Che spettatore? Marziano o … anziano?

(Il cinema del passato e gli occhi di adesso)

Non so niente della letteratura di oggi. Da tempo

gli scrittori miei contemporanei sono i greci.

 Jorge Luis Borges

Mezzo secolo fa il grande critico Robin Wood, purtroppo non più tra noi da quasi un decennio, pubblicando da Seecker & Warburg il suo bel libro su Howard Hawks (che mi sarebbe stato prezioso, dieci anni dopo, nel fare per l’allora La Nuova Italia dei Codignola e di Giovanni Carocci, appena scomparso, la prima edizione del mio librettino), lanciò un giochetto coinvolgente: se doveste spiegare cos’è il cinema a un marziano, che film scegliereste di fargli vedere? Da parte mia -aprì il gioco lui stesso, gli mostrerei Un dollaro d’onore, appunto di Hawks. Coerentemente, avrebbe fatto seguire nel 2003 la piccola bella monografia sul capolavoro nella collezione monografica del British Film Institute, che il «Cinema Journal» dell’Università del Texas ha poi opportunamente ripubblicato per ricordarlo quando salutò.

Rispondere alla domanda, ludica ma rivelatrice, dell’illustre studioso inglese  fu un gioco fortunato e diffuso per un po’ di tempo nell’ambiente cinéfilo. La mia risposta, allora come adesso, sarebbe stata ed è tuttora: Senso di Visconti. Per molteplici motivi, includenti letteratuta e arti figurative, musica e ammirazione per la bellezza, consapevolezza del fatto che il cinema è l’ultima arrivata tra le Muse, grandezza di attori, grazie anche a una forse mai più raggiunta perizia nella loro direzione:  Valli più bella di ogni altra donna sullo schermo, almeno tra le non poche del passato e del presente viste (e quell’anno, sullo schermo del Lido, si trovò a fronteggiare l’altro vertice, la Grace Kelly de La finestra sul cortile; Farley Granger, pervenuto in sensazionale diretta da un doppio Hitchcock (di nuovo!) fondamentale, Nodo alla gola + Delitto per delitto; Girotti ancora stracarico della gloria di Ossessione. E il magistero della doppia fotografia di Aldo e Krasker, che lo sostituì dopo la tragedia di Valeggio; il collegamento alla letteratura militante di allora (il dibattito sul realismo coinvolgente il coevo Metello di Pratolini, Aristarco > Chiarini); infine ancora il fascino –mancato- del concorrere ai dialoghi di Tennesse Williams e Paul Bowles [del di lui nel deserto si dirà più avanti], in previsione di una scrittura di Ingrid Bergman e Marlon Brando, che Visconti avrebbe desiderato ma che invece -per fortuna, visto l’esito!- non ebbe luogo, per il merito incrociato della gelosia di Rossellini e dell’occhio ai conti di Gualino e Gatti alla Lux.

Mi è capitato qualche settimana fa di rivederlo per la davvero ennesima volta, Senso,

programmato nel curioso ciclo (tematicamente demodé!) sul Risorgimento, proposto dal canale all film digitale terrestre del povero Silvio. Con le debite interruzioni pubblicitarie, che, da remoto fanatico di Veltroni (non quello “maggioriario” del Lingotto, intendiamoci: il precedente che voleva far prevalere il suo ”non s’interrompe un’emozione”!), ora invece ho quasi imparato ad amare. Nella vita del pensionato consentono la pausa wc e quella spuntino, la telefonata e il lavaggio delle stoviglie, la fine di una lettura o di una digit/navig/azione che sia in corso.

Avrei potuto esimermene: se mi concentrassi davvero, presumerei di saperne recitare la sinossi sequenza dopo sequenza senza errori od omissioni, se non addirittura di restituire i dialoghi: certo non  in versione letterale, ma sostanziale sì. Ci ho fatto sopra pure la tesi di laurea, e solo il servizio militare incombente mi ha impedito (con altre cose: diventare redattore di Sipario per Valentino Bompiani al posto del grande Franco Quadri: lo rilevarono Mario Serenellini e Cesare Sughi, all’epoca assolventi “gli obblighi di leva” anche loro, ma più coraggiosi di me!) di assolvere all’incarico, affidatomi da Renzo Renzi che non ho mai visto di persona  (allora si faceva tutto per lettera!) di curare la ripubblicazione delle sceneggiature del primo Visconti (Ossessione e La terra trema; Bellissima e appunto Senso) per la grande ma a sua volta defunta casa editrice Cappelli. L’avrebbe fatto al mio posto l’immenso amico di quegli anni Enzo Ungari, a sua volta poi purtroppo acerbamente dipartitosi: Renzi non avrebbe potuto fare scelta sostitutiva migliore, come prima Bompiani.

