Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 6) La governabilità tra gli Stati

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 6) La governabilità tra gli Stati

La situazione economica e istituzionale in cui viviamo oggi in Occidente, e soprattutto in Italia, a mio parere è talmente drammatica che potrebbe diventare “tragica”, soprattutto in riferimento all’attuale epoca di globalizzazione economica. Non parlo dell’attuale pandemia, che per altro è essa stessa un momento di rilievo della globalizzazione, che ormai concerne l’internazionalizzazione immediata anche delle epidemie: vorrei, piuttosto, soffermarmi – almeno di sorvolo – su taluni aspetti cosiddetti strutturali. In specie sul seguente: in quest’epoca, lemme lemme, è capitato qualcosa che non si era mai verificato nel mondo dalla nascita degli Stati nazionali in poi (diciamo negli ultimi seicento anni): la perdita di molta parte del potere di avere una politica economica relativamente indipendente dall’esterno nei territori di ogni singolo Stato. Ogni Welfare State, all’ombra delle democrazie come delle maggiori dittature del secolo scorso, aveva presupposto se non l’indipendenza economica di ogni Stato, che non c’è mai stata, quantomeno ampi spazi d’indipendenza nella politica economica interna, che consentivano ad esso di fare una politica economica propria senza per questo cadere in balia di forze economiche esterne. Non è più così, neanche per l’America (figuriamoci per noi). Siccome il mercato mondiale – realizzando il quadro che Rosa Luxemburg aveva ritenuto premessa necessaria del “crollo” planetario “del capitalismo”[1] – si è mondializzato; e siccome con un clic di computer si spostano i capitali dove si voglia; e siccome ogni investitore può investire dappertutto, ovviamente andando dove costi meno per lui; e siccome le merci, tra cui la forza-lavoro, volenti o nolenti concorrono tra loro, per essere smerciate al migliore offerente, in un unico mercato mondiale; e siccome i lavoratori costretti a vendere la loro forza lavorativa, la loro energia lavorativa, la loro propria merce, lo fanno determinando, involontariamente, il prezzo più basso della loro stessa prestazione (per la concorrenza mondiale di tutti con tutti ormai pressoché sregolata, con ammortizzatori sociali di tipo nazionale sempre più difficili da sostenere in questa competizione totalmente mondializzata), le soluzioni redistributive – tipiche del riformismo – e il Welfare State stesso, sono o bloccate, o ridimensionate, o aggredite dappertutto, costrette a stare sulla difensiva invece che a espandersi gradualmente come in altre epoche. In pratica non c’è un governo al mondo che possa prescindere da tale contesto globalizzato, anche se ci sono diverse capacità di resistenza ad esso. I governi remano tutti contro vento, ovviamente con differenti capacità di tenere il mare. Mentre sino a due o tre decenni fa ogni Stato era relativamente indipendente in politica economica, ora ogni Stato è relativamente dipendente in tale ambito, costretto a difendere spazi di intervento sempre più pesanti a reggere nella competizione economica globale. Tali spazi sono tanto minori quanto più uno Stato sia economicamente debole. E quasi ogni Stato “piccolo”, pur con talune eccezioni nei paesi arabi del petrolio o in “paradisi fiscali”, è economicamente debole.

Alcuni pensatori – sempre ben discutibili, ma a mio parere spesso geniali, come Antonio Negri e Michael Hardt – hanno potuto sostenere che al di sopra degli stati si è ormai formato – includendo gli Stati, come altri tipi di potere – un assetto mondiale che si autoregola come vero mondo-uno, e che essi chiamano “Impero”: assetto che o annulla il ruolo degli Stati o li trasforma in variabili dipendenti di se stesso. Di tale “Impero” – che schiaccia più che mai i lavoratori del mondo, siano essi manovalanza o, come sempre di più nei maggiori centri produttivi occidentali, in tuta bianca – gli autori per la verità pronosticano il “crollo”, sotto l’urto della “moltitudine” oppressa. Per essi “Ha da venì” … il proletariato: anche se secondo loro è già venuto, esprimendosi in una sorta di insubordinazione “permanente”, sempre sopra le righe, a base di scaramucce e esplosioni continue di protesta e violenza dal basso: esplosioni viste come rivoluzione in cammino, lotte di “lunga durata”, forma aggiornata della “rivoluzione permanente” teorizzata dal Leone “Trockij” quasi cent’anni fa[2].

