti furono subito rimpiazzati da chi saliva. I nuovi arrivati si affacciarono all’interno proprio in tempo per vedere i loro compagni caduti e i superstiti darsela a gambe nel cortile. Questa volta, l’urlo fu di rabbia. Poi, l’orda degli attaccanti riprese l’inseguimento mentre gli arcieri arretravano di nuovo, lanciandosi verso un secondo terrapieno, poco distante dal primo.

Anche dai bastioni occidentali i difensori ripiegavano. Le forze al comando di Leonardo non erano ancora pressate da vicino, ma era solo una questione di tempo. Di lì a poco, i nemici avrebbero abbattuto la porta e la fanteria fatimita sarebbe entrata in città di corsa, travolgendo chiunque gli si fosse parato davanti.

Il gruppo di armigeri e di civili arretrò rapidamente, infilandosi nella ragnatela di passaggi e di vicoli che si aprivano fra le catapecchie ammassate in quella zona della città. Poco più avanti, aggirò la mole della chiesa di san Pietro e scavalcò la via Aemilia. Lì, a ridosso della porta che dava sulla strada per Hasta, era stata costruita una barriera. Per tirarla su c’erano voluti due giorni di dura fatica, passati ad ammucchiare pietre e a trasportare carretti, mobili, steccati, balle di paglia, botti. Tutto quello che poteva servire, compresi i tronchi sradicati dai frutteti di proprietà del vescovo.

Gli uomini si ammassarono intorno alla barricata e Leonardo li fece appostare subito dietro. I civili, poco armati, al centro e gli armigeri, con le loro lunghe lance, ai lati. Quando tutti furono a posto, fece venire avanti alcuni grossi orci, pieni d’olio. San Siro sarebbe stato al buio quell’inverno, ma con quel piccolo sacrificio avrebbe contribuito a salvare la città.

Dall’altra parte, la cavalleria saracena attendeva, al riparo dei boschi che circondavano la zona. Il suono dei corni aveva colto Sagitto di sorpresa. In un primo momento si era guardato intorno preoccupato, ma nulla faceva presagire che gli infedeli avessero in animo una reazione qualsiasi. I Fatimiti erano sulle mura, gli arieti stavano scardinando i battenti della porta di san Pietro e lui era alla testa dei suoi, pronto alla carica. Di sicuro, quello doveva essere il segnale della ritirata, l’ultimo disperato tentativo di allestire una difesa.

Il piccolo berbero sogghignò soddisfatto, poi alzò un braccio. Subito, dai boschi alle sue spalle vennero avanti due carri che si fermarono in fila lungo la strada. Ogni carro era trainato da un tiro di coppia, guidato da un uomo che montava il cavallo di destra. Alle sue spalle, il pianale di carico era stipato fino all’inverosimile di paglia mista a piccole fascine di legna secca.

Quando Sagitto abbassò il braccio, i conducenti diedero di sprone e fecero schioccare le fruste, incitando a gran voce le bestie. I veicoli si mossero sobbalzando, seguiti da due cavalieri che tenevano una torcia accesa in mano.

Le pariglie erano formate da cavalli robusti che presero subito un buon passo, aiutati dalla compattezza del fondo e dalla pendenza della strada. A metà percorso, i cavalieri di retroguardia lasciarono cadere le torce nei pianali e spronarono i cavalli, affiancando le pariglie dalla parte della guida. Intanto, il fuoco trovava una facile esca nel carico e si apriva la via tra il legno e la paglia. Ben presto, dal retro dei carri si levarono crepitando le fiamme.

L’odore dell’incendio giunse alle narici dei cavalli. Spaventati dal fuoco e spronati dalle fruste, gli animali aumentarono di colpo la velocità, rompendo in un galoppo sempre più furioso, con la bava che affiorava alla bocca e gli zoccoli che rimbombavano freneticamente sul terreno.