La persona che assisteva al film con me, oggi parte totale e decisiva della mia vita, ma nata quando Visconti aveva già congedato anche Le notti bianche  e  pensava a Rocco, a un certo punto non ha potuto trattenersi: «Accidenti, bellissimo, certo: però è proprio un film “vecchio”!». Non mi ha colto di sorpresa: era la stessa obiezione che mi sentivo rivolgere negli anni della scuola dai ragazzi, quando proponevo loro, in genere a supporto delle lezioni (per me frustranti nella loro… improduttività) di storia, qualche classico o capolavoro neorealista o comunque film in bianco e nero. Del resto, non a caso, il relativo dvd e la sceneggiatura Cappelli curata da Enzo ci occhieggiavano, da uno scaffale condiviso, lungo i primi quattro anni della nostra vita in comune, ma non mi era mai venuto in mente di proporglielo (del resto, si sa, curiosamente la messa in onda “dal vivo” finisce col prevalere sempre sulle risorse, tanto un tempo sognate quanto oggi poco utilizzate, dell’home video).

Il risucchio del passato. In poche settimane, per non dire d’altro, ci sono sfilati davanti agli occhi, in rapida successione, i grossi carichi hollywoodiani della stagione: Spielberg tanto atteso e attuale (anzi, addirittura doppio, dopo The Post, con la favola ludico-profetica di Ready Player One); Eastwood, visto oltretutto girare alla stazione di Venezia lo scorso agosto; Del Toro col suo Leone appunto veneziano di quegli stessi giorni e la fresca nomina a presidente della relativa giuria l’anno prossimo; Anderson con l’ultima prestazione annunciata del grande Day Lewis. E ci si ritrova a non essere stati attirati dall’ingresso in sala, nonostante tutto, in nessuna di queste quattro mega occasioni. Almeno per il momento: poi certo il dovere del recupero verrà in qualche luogo e forma assolto, prima o poi, con calma.

Non invidio certo i giovani colleghi forzati delle anteprime infrasettimanali e della ferrea necessità di aver visto tutto e di giudicare tutto, o nelle quindici righe a film che il loro quotidiano concede sparagninamente ogni giovedì mattina, schiavo a sua volta dell’assurda calendarizzazione forzata delle uscite preingabbiate con un anno di anticipo, o nella miriade di blog e fanzines on line. Fuori quella settimana e o la va o la spacca, raro riuscire a resistere per una seconda, da urlo l’eccezionalità della terza. Una terrificante quanto imposta bulimìa filmica usa e getta. E’ come se un ipotetico lettore fosse settimanalmente costretto a sorbirsi in un colpo le decine di libri nuovi che i distributori rovesciano, sperando possano resisterci senza essere scalzati prima dai loro stessi nuovi invii, sui banconi delle librerie superstiti. I bravi amici del srttimanale «Film TV» recensiscono in ogni numero (vedere per credere) una ventina di film nuovi: chi teoricamente aspirasse a vederseli tutti, dovrebbe sorbirsene tre al giorno. Come essere a un festival 365 giorni l’anno: un autentico castigo divino!

Non è solo questione di inflazione televisiva, home od ormai hand video, il film che può arrivarti formato francobollo sullo smart. In fondo, in un viaggio in treno ad esempio, è sempre meglio del quotidiano per come sta diventando, meno pesante di un libro anche tascabile, relativamente meno logora-occhi di un e-book.

E’ che il cinematografo di una volta -pensiamo ad Hollywood, per continuare a limitarci a lì- quello dei decenni dai Quaranta ai Sessanta- non lo sanno proprio più fare. Alla smagliante maestosità dei primi studiatissimi technicolor o all’austera definitività degli ultimi bianco&nero, magari in scope, si è sostituita l’esangue monotonia del colore televisivo o la translucida e affaticante precisione superfocale del digital.