Per parte mia però ritengo che l’insieme degli Stati resti il soggetto collettivo centrale: solo che la loro “solita” competizione reciproca pone problemi immani in un mondo sempre più interdipendente, globalizzato, anomico. Il duopolio sovietico-americano, frutto della seconda guerra mondiale, è finito da tanti anni, e i conflitti – oltre a tutto nel mondo interdipendente della globalizzazione – sono più o meno privi di potenze regolatrici, anche competitive, di tipo planetario.

Il “contesto” sembra avere una prima conseguenza imprescindibile: in linea generale si può affermare che per avere un reale e consistente potere sulla vita economica interna occorra avere una potenza statale almeno continentale: il che può essere realizzato senza guerre, ma certo con forzature non di poco conto, solo tramite un composto di stati in ogni continente (tra loro federati, in forma di “Stato di Stati”).

Ora in ogni Stato moderno ci sono tre poteri fondamentali: il legislativo (potere parlamentare), l’esecutivo (potere governativo) e il giudiziario (potere sanzionatorio dei tribunali). In tempi passati si poteva pensare che un potere esecutivo molto debole fosse una specie di salvavita per i liberi cittadini e lavoratori (anche se il discorso era miope e pericoloso anche allora, come qui ho provato a spiegare più volte: però si poteva pure “rischiare”, considerando il governo debole come “minor male” contro tendenze autoritarie). Ma ora, nella situazione di cui si è detto, ogni governo rema contro vento, come quelle canoe di certi film western che cercavano di andare controcorrente a forza di pagaia per evitare le rapide. Vale pure per Cina e Stati Uniti.

Ciò premesso, l’idea che l’Italia possa permettersi lussi che non possono permettersi i suoi fratelli o fratelli-coltelli di sempre dal 1848 ai giorni nostri, cioè Francia e Germania, a me sembra non so se più velleitaria o più infantile. Solo un governo democraticissimo (perché quello autoritario corre sempre troppo il rischio di ammazzare il malato “per curarlo”, sottoponendolo a troppi interventi “chirurgici” e relative pesanti “anestesie”), può resistere in tali frangenti: ma solo a patto che esso non sia o permanga un fuscello, né nei confronti del potere legislativo (parlamentare) né del giudiziario (dei magistrati), ma abbia con essi un confronto almeno alla pari. E si associ con altri Stati.

Invece i governi, dopo taluni tentativi precari o di centrodestra o di centrosinistra, in Italia sono diventati sempre più impotenti, e anche di assai basso profilo, pur con ovvie eccezioni. Certo per molte buone ragioni. Non ci sono partiti di centrosinistra – o riformisti, o riformatori, o democratico rivoluzionari – solidi e motivati, e non possono nascere con la bacchetta magica: con le grandi idee epocali condivise; programmi concreti, ma fatti per durare molti anni; leader preparati, autorevoli e un tantino carismatici che tengano il timone per lunghi periodi; e innumerevoli militanti per scelta di vita, o comunque per decenni. Il PD, nato e cresciuto debole – in quanto ircocervo che non era e non è né socialista né democristiano, ma un po’ l’uno e un po’ l’altro – pur avendo anche alcuni statisti molto buoni, e comunque i migliori, o i meno peggiori, statisti della Repubblica se appena si faccia un confronto onesto tra le forze in campo – è così debole politicamente, in questa fase, da subire il ricatto, cioè l’egemonia di fatto, di un Movimento 5 Stelle che pure non è capace di far nulla. Con ciò il PD disperde i suoi notevoli “talenti”, o quantomeno li depaupera.

C’è anche, in giro, un trasformismo pauroso, per cui da un anno all’altro si possono rovesciare le alleanze come se niente fosse. Conte, l’attuale “premier”, è l’eroe di un tale contesto: bravo, come un Andreotti giovane.

E si potrebbe seguitare.