Quando giunsero in prossimità della porta che sbarrava la via, cercarono di scartare per sfuggire all’impatto, ma i conducenti non glielo permisero. Tenendoli saldamente per i morsi, li costrinsero a correre nella medesima direzione. Poi, quando furono a pochi passi dal recinto, si sollevarono in piedi, afferrarono la mano tesa dei compagni e, con un unico movimento fluido, saltarono sulla groppa dei cavalli che galoppavano loro accanto. I carri, intanto, divorati dalle fiamme, terminavano la loro corsa contro la porta.

Il botto fu tremendo. La prima pariglia, lanciata a velocità folle, si schiantò alla base del palo su cui s’incardinava il battente di destra, facendolo ondeggiare come un fuscello. La seconda si abbatté proprio contro il centro della porta. Il timone del carro s’incuneò profondamente nella recinzione, schiantando i battenti, mentre il pianale si ribaltava in avanti, sparpagliando il suo carico di fiamme dappertutto.

Sagitto osservò la scena gongolando. Durante lo svolgimento della manovra, dai difensori non era giunta alcuna risposta e, anche dopo, gli spalti erano rimasti deserti. Nel piccolo berbero si rafforzò l’idea che gli infedeli, ormai, fossero allo sbando. Così prese ad avanzare, sicuro di sé e della sua vittoria. Man mano che si avvicinava, però, la situazione andava peggiorando. Il fuoco che aveva attaccato il recinto, lungi dall’estinguersi, sembrava rinfocolare ad ogni momento. Dalle rovine si alzavano volute di fumo sempre più dense, che il vento spingeva oltre il varco della porta, innervosendo i cavalli e impedendo la vista agli attaccanti.

Smontando da Farad, Sagitto si fece strada a tentoni fino all’apertura. Soltanto dopo aver oltrepassato il varco si rese conto di essere stato tratto in inganno. Dall’altra parte, infatti, un muro di fuoco lo respinse, mentre dalla barricata si levavano alte le fiamme.

Intanto, la colonna di Aleramo era arrivata al Medrico, percorrendo al passo una città deserta e silenziosa. Intorno si respirava un’aria di attesa e la tensione era palpabile fra quegli uomini che sfilavano muti, accompagnati soltanto dallo scalpitio dei cavalli.

Nei pressi del ponte, però, c’era animazione. Un drappello di armigeri ne presidiava l’imbocco, lanciando sguardi preoccupati verso il fumo che si alzava dal campo di battaglia. Squadre di civili si aggiravano sulla riva, rinforzando le barricate e brandendo le scuri con cui, in caso di necessità, avrebbero abbattuto l’unico collegamento con l’altra parte. Con loro c’era anche un gruppetto di monaci e uno di essi alzò il braccio al passaggio dei cavalieri, tracciando il segno della croce a benedirli.

Anche Aleramo si fece il segno della croce, poi avanzò al trotto con Folco che lo seguiva dappresso. Alle sue spalle, la voce del corno sovrastò il rimbombo degli zoccoli sopra il piancito del ponte.

Passato il torrente, il drappello proseguì lungo la via Aemilia. Alla loro destra si profilarono i bagliori dell’incendio che divampava lungo la strada per Hasta, ma i cavalieri non se ne curarono e proseguirono la marcia, diretti verso san Pietro. Soltanto quando furono nelle vicinanze della chiesa si misero al passo, inoltrandosi nel grande piazzale con circospezione.

I Fatimiti, invece, non erano stati altrettanto prudenti. Vedendo scappare gli arcieri verso il secondo terrapieno, avevano scordato le consegne e si erano buttati all’inseguimento. Sulle prime, Abu Ja’far e Abu Jusuf erano riusciti a mettere un po’ d’ordine e a tenere uniti i reparti. Poi, stuzzicata da quelle prede che sembravano ormai a portata di mano e martirizzata dalle frecce che falcidiavano le sue file, l’orda ruppe la formazione e si gettò in una corsa sfrenata.

L’inseguimento si trasformò così in una spietata, feroce caccia all’uomo. Gli arcieri avevano un vantaggio esiguo e cercavano di sfruttarlo per sparire nel dedalo dei vicoli alle loro spalle. I Fatimiti, in cerca di vendetta, correvano come forsennati, nel tentativo di ridurre le distanze e mettere le mani su quelle ombre che apparivano e scomparivano davanti a loro.