Distinguere il capolavoro dalla routine, o la serie dalla pubblicità, si fa sempre più difficile. Il fatto è che la nostra generazione (quella che “non ha fatto la guerra”, come dice Fofi) è stata abituata troppo bene: ha potuto cominciare ad andare al cinema sul serio negli anni in cui uscivano L’appartamento e Colazione da Tiffany, La dolce vita e Rocco, Gli uccelli e L’uomo che uccise Liberty Valance. Come sarebbe stato possibile non lasciarsene trasportare definitivamente?

Prendiamo volutamente cose non fondamentali, anzi: magari le vacanze africane primi anni ‘50 di Ford (Mogambo) o primi ‘60 di Hawks (Hatari!). Oggi oltretutto fattesi, a loro insaputa, politicamente scorrettissime in quanto imperniate sul mito virile della caccia grossa. Come le Nevi del Kilimangiaro di King, estrazione hemingwayana anche per lui, in vacanza nel continente nero addirittura prima degli altri due, o Le miniere di re Salomone di Compton e Marton del ’50 (che, chissà perché, alle elementari frequentate mi mostravano un anno sì e l’altro anche: probabilmente l’unico “sussidio audiovisivo” a passo ridotto allora in possesso!). Ma quello del safari era allora un mito anche femmineo se non soprattutto, prima che Kubelka nel ’66 col suo Unsere Afrikareise sputtanasse tanto gelidamente quanto genialmente uomini e donne travestiti da cacciatori hemingwayani alla Verdi colline d’Africa.

In Ford c’erano addirittura,  Kelly e Gardner, adusa a fare l’esotica (anche in Sangue misto di Cukor: qualche anno dopo, stupendamente fanée, invece l’europea in salsa esotica nelle legazioni prese d’assalto dai boxers: 55 giorni a Pechino di Ray). L’irraggiunta Ava (l’unica forse atta a farmi cambiare idea sul primato di Alida) per fare Mogambo, già che era lì, si era addirittura fermata in Africa all’indomani del Kilimangiaro. Più “sportivamente” moderne, dieci anni dopo, Martinelli e Girardon con Hawks. Ma prima di gettare la croce addosso in chiave animalista a queste splendide creature, vanno messe nel conto positivo le loro stupende relazioni affettive con gli elefantini, perfettamente à la page col pantanimalismo di oggi. Tanto di Gardner -nel film, che la contrappone al personaggio di Grace, solo sullo schermo liliale …- incarna fascinosamente una “donna con del passato” che fa Kelly di cognome!- in Ford, quanto di Martinelli -che è italiana anche nel film: d’Alessandro…- in Hawks.

Mi è capitato recentemente di rivedere con calma, non svagato e intermittente, ma fermo e concentrato come sempre di dovrebbe e raramente purtroppo capita, Il ponte sul fiume Kwai. L’ho trovato assolutamente perfetto da tutti i punti di vista, che mi ha rafforzato nel ritenere Lean uno dei maggiori narratori del Novecento in assoluto, da questo punto di vista forse superiore agli stessi Ford “il narratore”, come lo definì per antonimasia Aprà), Hawks e Walsh. E ho scoperto chiaramente in me la forse latente ma fortissima suggestione dei colossal, fin dalle origini. Per le stesse misteriose ragioni per cui leggo più volentieri un romanzo di mille pagine che uno di 150, chissà perché (ho letto e amato alla follìa quel capolavoro incredibile in tre volumoni, ormai totalmente rimosso che mai non lo fu dall’origine, che è La buca di San Colombano di Bonsanti: in quanti siamo? Ho ripreso e sto amando alla follìa Il mulino del Po: Bacchelli è davvero il Manzoni del secolo scorso…). Sono un po’ refrattario alle culture asiatiche, ma il monumentale Storia di Genji della Murasaki mi ha stregato, e potrei continuare, Proust e Mann  in testa.