Non solo il potere esecutivo non si è rafforzato, diventando in un modo o nell’altro di legislatura (prima condizione) ed espressione del voto dei cittadini (seconda condizione), ma senza di ciò, e senza partiti forti come supporto, e con un potere giudiziario sempre più segnato da correnti interne e strani poteri di interdizione, si è sempre più indebolito. Non so che accadrà dopo le elezioni referendarie e regionali in corso, ma so che se non arriveranno coalizioni di governo con personalità di alto profilo, e seguiterà una politica economica di galleggiamento – persino nella fase in cui dalla UE arriveranno oltre duecento miliardi di euro, cioè più soldi che al tempo del piano Marshall, e per ciò si perderà o sarà anche solo parzialmente perduta l’occasione per far ripartire come non mai tutto il Paese – la destra populista andrà al potere con matematica certezza, e ben presto – persino se essa non lo sapesse ancora e per assurdo non lo volesse – precipiteremo nella “democratura”.

Siamo nell’epoca della globalizzazione, in cui ogni piccolo naviglio deve essere governato “contro vento”. Anche per questo, non avendo voluto rafforzare il potere governativo, rendendolo almeno di legislatura, per via riformista, precipiteremo nel governo forte “da destra”. Con tutti gli effetti indesiderati ben noti, “L’Ungheria” è vicina.

Ma il tutto ha una valenza sia internazionale che ideologico politica, che è quel che qui mi interessa di più, e rispetto a cui “l’Italia” è appena un caso (limite), di cui per altro qui ho già parlato persino troppo.

La prima lezione di tipo internazionale da trarre, rispetto al fenomeno della globalizzazione e alla connessa necessità di continentalizzazione della forma-stato, la formulerei così: nel mondo della globalizzazione possono reggere il confronto con le economie e potenze concorrenti solo Paesi vasti e ricchi più o meno come continenti; e dotati, inoltre, di un potere esecutivo totalmente democratico, ma sanzionato dal voto dei cittadini e con durata di legislatura (come dicevo).

Questo è il senso stesso dell’Unione Europea: ammesso, e per ora non concesso (ma nemmeno escluso), che essa riesca a diventare quello che i padri fondatori avrebbero voluto, e che ancora oggi i federalisti vorrebbero: uno “Stato di Stati”[3]. Era nata per garantire la pace in un’area che aveva fatto due guerre mondiali in cui erano morte ottanta milioni di persone. In seguito aveva potuto muovere i primi passi, nella guerra fredda, per controbilanciare il blocco o “impero” sovietico. Ma poi è diventata una necessità economica, nell’era della globalizzazione. Tra i più lucidi fondatori che vi hanno scommesso c’era Jacques Delors, il quale sosteneva che l’Unione Europea si sarebbe sviluppata per necessità economiche impellenti che sarebbero emerse via via.

Ora l’Unione Europea è una specie di cantiere perennemente aperto, come una di quelle case o persone che sembrano sempre sul punto di schiattare e poi si riprendono.

L’UE, persino senza volerlo nella sua maggioranza, per ragioni storiche impellenti tende a diventare non solo quella che gli studiosi chiamano una confederazione, cioè un’unione di Stati “sovrani” che formano un mercato comune e una sorta di alleanza a tempo indeterminato ma tenendosi ben stretti tutti i loro poteri nazionali, ma una “federazione”, ossia uno “Stato di Stati”, un “composto”, come gli Stati Uniti o l’India. Per ora è un po’ confederazione e un po’ federazione. In materia giuridica il diritto europeo prevale su quello nazionale (tratto federale). E il principio dell’unanimità tra Stati o governi membri nel decidere si è un po’ allentato, pur restando di gran lunga imperante. Comunque la straordinaria massa di miliardi di euro messa in campo per far fronte alla crisi del Coronavirus, specie nei paesi più esposti, è un vero atto di federalismo; e anche l’acquisto di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea è andato e va al di là del confederalismo, pur con l’anomalia di una moneta senza Stato europeo (anomalia però indicativa di uno Stato di Stati “in fieri”, di cui la nostra “Storia” è incinta). Naturalmente c’è qualcuno che essendo più forte economicamente se ne avvantaggia di più, ma non riesco a stupirmene più che tanto: del resto la buona amministrazione che ha reso i più forti ancora ancora più forti, anche nelle crisi, come in Germania, è stata frutto di oculatezza. L’idea delorsiana, comunque, era che passo dopo passo, per affrontare i problemi comuni impellenti, saremmo stati costretti, come UE, a diventare sempre un poco di più “Stato di Stati”. È ovvio che finché non ci sarà una politica estera e finanziaria comune, votata a maggioranza dal parlamento europeo (che in politica estera e finanziaria s’imponga immediatamente agli Stati membri), l’Unione Europea non sarà Stato di Stati, cioè uno Stato pluricefalo. Potrebbe diventarlo, ma anche non diventarlo. Potrebbe persino saltare per aria la stessa UE, anche se sarebbe una catastrofe, e comunque un danno colossale per l’Italia.