Per gli uomini di Grimaudo furono momenti terribili, ancora peggiori di quelli passati sugli spalti. Con il fiato dei nemici sul collo, non c’era spazio per alcun errore. Bastava una scivolata, una svolta sbagliata, un rallentamento improvviso per essere risucchiati e fatti a pezzi dagli inseguitori. Molti morirono così, raggiunti da una freccia nella schiena o abbattuti a colpi di bastone dalla torma inferocita.

Quando arrivarono in vista di san Pietro, della compagnia partita da Genua era rimasto meno della metà. Insieme agli arcieri, un gruppo di civili e alcuni armigeri si guardavano intorno allucinati. Grimaudo, però, non si perse d’animo. Con il fiato grosso e la voce rotta dallo sforzo, guidò gli uomini oltre i muretti a secco e li dispose lungo la recinzione. Poi si piazzò al centro dello schieramento e attese.

I Fatimiti non si fecero aspettare. Le loro avanguardie sbucarono dalle viuzze intorno e, vedendo la chiesa così vicina, presero nuovo slancio. Come si avvicinarono, però, vennero abbattuti da una raffica di frecce. Neanche i rinforzi ebbero miglior sorte perché, attaccando alla spicciolata, furono facile preda dei difensori, ben coperti dai muretti. Poi, quando riuscirono finalmente a raggrupparsi, si profilò un nuovo ostacolo. Sbucando dall’angolo di san Pietro, Aleramo cavalcava alla testa dei suoi, disponendosi a intercettarli.

Il conte aveva schierato la sua cavalleria su due linee. All’apparire dei nemici, gli uomini della prima linea si aggiustarono gli scudi e sollecitarono i cavalli. Quindi partirono affiancati, abbassando le picche. La carica fu devastante. I Fatimiti cercarono riparo buttandosi sui lati, ma vennero travolti da quell’uragano di ferro, finendo infilzati dalle lance e calpestati dagli zoccoli. Poi, quando la carica arrivò in fondo, partì la seconda linea.

In pochi minuti, la radura dietro san Pietro si trasformò in un gigantesco mattatoio. Dopo aver disperso i nemici, i cavalieri gettarono le picche e continuarono l’attacco impugnando le asce da guerra. I Fatimiti cercavano di resistere, riunendosi in gruppetti e tentando di colpire i cavalli. Le loro lance corte, però, poco potevano contro le protezioni di cuoio bollito che riparavano gli animali. Le asce, invece, spaccavano gli scudi in un colpo solo, mietendo braccia e teste come se fossero state spighe di grano nei campi.

Alla fine, i Fatimiti non ressero. Isolati tra loro e frastornati da quella gragnuola di colpi che arrivava da tutte le parti, ruppero in una fuga precipitosa, cercando scampo tra l’intrico di catapecchie da cui erano giunti. Soltanto alcuni, tagliati fuori da quella via di fuga, risalirono lungo il perimetro di san Pietro, provando a salvarsi da quella parte.

Aleramo aveva guidato una carica dopo l’altra, mentre Isa danzava tra le sue mani e si abbatteva come una folgore sui nemici che gli si paravano davanti. Nell’accanimento della battaglia, l’istinto aveva preso il sopravvento. I lunghi anni di addestramento si erano impadroniti del suo braccio e lui aveva continuato a mulinare la spada, parando e affondando come se si fosse trovato in piazza d’armi. Alla sua mancina, Folco roteava la scure, proteggendogli il fianco. Ora, però, non c’erano più nemici da abbattere e il conte arrestò il cavallo, guardandosi intorno ancora fremente. Soltanto in quel momento, si rese conto della vittoria. Allora levò in alto Isa, rossa di sangue, mentre i suoi cavalieri sollevavano a loro volta le armi, acclamandolo.

