Il telefono ai tempi del corona virus

Ovvero come provare ad esser meno isolati

Stamattina, compilando il rilevamento “Alessandria come stai” ho suggerito ai miei concittadini, per combattere efficacemente la solitudine e l’isolamento provocati dalla quarantena, di dimenticare whatsapp, sms, facebook, twitter, email, ecc. e di ricominciare ad usare la funzione “voce” dello smartphone. Garantisco che continuerà a funzionare, magari si offenderà un poco e si chiederà chi è il troglodita che usa un sistema di comunicazione così obsoleto come la voce, ma voi non fateci caso e tirate dritto per la vostra strada. Dopo un paio di giorni vi accorgerete che l’ascolto (e la temporanea presenza) dei vostri interlocutori e persino il suono della vostra voce vi darà l’impressione d’aver spezzato l’incantesimo lockdown: meglio e più di quanto possano fare radio e televisione e col vantaggio che non vi verrà mai il sospetto di aver interloquito con frau Gruber o Bruno Vespa o Giletti o, Dio vi perdoni, madame D’Urso (cosa che prima o poi vi porterebbe a confessare al frigorifero la vostra colpa).

Sono di una generazione cui i social media non appartengono in nessun modo: ci siamo adattati per non restare esclusi dal mondo, ma fatichiamo a rinunciare alla fisicità rassicurante del giornale cartaceo e ad adattarci alla volatilità insignificante dei testi virtuali. Oggi più che mai usando i social ci si illude di entrare in una comunità – parliamo e interveniamo a proposito e a sproposito facendo nel contempo mille altre cose – mentre in realtà affianchiamo la nostra solitudine con quella altrui senza dialogare, cioè senza interagire, davvero. Un etere del terzo millennio disegnato da Antonioni!.

Abbandonando i tasti e utilizzando il microfono, lo stupore, la commozione, il riso, l’esasperazione, la rabbia e la gioia passano direttamente da un interlocutore all’altro ricuperando una funzione chiave della comunicazione tra le persone: col “viva voce” in tre o quattro ci si ritrova in un’agorà solo sino a un certo punto virtuale, pare di tornare ad una socialità pre-Covid19. Provare per credere.

 In chat invece non si può chiacchierare come pretenderebbe di significare il termine “chat”, perché questo è privilegio del “viva voce”; cioè trasmettere le emozioni che rendono viva la comunicazione al contrario di quei simboli standard, gelidi anche quando vorrebbero esprimere calore: pollici versi o recti, cuori e stelle a bizzeffe e peggio ancora. Ma anche altri sono gli svantaggi della rinuncia alla funzione “voce” a favore di strumenti di comunicazione come “feisbùc” e “uozàp”, ecc.: è la quantità di rumore di fondo (io direi entropia) che questi social generano e mettono in circolazione. Energie sprecate quelle tonnellate di news, racconti, barzellette (non aprire mai quelle di Berlusca, loffie e grevi), scenette, manifesti, link, post,  pensieri, ecc. ecc. che anziché chiarire in genere confondono: virali perché nel giro di poche ore fanno il giro del mondo e ritornano a chi le aveva lanciate; perniciose perché che agiscono da filtro trasformando una persona che ami in membro di una chat, cioè una persona in una – per dirla alla Woody Allen – “astrazione simbolica”, o semplice identità virtuale.

L’altro aspetto positivo non marginale della funzione “voce” è la possibilità di ricuperare quell’idioma che grazie al cielo per il 99% degli italiani è ancora il più efficace e preciso strumento di comunicazione dentro i confini del Bel Paese.  Perché non rinunciare a “chat” che propriamente una chiacchierata non è, come non è detto che i chattanti (mi piace italianizzare l’anglico) siano davvero una brancata di amici anziché un ingorgo casuale di nicknames (e perché mai “soprannome” o “nomignolo” non vanno?). Un altro termine che mi da fastidio e che cancellerei volentieri è il recentissimo “lockdown” che non solo comporta reminiscenze di confinamenti e relegazioni non precisamente simpatiche, ma è decisamente più impreciso di “quarantena”, “isolamento”. E per finire “spam”: ma perché questa astrusa abbreviazione-contrazione di “sp(iced h)am” ovvero carne di maiale speziata (Wikipedia), quando di pattume si tratta (o di entropia, il che è in fondo lo stesso)?

Guido Ratti

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