Tuttavia le cose di cui si è detto su moneta unica, acquisto di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, fondo salva stati e ora, a livello di proposta della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, già tra i protagonisti del governo tedesco, per una gestione europea dei flussi migratori, fanno ben sperare. Se son rose, fioriranno.

Tutto ciò ha due conseguenze: una a livello della relazione tra gli Stati e una sulla relazione tra “destra” e “sinistra”. L’Unione Europea è una scommessa con la storia. Nessun grande Stato è mai nato così (però c’è sempre una prima volta). In apparenza sono nati così gli Stati Uniti, da un accordo di liberi stati (tredici ex colonie in un immenso paese di quattro milioni di cittadini in tutto); ma al di là delle parole iniziali della dichiarazione d’indipendenza del 1776 “noi, popolo degli Stati Uniti”, riprese poi nella Costituzione, il tutto divenne uno Stato di Stati “vero” solo tramite la guerra di secessione del 1861-1865 tra nordisti e sudisti, che fu sanguinosissima. Solo allora l’ibridismo tra l’essere confederazione o l’essere federazione, tra l’essere alleanza forte tra Stati sovrani o “Stato di Stati” sovrano, fu superato.

Ciò posto l’Unione Europea potrà regredire alla semplice confederazione tra Stati in tutto e per tutto sovrani oppure diventare un vero Stato di Stati. Se il gioco dei singoli Stati frena la formazione di un vero Stato di Stati, l’interesse a diventarlo potrà aiutare a realizzarlo ugualmente. Tanto più che le conseguenze di uno scacco – pure possibilissimo – sarebbero molto pesanti. Intanto, in caso di scacco dell’UE, l’Europa dimostrerebbe di essere uguale, né più né meno, alla Grecia antica al tempo della conquista macedone, e soprattutto romana: civilissima e faro di civiltà, e forse anche di un bel vivere o miglior vivere, ma incapace di unire in un blocco permanente le sue città-stato (qui i suoi Stati), e per ciò destinata alla decadenza storica e a sottostare al dominio altrui (Stati Uniti o Russia o Cina, o un po’ ciascuno di tutti e tre).

Inoltre l’alternativa al federalismo – che a livello di Stati già uniti mi pare un regresso, e a livello di Stati da unire un grande progresso – è la ripresa della lotta degli Stati nazionali per la potenza, teorizzata da Treitschke e descritta in tutti i suoi risvolti tragici da Meinecke.[4] Se la Germania in extremis ha accettato che tramite la UE si pompassero ottocento miliardi di euro o più per far fronte al disastro del Coronavirus non l’ha fatto solo perché sulla barca che fa acqua c’era anche “lei”, che certo se la sarebbe cavata comunque, ma perché ha capito che l’abbandono al suo destino dell’Italia e della Spagna, dopo che era già uscita la Gran Bretagna, avrebbe fatto crollare con certezza matematica l’Unione Europea. In tal caso, invece di mantenere un rapporto da prima inter pares in un’Unione Europea di ventisette stati (sia pure un po’ a mezzadria con la Francia), la Germania avrebbe dovuto competere, “come le altre volte”, e magari con risvolti terribili. Il problema è europeo, ma anche mondiale. Infatti, nel mondo, o va avanti la continentalizzazione federativa tra gli Stati, e persino la confederazione tra Stati continentalizzati, o torna la competizione delle grandi potenze, di cui i nazionalismi, o populismi di destra, che rinascono come non mai, sono espressione: ideale, politica ed economica. Il federalismo internazionale è la sola alternativa a possibili nuove guerre più o meno mondiali[5], anche nucleari. Le bombe sempre più potenti sono fabbricate sempre perché potrebbero essere usate, per quanto sia spaventoso pensarlo.