Sagitto, intanto, stava scendendo verso la porta di san Pietro alla massima velocità possibile. Davanti alla barricata in fiamme si era reso conto subito dell’impossibilità di oltrepassarla e aveva intuito cosa poteva succedere dall’altra parte. L’unica speranza che gli rimaneva, se voleva ancora vincere, era quella di arrivare in tempo ad appoggiare i Fatimiti, prima che gli infedeli li prendessero in mezzo e li spazzassero via dalla città.

Tempo! Mentre galoppava, il piccolo berbero non pensava ad altro. Al tempo passato in quei luoghi, agli stenti, al freddo, alla solitudine, a quanto gli era costato sopravvivere in quelle contrade, sempre in attesa del momento buono. Della grande occasione della vita. Ora che gli era capitata, che l’aveva davanti a sé, non poteva lasciarsela scappare. Doveva fermarla, afferrarla, prenderla al volo, prima che si volatilizzasse come un sogno. Così spronava Farad, sentendo il tempo che fuggiva inesorabile sotto gli zoccoli del cavallo in corsa.

Soltanto quando passò la porta e vide i primi sbandati venirgli incontro, capì che era finita. La grande occasione era lì, a pochi passi, ma lui non l’aveva afferrata. Non aveva combattuto la sua battaglia e il suo tempo si era ormai tutto consumato.

Eppure, non si rassegnò. Sporgendosi dal cavallo, cercò di sbarrare la strada ai fuggitivi, ricacciandoli indietro e urlando insulti al loro indirizzo. Quelli, però, non gli diedero retta. I più vicini si limitarono a scostarsi, mentre i resti della baldanzosa armata fatimita correvano verso la salvezza. Allora spronò Farad e risalì la via, finché arrivò in vista della chiesa. Lì si bloccò come inebetito, fissando gli infedeli che affollavano lo spiazzo giubilanti.

Fra tutti, il suo sguardo fu attirato in particolare da un cavaliere alto, massiccio, che impugnava una grande spada scintillante e si aggirava fra gli uomini col fare autoritario di chi è al comando. Anche l’altro vide il Saraceno e i suoi occhi, duri come pietre, si piantarono in quelli di Sagitto per un tempo che parve un’eternità. Poi il cavaliere alto si riscosse, puntò la spada in avanti e alzò un braccio per chiamare a raccolta i suoi, mentre le labbra gli si arricciavano in un ghigno feroce.

A quella vista, Sagitto fu preso da un accesso di rabbia incontenibile. Un velo scese ad oscurargli gli occhi e la mano corse alla scimitarra, mentre i talloni già colpivano i fianchi di Farad per scagliarlo contro il nemico.

Fu Bakthiar a fermarlo. L’omone lo affiancò, prese Farad per il morso e lo bloccò. Poi si girò verso Sagitto e gli urlò qualcosa.

Il piccolo berbero nemmeno lo sentì. Immerso nella sua furia, provò a liberarsi dalla morsa del compagno, pungolando freneticamente il cavallo e cercando di sguainare la scimitarra. Ma i suoi sforzi furono inutili. Bakthiar continuò a tenerlo stretto e Farad cominciò a scalciare nervosamente, rinculando all’indietro. Allora la rabbia lo abbandonò e Sagitto si lasciò andare sulla sella, spossato e affranto dal dolore.

Ancora una volta, intervenne Bakthiar. – Sagitto! Sagitto! – urlò l’omone prendendolo per le spalle. – Cosa facciamo, adesso?

Il piccolo berbero sollevò la testa e guardò il compagno tra un velo di lacrime, senza che dalla sua bocca uscisse un suono.

– Guarda! – insistette Bakthiar scuotendolo. – Stanno per venirci addosso. Devi dirci cosa dobbiamo fare.

Facendo appello a tutta la sua volontà, Sagitto ricacciò indietro le lacrime e si rimise dritto in sella. Lentamente, il velo davanti ai suoi occhi si sollevò e lui fu in grado di vedere chiaramente gli infedeli che stavano radunandosi. Il cavaliere alto gridava degli ordini e passava tra le file con la spada in pugno.

– Niente! – disse in un sussurro. – Non c’è proprio niente che possiamo fare.

– Allora andiamocene! – protestò Bakthiar, sempre più allarmato. – Ritiriamoci e cerchiamo di unirci ai Fatimiti.