La passione filocolossal la farei addirittura partire dal… 1939 (io per fortuna non c’ero ancora, ma più mani oltre oceano lavoravano travagliosamente a Via col vento). Ma quando nel dopoguerra uscirono, quasi appaiati, il primo in recupero e il secondo a tempo più o meno reale, Via col vento e Duello al sole, la signora a nome Ebe che veniva a farci le pulizie in casa, mentre lavorava di spazzolone o asse di legno per lavare, lo raccontò tante volte, che quando finalmente riuscii a vederli, già da adulto, mi sembrava di conoscerli davvero da sempre. Certo, la simpatica non ancora, all’epoca, colf (che di cognome faceva Spaventi: riposi in pace con tutta la mia riconoscenza!) non poteva sapere che l’uno e l’altro erano frutti comune della geniale megalomania di Selznick (lo stesso che avrebbe attratto ad Hollywood, con diverso esito, e Bergman e la sua alter ego viscontiana a posteriori Valli…), e che dietro la macchina da presa per l’uno e per l’altro si erano alternati tragicamente più cineasti (per il primo, Cukor, Wood e due volte Fleming; Dieterle, Brwer, Sternberg e Vidor per il secondo, anche se in entrambi i casi solo l’ultimo nell’ordine avrebbe potuto firmare), ma tant’è: il virus del colossal me l’aveva inoculato al tempo delle allora tutt’altro che  contestate vaccinazioni infantili.

E così nel giro di pochi anni sarebbero venute, senza guardare troppo per il sottile, le passioni infantili per La tunica (che inaugurò il nuovo cinema dell’oratorio) e I dieci comandamenti, che mia madre ci portò a vedere coi panini, Guerra e pace di Vidor e Soldati e il già ricordato Ponte che ha dato la stura a questo pezzo irresponsabile a ruota libera, Ben Hur e persino Cleopatra da cui allora mi tenni moralisticamente e ideologicamente lontano, ma che oggi aspira anche lei alla classicità postuma, Il formidabile Il giorno più lungo a più mani di Zanuck (antecessore, non così rudimentale come sembra, più che del pur splendido Soldato Ryan, addirittura di Dunkirk: e io lo dice uno che aveva fatto in tempo a vedere, quando uscì, il Dunkerque di Leslie Norman, 1958!). Lo straordinario Lawrence dArabia, e a questo punto perché no Zivago? Si sarebbero messi entrambi su di un’analoga, fascinosa strada, con misteriosa simultaneità nel ’75, il vecchio Huston con Luomo che volle farsi re e il giovane Milius con Il vento e il leone.

Posso spingermi a includere, strafacendo, il doppio Bertolucci di Novecento e dell’Ultimo imperatore (anche se di Bernardo, oggi, il film che sa ancora stregarmi maggiormente è forse il non consideratissimo nel deserto). Ma qui siamo giunti addirittura quasi sull’abbrivo degli anni Novanta, e allora decisamente mi fermo!

A contatto con altri spettatori, se anche di poco più giovani, mi rendo conto di essere definitivamente vincolato a un modello di cinema “del passato”, ormai dai più avvertito inesorabilmente come tale: è l’eterno problema dei classici. Se tornassi indietro, opterei probabilmente per l’iscrizione a lettere classiche anzi che moderne, in quanto, con la complicità distruttiva del tempo, sarebbe realistico pianificare, nella durata della vita, la lettura integrale di tutto quanto (poco) resta delle letterature greca e latina, mentre la Biblioteca di Babele di quelle moderne è una matassa di disperazione dal capo irraggiungibile. Più in generale, mi rendo conto anch’io, come penso molti prima di me, che a una certa età, volente o nolente, ti si forma nella mente un canone rigido e difficile da scalzare, per cui, al cinema come a teatro, davanti alla pittura o alla musica, con un libro tra le mani o addirittura programmando un viaggio, la spinta a rivedere e approfondire determinati testi già noti, e magari, anzi, addirittura familiari, finisca dentro di te per avere quasi sempre la meglio sulla ricerca o sul desiderio della novità. Qui probabilmente non c’entra più nulla il marziano digiuno di tutto ipotizzato dalla buonanima di Robin Wood (non Hood…). E’ una faccenda che riguarda semplicemente, con tutta probabilità, ogni…anziano convinto (a torto) di saperla già troppo lunga.

 

(<Diari di Cineclub> 61, maggio 2018)

 

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