La prospettiva, tanto più in un mondo globalizzato economicamente e culturalmente (elettronica, lingua inglese e contatti di tutti con tutti) sono gli Stati grandi come continenti, come la Cina, o l’India, o gli Stati Uniti, o il Brasile, costituiti o con le cattive maniere (come quasi sempre nella storia) o con le buone (federalisticamente, come da decenni si prova a fare in Europa).

La via della potenza degli Stati-nazione, ma forse dovremmo dire Stati-impero (e forse già Hitler era post-nazionale, col suo sogno di un impero “ariano”, germanico e non solo tedesco, ottenuto schiavizzando popoli “contigui” ritenuti nemici), è incombente. Già parecchi anni fa il maggior studioso italiano di Gandhi, Giuliano Pontara, diceva, in un suo libro, che Hitler stava tornando di moda[6]. E lo diceva prima della rinascita planetaria del populismo di destra.

Questo si connette a un fenomeno, mondiale e italiano, che di proposito ho lasciato per ultimo: la reazione di destra alla globalizzazione.

Il tutto ci richiama a quello che potrei dire un piccolo abbozzo di filosofia della storia, che esprimerei così: in politica, a livello di singolo Stato come di sistema degli Stati, sono possibili tre tipi di risposta, che hanno a che fare tutti col “fattore tempo”.

Una è la risposta che si attiene al presente cercando di governarlo. È la risposta del riformismo. Così nel XVIII secolo, al culmine della rivoluzione scientifica iniziata il secolo prima, e mentre in Inghilterra arrivava la grande prima rivoluzione industriale, presto dilagata in tutta l’Europa continentale e in America del Nord, ci fu l’Illuminismo, con l’assolutismo illuminato. Questo assolutismo illuminato era il riformismo nell’assolutismo, dal cui scacco o insufficiente portata venne la Rivoluzione francese, ma pure il bonapartismo, che era un nuovo autoritarismo, figlio anche di essa. Pure il riformismo del tipo prevalso in Europa sino alla globalizzazione – keynesiano sul piano economico, e socialdemocratico o/e cattolico democratico sul piano politico – è stato una cosa del genere: una forma di riformismo. Questo riformismo è anche sempre stato la via per evitare al mondo capitalistico e liberaldemocratico una catastrofe o di tipo reazionario o rivoluzionario.

La seconda risposta è quella di chi dal presente vuol balzare nel futuro, spingendo il riformismo a farsi riformatore, riformatore rivoluzionario, o tout court rivoluzionario. Mentre il “riformista” guarda al futuro sempre in vista del presente, il riformatore o vero rivoluzionario guarda sempre al presente in vista del futuro (per passare oltre).

Ma c’è una terza risposta, che il dittatore Salazar, pensando alla sua tendenza fascistoide portoghese, definiva “futurismo del passato”[7]: insomma, la via del provare a tornare al passato, al tempo anteriore alla grande crisi storica, al mondo che c’era stato o che si pretendeva ci fosse stato prima degli immani e drammatici mutamenti indesiderati. In sostanza è la risposta reazionaria, di chi vuol rimettere indietro l’orologio della storia, tornando al passato, ben inteso in modo “ammodernato”. Naturalmente ci sono anche quelli che vogliono tornare al “com’eravamo” più o meno in tutto e per tutto: i nostalgici di destra o di sinistra. Ma si può anche, nell’ambito di un ragionamento schematico, non tenerne conto, anche se di tanto in tanto le forze maggiori del loro “campo” li vezzeggiano – ciascuno per la parte sua – per il “loggione”: quasi sempre per “raschiare il barile” alla ricerca degli ultimi voti “utili”.

Ora la risposta riformatrice, o riformatrice rivoluzionaria, o rivoluzionaria è stata tentata più volte, nel Novecento. Nell’Ottocento, in senso liberale e nazionale la via rivoluzionaria si era pur affermata. Ma nel Novecento, per conto del movimento operaio (e socialista e comunista), la via riformatrice o riformatrice-rivoluzionaria – insomma socialista e proletaria – in Europa occidentale e nell’America del nord è sempre fallita. (Si era sì affermata in Europa orientale, ma solo in seguito all’occupazione militare da parte dell’URSS, finita con questa, nel 1991, per cui in pratica si può ben dire che nel cosiddetto mondo dell’uomo bianco la sola rivoluzione proletaria riuscita, anche se poi “degenerata”, in un decennio culminato nello stalinismo, sia stata quella russa dei soviet del 1917).