Sentendo nominare i Fatimiti, Sagitto ebbe un guizzo. Gli occhi mandarono un lampo e le labbra si torsero in un sogghigno, mentre l’antico predone prendeva il sopravvento. – I Fatimiti – ringhiò – sono già morti! Specialmente uno!

Piantò i talloni nel ventre di Farad e tirò bruscamente le redini, finché il cavallo non s’impennò, nitrendo. Poi, caracollando con la scimitarra sguainata, si voltò a fronteggiare i nemici, lanciò il suo urlo di guerra e si girò di scatto, sparendo ben presto in un furioso galoppo.

* * * * * * * * *

Il mattino dopo, un caldo sole splendeva su Aquae. La città era in fermento, ancora scossa da quello che era accaduto, ma ansiosa di tornare alla vita di sempre. Domati gli incendi, nella zona occidentale era tutto un brulichio di uomini che si affaccendavano intorno alle palizzate, riparando le recinzioni e cercando di ripristinare le porte. Sulle mura, occhi vigili stavano in guardia, nel caso che i nemici si facessero rivedere e fosse necessario riprendere le armi. Nella zona orientale, invece, l’atmosfera era più distesa e gli Aquesi tornavano ad attendere ai loro commerci, confidando che il peggio fosse ormai alle spalle.

Anche Aleramo e Leonardo si erano lasciati coinvolgere da quell’aria leggera e camminavano lungo le strade rispondendo alle acclamazioni, ai sorrisi e alle urla di gioia che scandivano il loro passaggio. La sera precedente erano stati portati in trionfo dal popolo e i loro nomi erano stati scanditi a lungo da una folla in delirio. Di lì a poco, poi, li aspettava Restaldo che avrebbe officiato il grande Te Deum di ringraziamento.

Il vescovo, forse, era l’unico a non essere pienamente soddisfatto. Dopo che le sue pertinenze erano state demolite, infatti, anche la chiesa era uscita malconcia dalla battaglia. Un gruppo di Saraceni si era barricato al suo interno e, prima di essere annientato, aveva dato fuoco al complesso, provocando gravi danni. In quel momento, però, i due uomini avevano altro a cui pensare e continuarono a godersi il loro momento di gloria fino all’imbocco di piazza delle terme.

Al centro dello slargo sorgeva il complesso termale più grande e più famoso della città. Lì, durante i fasti di Roma imperiale, arrivavano di continuo visitatori e molti erano coloro che si trattenevano per la cura delle acque e dei fanghi. Allora, il complesso doveva essere stato imponente, ma il tempo ne aveva corroso lo splendore. Della fontana monumentale che dominava la piazza erano rimasti solo poco resti. La fonte sgorgava sempre, al centro del suo pozzo quadrato, ma la grande vasca che la circondava era piena di lordure. Anche i sedili di marmo che le facevano da corona apparivano sozzi e gli schienali erano stati divelti in più punti.

Lo stabilimento termale non era in condizioni migliori. Il colonnato e parte della struttura avevano ceduto, fornendo materiale da costruzione a basso prezzo. Soltanto la zona centrale sembrava ancora in buone condizioni, anche se sui muri esterni si vedeva più di uno squarcio. Aleramo e Leonardo si infilarono in uno di questi, penetrando all’interno. Dentro, il fabbricato rimasto era delimitato da due stanze. Al centro della prima c’era una vasca rettangolare, piena d’acqua calda. Il pavimento della seconda era attraversato da alcune grate, con una fila di sedili lungo i muri intorno.

In tutta la città non si era trovato un ambiente altrettanto confortevole in cui potessero essere ricoverati i feriti della battaglia. Lì, invece, c’era spazio, acqua, e calore per tutti. Così, dopo la conclusione degli scontri, gli Aquesi si erano dati a quella pietosa opera nei confronti dei loro concittadini più sfortunati, raccogliendoli sul campo e trasportandoli alle terme. Quanto ai Mori, le loro carcasse erano state gettate nella pira che ardeva sulla strada per Hasta, mentre le teste facevano bella mostra di sé in cima alle picche issate sugli spalti.