Invece in Europa occidentale è stata per lunghissimo tempo operante la via riformista, keynesiana e costruttrice del Welfare State, che ha scritto tante pagine gloriose, ma che ora è bloccata o resa molto più difficile dalla globalizzazione. In Europa occidentale – sino alla globalizzazione e alla rivoluzione elettronica – ha vinto l’ottica “riformista” del governare “il presente”, ovviamente tenendo d’occhio sia il passato che il futuro incombente. Ma l’età della globalizzazione ha messo in crisi il riformismo in tutto il mondo, e segnatamente in Italia.

La crisi ha anche molto a che fare con una grande crisi del mandato sociale implicito della sinistra. Finito il mondo delle grandi fabbriche “fordiste”, e con un proletariato incalzato dalla concorrenza dei dannati della terra, il socialismo è in gravissima crisi (e così il democraticismo americano), mentre il movimento verde, che pure nella mia ipotesi è – in alternativa al socialismo oppure a sua integrazione – il nuovo “ridente” sol dell’avvenire[8], è ancora all’infanzia, pur promettendo molto bene in Germania e anche in Francia.

Nello scacco dei riformisti (forza del presente) e dei riformatori o/e rivoluzionari (forza del futuro) crescono i reazionari (forza del passato), con tutte le sfumature possibili e immaginabili: insomma, cresce il futurismo del passato. Le forze con tale orientamento vanno dal nuovo conservatorismo al “fascismo senza fascismo”. Qui si ha un fenomeno impressionante dell’epoca presente: la capacità dei reazionari o semireazionari di rinnovarsi, mentre l’area progressista sembra che non ne sia stata e sia, nell’insieme, più capace. C’è un tentativo di restaurazione impressionante: nell’America di Trump, nella Russia neo-nazionalista di Putin, nell’India di Modi, nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan, nell’Ungheria di Viktor Orbàn. Forse il galeotto Bannon, imprigionato in America per reati finanziari, ma già ideologo di Trump, andrebbe studiato (non per valorizzarlo, ma come dal 1925 sarebbe stato bene studiare il Mein Kampf di Hitler, allora pubblicato, così da non subirlo poi nei modi tristemente noti).

Anche in Italia la destra si è riciclata parecchio, da Forza Italia del Berlusconi del 1994 alla Lega nazionalista di Salvini e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Questo è tutto “partitismo” vero, specie nell’area Lega e Fratelli d’Italia: un partitismo rinnovato che invece a sinistra non è riuscito a venir fuori. Comunque appare chiaro che se i riformisti o non sono “capaci” di affermarsi o sono “fatti fuori”, in primo luogo dai loro stessi “amici”, e se i riformatori o riformatori rivoluzionari non sanno né assorbire l’anima riformista e neppure allearsi con essa invece di distruggerla, alla fine invece del “vince-remo” – come dicevano gli operai del mio Borgo San Paolo natio di Torino facendo il verso al “Vinceremo” mussoliniano nella seconda guerra mondiale – “vince-romolo”. Gli scongiuri sono ammessi.

di Franco Livorsi

  1. R. LUXEMBURG, L’accumulazione del capitale (1913), Einaudi, Torino, 1960.
  2. A. NEGRI – M. HARDT, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), Rizzoli, Milano, 2002; Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli, 2004. Ma si confronti pure con: Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, 1992 e Manifestolibri, Roma, 2002.

    Si veda pure: L. TROCKIJ, La rivoluzione permanente (1928), Einaudi, Torino, 1967.

  3. Su ciò si veda ora soprattutto: C. MALANDRINO – S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storie e prospettive, Carocci, Roma, 2020.
  4. H. von TREITSCHKE, La politica (1899), Laterza, Bari, 1918; F. MEINECKE, La catastrofe della Germania (1946), La Nuova Italia, Firenze, 1948. Si confronti con: L. DEHIO, La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), Comunità, Milano, 1962.
  5. L. LEVI – A. MOSCONI (a cura), Globalizzazione e crisi dello Stato sovrano, Celid, Torino, 2005.
  6. G. PONTARA, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Gruppo Abele, Torino, 2006, specie pp. 29-68.
  7. Si veda la parte sul portogallo in: S. J. WOOLF, Il fascismo in Europa, Laterza, Bari, 1968.
  8. F. LIVORSI, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000.

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