Tutt’intorno alla vasca, sul pavimento della prima stanza erano state allineate lunghe file di pagliericci sui quali una moltitudine di dolenti si agitava e si lamentava incessantemente. Tra loro si aggiravano alcuni monaci che trafficavano con pezzuole e bacili, le vesti sollevate per non dare ingombro. Qua e là si affaccendavano i cerusici, mentre qualche scrivano prendeva nota delle ultime volontà dei moribondi o vergava missive destinate ai parenti.

L’aria era greve e diffondeva intorno un acuto afrore di aceto, misto al penetrante aroma del tiglio e al tanfo pesante del sangue. Affacciandosi, Aleramo e Leonardo furono assaliti da quell’odore violento e, istintivamente, arretrarono, riparandosi nell’altra stanza. Lì, trovarono quello che erano venuti a cercare.

Il capitano Grimaudo se ne stava mezzo sdraiato su uno dei sedili addossati al muro, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata ad un mantello ripiegato che gli faceva da guanciale. La casacca verde e rossa giaceva a terra in un mucchio e il suo torso irsuto si abbassava e si sollevava lentamente, come se dormisse.

Lungo la spalla sinistra spiccava una striscia rossa, con i bordi violacei, che si perdeva sotto l’ascella. Sul sedile di fianco, una ciotola e alcune pezzuole, sporche di sangue, indicavano che il taglio era già stato suturato e pulito da un chirurgo. Dall’altro lato, una brocca, un bicchiere e i resti di un pasto testimoniavano che la ferita non era poi così grave come era sembrata in un primo momento.

Aleramo ne fu molto sollevato. Quando i Saraceni se l’erano data a gambe, vicino alla chiesa, lui si era subito avvicinato alla postazione degli arcieri. Dopo lo screzio della sera precedente, voleva essere il primo a sincerarsi delle condizioni del reparto e a congratularsi con il suo capitano. Invece, aveva trovato Grimaudo steso a terra, con il respiro affannoso e la giubba piena di sangue. Ora, però, il suo aspetto sembrava molto migliorato e Aleramo si avvicinò per sincerarsene. Quel movimento risvegliò il dormiente.

– Ah, siete voi – borbottò Grimaudo, alzando il braccio buono e passandosi la mano sugli occhi. – In visita o per guai?

– Se state bene voi, i guai sono finiti – rispose Aleramo, sorridendo.

– Allora, abbiamo proprio vinto – esclamò Grimaudo mentre il viso gli si rianimava. – Sapete, qui non mi dicono granché…

– E fanno bene, perché dovete riprendervi – lo interruppe Aleramo, appoggiandogli una mano sulla spalla. – Comunque, è stata una grande vittoria e i Mori stanno ancora scappando.

– Peccato che io non abbia visto niente – si lamentò il capitano.

– Però, avete fatto molto – intervenne Leonardo, avvicinandosi. – Se siamo ancora qui a parlarne, dobbiamo dire grazie a voi.

Imbarazzato da quegli elogi, Grimaudo fece per alzarsi, ma una fitta di dolore lo bloccò a metà del gesto. Aleramo e Leonardo, allora, gli si avvicinarono premurosamente e lo aiutarono a sistemarsi meglio sul sedile. Erano intenti a quell’opera, quando dall’altra stanza arrivò Folco.

Dopo la conclusione della battaglia, Aleramo lo aveva mandato a inseguire i Mori e ora, reduce dalla sua missione, Folco arrivava a fare rapporto, ancora segnato dalla lunga cavalcata e con le armi al fianco. Sotto il braccio sinistro portava una gabbia mentre, col destro, reggeva una grossa sacca da sella. Nella gabbia, alcuni piccioni cercavano di mantenere l’equilibrio, zampettando furiosamente.

Folco, comunque, non se ne preoccupò. Si avvicinò a uno dei sedili, depositò i suoi fardelli e si accostò ad Aleramo. – Gli siamo stati dietro tutta la notte – disse con voce stanca. – I fanti sono scappati verso sud e si sono dispersi nella boscaglia. Ne abbiamo stanato un buon numero e la caccia sta ancora continuando.

– E i cavalieri? – chiese Aleramo.

Folco scosse la testa. – Niente da fare – disse con rincrescimento. – Quelli si sono dileguati nei boschi e hanno fatto perdere le loro tracce. Però – aggiunse sogghignando – non credo che si faranno rivedere facilmente da queste parti.

Intanto, Leonardo si era avvicinato alla gabbia. – Comunque, vedo che ci hanno lasciato un regalo – disse, mentre scrutava incuriosito tra i listelli.

– Non so – fece Folco, incerto. – Erano nel loro accampamento, dentro alla tenda più grande e sfarzosa. Mi è sembrato strano, così li ho presi e li ho portati con me.

– Per essere strano è strano – commentò Aleramo. – E c’erano solo i piccioni, nella tenda?

Folco prese un’aria fintamente dispiaciuta. – Qualcuno c’era, per la verità – disse alzando le spalle. – Un tipo singolare, vestito di seta e coperto di gioielli…Un capo, suppongo.

– E non era scappato con gli altri? – chiese Leonardo.

– Veramente, non poteva – rispose Folco sogghignando. – Almeno, con una freccia piantata nel ventre…

– Freccia?! – esclamò Leonardo.

– Sì, ma non nostra – spiegò Folco, alzando un’altra volta le spalle. – Qualcuno lo ha infilzato prima del nostro arrivo e lo ha lasciato lì per noi.

– E voi, cosa avete fatto? – chiese Aleramo incuriosito.

– Beh, noi – disse Folco sogghignando ancora e avvicinandosi alla sacca – non avevamo tempo da perdere. Quello urlava… e smaniava… e implorava. Così, lo abbiamo fatto stare zitto. – Poi slacciò la corda della sacca e la capovolse. La testa di Muhammad rotolò sui mosaici del pavimento e si arrestò contro un sedile, mentre un mucchietto di brillanti si spargeva intorno.

Leonardo si scostò inorridito. Quindi si avvicinò cautamente a quel macabro trofeo. – Questo poveraccio doveva avere qualche conto da regolare, immagino – disse, toccandolo col piede. – Ma non capisco i piccioni. Cosa se ne faceva di un branco di piccioni, uno come lui?

– Credo di saperlo io – disse Grimaudo dal suo seggio. Con fatica, il capitano degli arcieri si era voltato verso il sedile al suo fianco. – Quelli – aggiunse, mentre con il braccio buono indicava la gabbia – sono piccioni viaggiatori. Servono a mandare messaggi.

– Messaggi? – ripeté Leonardo stupito. – E come, di grazia?

– Uno scritto, un segno, un simbolo – rispose subito Grimaudo – che si attacca al collo del piccione prima di liberarlo.

– Come questo? – intervenne Folco, frugando nella sacca ed estraendone un bussolotto in pelle con due legacci alle estremità. Dentro c’era un pezzetto di pergamena, accuratamente ripiegato.

Grimaudo assentì col capo. – Come quello – disse. – Così, dall’altra parte sanno com’è andata.

Aleramo, intanto, si era avvicinato a Folco e si era fatto consegnare il bussolotto. Quindi dispiegò la pergamena, la osservò e la passò in giro.

– Questo tizio doveva essere un ottimista – osservò Grimaudo quando l’ebbe per le mani. – Qui c’è il profilo del mare Ligustico e il disegno di una scimitarra che attraversa tutta la costa.

– Un illuso, più che altro – aggiunse Leonardo, dando un altro colpetto alla testa recisa. – Ma, ormai, per lui è finito tutto.

– Per lui, di sicuro – fece Aleramo pensieroso. Poi riprese la pergamena, si avvicinò al bacile accanto a Grimaudo e intinse un dito nel sangue raggrumato. Quindi tracciò una grande croce rossa sulla spada dell’Islam e porse la pergamena a Folco. – Falla partire – sibilò. – Così capiranno che, se qui è finita, per loro è appena agli inizi.

Giancarlo Patrucco

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